A Gamba Tesa/ Milan Kundera
“Tenendomi come sono, con un piede in un paese e l’ altro in un altro, trovo la mia condizione molto felice, in quel suo essere libera.” René Descartes
Lettera alla principessa Elisabetta di Boemia, Parigi 1648
L’arte della fedeltà
Milan Kundera
traduzione di Massimo Rizzante
La pratica universitaria studia la letteratura quasi esclusivamente all’interno del quadro nazionale: di Broch si occupano solo i germanisti, di Joyce gli anglisti, di Proust solo i francesisti. Da sempre trovo questa pratica insufficiente.
Come comprendere l’originalità di Broch o di Proust se non si prendono le mosse dalla problematica sovranazionale del romanzo moderno? Se uno studente vuole scrivere una tesi su Gombrowicz, i professori esigeranno che egli conosca il polacco. Grazie a questo ‘nazionalismo’ universitario, si condannano tutti gli studi su Gombrowicz – anche quelli condotti lontano dalla Polonia – ad un curioso provincialismo internazionale.
L’esigenza di studiare un autore esclusivamente nella sua madrelingua testimonia di un rigore scientifico o di pedanteria? Chi non ha letto Kierkegaard in danese non ha il diritto di discuterne l’opera? Tuttavia non è completamente assurdo chiedersi: un’opera letteraria è del tutto traducibile? Si può far passare da una lingua all’altra tutta l’intenzione estetica di un autore? Ecco la scommessa. La grande scommessa della traduzione. La letteratura universale, infatti, può esistere solo se esiste una traduzione fedele.
Ora, si dice: la traduzione è come la donna: o è fedele o è bella. Questo è l’adagio più stupido che io conosca. La traduzione, infatti, è bella se è fedele. Mi si obietterà che questo non è possibile: nessuna parola di una lingua trova un suo equivalente assoluto in un’altra. Sì, è evidente. Sehnsucht, la celebre parola della poesia tedesca, non significa né desiderio né nostalgia, e il traduttore deve inventarsi un modo il più preciso possibile per renderne il senso in francese: con una parafrasi? Con l’aggiunta di un aggettivo? Con un neologismo? La fedeltà di una traduzione non è una cosa meccanica, ma esige inventiva e creatività. La fedeltà, quando si traduce, è un’arte.
La forza di un romanziere non risiede solo nell’immaginazione, ma anche nella precisione semantica. Proust, in questo senso, non è meno esigente di Cartesio. Gli inglesi e gli americani conoscono il suo romanzo con il titolo: Remembrance of Things Past. Ricordo delle cose passate. Allusione al trentesimo sonetto di Shakespeare. Neppure il grande pubblicitario Séguéla avrebbe saputo scegliere un titolo più bello e più vuoto. Il titolo di Proust, infatti, definisce esattamente una situazione umana, e le parole ‘ricerca’, ‘tempo’, ‘perduto’ sono insostituibili. Ho appena scoperto che in tedesco Point de lendemain (Senza domani) di Vivant Denon è diventato Nur eine Nacht – Solo una notte. Banalità sentimentale nella quale tutta la raffinatezza del titolo francese, che di un enunciato dai toni tragici ha fatto un imperativo edonista, si annacqua. Il romanzo di Broch che s’intitola Die Schuldlosen, cioè Gli innocenti, in francese è reso con il titolo Irresponsables (Irresponsabili). L’immenso paradosso brochiano che parla della colpevolezza degli innocenti è abolito. Si soffoca il senso di un’opera fin dal titolo, che è la sua prima frase.
L’altro giorno ho ricevuto un libro, pubblicato nel 1989, che mi ha sorpreso. Alla nuova traduzione dell’opera completa di Freud è stato aggiunto un tomo a parte, intitolato Tradurre Freud, nel quale i traduttori spiegano il loro lavoro e giustificano le loro scelte; ci è offerto, ad esempio, un ‘vocabolario ragionato’ di una sessantina di parole-chiave di Freud che contiene: analisi semantica della parola tedesca; esame delle sue traduzioni francesi precedenti; ragioni che hanno portato alla nuova soluzione. Mi sono detto: è con questa passione per la precisione che bisognerebbe tradurre non solo le grandi opere del sapere ma anche i grandi romanzi.
Mi sono spesso arrabbiato contro le traduzioni traditrici, senza rendermi sufficientemente conto che i responsabili non sono necessariamente i traduttori. Leggo: «Capita che scrittori stranieri rimproverino ai loro traduttori francesi di edulcorare la forma, e perciò il contenuto, dei loro libri. Bisogna che questi scrittori sappiano che le edulcorazioni non sono per forza opera dei traduttori: esse sono spesso imposte dalle case editrici». Pierre Blanchaud ha scritto queste parole in un notevole articolo nel quale racconta la storia, tanto incredibile quanto comune, della sua traduzione di Kleist. L’editore, volendo un testo elegante, ‘ben scritto’, facilmente leggibile, ha imposto alcune modifiche che il traduttore, fedele allo stile inconsueto, ostico del suo autore, ha rifiutato di accettare. Ne sono seguiti processi, seccature, umiliazioni (per il traduttore, naturalmente, perché dei due è lui il più debole) e, alla fine, una nuova edizione di Kleist (fatta da un altro) che è tanto scorrevole e leggibile quanto penosa – cosa che Blanchaud dimostra, prove alla mano.
Egli riassume così la situazione che, posso testimoniare attraverso la mia stessa esperienza, è sempre più frequente in ogni parte del mondo: «Quando il traduttore avrà consegnato il manoscritto si sentirà dire che le ‘improprietà linguistiche’ trovate nel testo hanno bisogno del massiccio intervento di un revisore (scelto dall’editore) […] Tutte le correzioni avranno in comune il fatto che agli autori tradotti si sarà imposto di dire qualsiasi cosa […] Se le loro frasi sono lunghe si farà in modo di spezzettarle, mentre le si stiracchierà se sono corte. Si arricchiranno inutilmente le copule, ma si elimineranno le ripetizioni significative […] Le ragioni di questa censura, di questa riscrittura selvaggia? […] La totale sottomissione a un certo stile a effetto, a una scrittura a buon mercato che [l’editore] pensa essere la sola in grado di far vendere il libro». Ecco un appello urgente in difesa della traduzione in quanto arte della fedeltà, arte senza la quale l’idea di Goethe sulla letteratura universale che rende Proust famigliare tanto a un islandese quanto a un francese diventerà obsoleta.
Pubblicato in Sud n°2
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Mah….Heidegger e i suoi traduttori si arrovellano su queste questioni.
Lui avrebbe voluto una lingua pura incontaminata, ma questo impedirebbe a noi oggi di leggerlo senza conoscere il tedesco, che per altro presenta latinismi e quindi ibridazioni.
Marini e Volpi, discutono sulla traduzione di Essere e Tempo, riguardo proprio la trasposizione alla lettera( Marini) o l’italianizzazione( Volpi) di certi concetti puramente germanici..anzi puramente heideggeriani….
Certo leggerlo in tedesco sarebbe meglio anche perchè ogni autore aggiunge alla lingua singolare nazionale la SUA propria declinazione, contribuendo alla sedimentazione e all’incrementazione di nuovi sensi nuovi vocaboli, nuovi concetti che si depositano nella lingua…..
ma queste sono banalità per Voi, fini intellettuali…
Che cosa intende Kundera per “fedeltà”? Non è un po’ vago dire: “La fedeltà di una traduzione non è una cosa meccanica, ma esige inventiva e creatività. La fedeltà, quando si traduce, è un’arte”. Si può chiarire meglio lo sfumato dell’affermazione? – Perché non negherete ci vuole inventiva e creatività anche a scassarla, l’opera… :-)
Caro/a Miku, quando Kundera parla di fedeltà lo fa riprendendo polemicamente il teorema delle belles infidèles. che è poi quel pregiudizio perverso che nella storia delle traduzioni ha spesso stravolto il dispositivo narrativo originario. A propoito di questo ti consiglio la lettura di – La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Seuil 1999, di Berman che alla tirannia del “bel ècrit” risponde:
« La rationalisation recompose les phrases et séquences de phrases de manière à les arranger selon une certaine idée de l’ordre d’un discours. La grande prose – roman, lettre, essai- a, nous l’avons brièvement dit, une structure en arborescence ( redites, prolifération en cascade des relatives et des participes, incises, longues phrases, phrases sans verbe, etc.) qui est diamétralement opposé à la logique du discours en tant que discours. »
effeffe
Caro Forlani, bella la citazione, ma rimane aperto un serio problema, quello di stabilire cosa sia una traduzione fedele e riuscita proprio alla luce dello scarto che si realizza in ogni operazione letteraria, e se una traduzione che sfora nella rielaborazione possa ancora definirsi tale, e non faccia scattare invece meccanismi di assonanze plagio e parodia accuratamente evitati e irrisolti – in coscienza – dal Fortini della traduzione del Faust. Questo si chiede Miku, irresoluto parodista.
Caro Miku, non penso che la posizione di Kundera sia incompatibile col tuo parodismo. Tutto sta a non confondere il bisogno di precisione con un’operazione di semplificazione. Il moby Dick di Pavese è straordinario ma non è Moby dick. What’s the matter?
effeffe
Forlani, the matter: se Moby Dick non è Moby Dick, allora cos’è?
P.s.
A diradare la nebbia enuncio una prima ipotesi a descrivere una traduzione “fedele”: minuta filologia testuale + trapianto del maggior numero possibile di echi e forme di un sistema letterario in un altro sistema letterario: shakerare con forza e versare il tutto nella propria provincia. Queste sono ovvietà, certo, ma quel tipo di ovvietà che conducono Fortini (e non uno che lavora a metro, per tirare la carretta) a desistere da qualunque traduzione del Faust che non sia meramente alineare. In sostanza, forse, la scommessa della traduzione è perduta da e per sempre.
Spiacente, ragazzi, io non direi “la traduzione è bella se è fedele”: direi anzi l’esatto contrario:
la traduzione è fedele solo se è bella!
Ci sono soltanto due problemi, questo sì: il primo è:
è piuttosto facile stabilire quando o quanto una traduzione sia o meno fedele;
è sempre, invece, troppo opinabile se una traduzione sia o meno bella.
Il secondo:
è da vedere anche di volta in volta se parliamo di traduzione di un’opera bella, oppure no.
Intendo: di un’opera il cui intento è quello di essere bella, oppure no. (Non è che ogni opera letteraria abbia quell’intento, no?)
Molto sommessamente, mi permetto di obiettare al sommo Kundera che mai come oggi le università pullulano di cattedre di comparatistica, materia di studi che fonda la propria legittimità sul rapporto dialettico delle diverse letterature (e perfino discipline artistiche, regolate da traduzioni intersemiotiche), viste non come insieme di settori linguisticamente e culturalmente separati, ma come massa fluida in costante movimento proprio a causa dei meccanismi di scambio, importazione ed esportazione che si verificano grazie alle traduzioni. In questo senso, il sogno goethiano della Weltliteratur invita a considerare le traduzioni come luogo di valorizzazione e non più di soppressione delle differenze culturali (per cui l’opposizione binaria “bellezza” o “fedeltà” decade automaticamente); e sollecita una nuova mappatura in cui le frontiere letterarie non coincidano più con i confini delle nazioni o con quelli linguistici. Ergo non esiste una storia della letteratura. Esiste una geografia. I lettori di bestseller sono i clienti del turismo organizzato, all inclusive, i lettori forti degli intrepidi esploratori, e gli appassionati del canone quelli con lo sguardo orografico ( i rilievi delle vette).
Molto sommessamente mi permetto di obiettare al sommo connazionale indiano Sergio che pur essendo vera la prima parte del suo appunto- la letteratura comparata in Italia è una realtà ben consolidata – m sembra che questa conquista non vada asimilata a quelle altre per cui lettere e filosofia diventa Scienze della comunicazione, o umanesimo applicato, o survival kit for a lost generation ecc. Mi spiego meglio, quando Kundera, altrove, si scaglia contro il termine Mitteleuropa lo fa con lo stesso piglio dell’amico torinese che bestemmia alla notizia dell’apertura del negozio di abbigliamento H&M in via Roma. Il global visto dal turista è il kitsch, caro Sergio, esattamente come Harry Potter venduto contemporaneamente in tutti i paesi del mondo – e allora veramente no importa in quale lingua essa sia. Il problema è semmai un altro. L’Italia traduce molto meno di quanto non facesse nel primo novecento e l’assenza dai nostri cataloghi editoriali forse molto megastore e luminosi ma poco illuminati di scrittori come – e faccio un solo nome – Torga, a beneficio di tanta letteratura simil giornalistica italiana, mi pare una buona ragione per riflettere alla cosa. Se pensi che ci fu un tempo felice in cui scrittori come Pasternak e Bachtin venivano prima pubblicati in Italia e poi nel resto del mondo – compresa la madre Russia- a guardare la mancanza di coraggio dei nostri editori, ti cadono le braccia. Mentre invece a cadere dovrebbero essere i muri . Del reto proprio Torga diceva il globale è il locale senza i muri.
effeffe
pardon, luniversale non il globale. lapsus locale
effeffe
Però, che bella quella cosa della geografia detta da Sergio…
Senza scomodare mari monti e giganti e andando al dunque, cioè al conquibus, se anche la scommessa della traduzione è persa in partenza (per alcune delle opere che contano) c’è però un modo di prolungare la partita: la maggior parte dei traduttori, soprattutto quelli che per funesta sorte lavorano a metro, sono bravi, e allungati i tempi frenetici di consegna perfettamente in grado di ricreare l’opera con stupenda capacità emulatoria: io mi auguro questo, che i traduttori vengano finalmente pagati, e non liquidati con quattro spiccioli, e un po’ come avviene in Germania (il paese che importa più letteratura al mondo, dove leggi – non sempre facili da applicare e che incontrano la resistenza degli editori – regolano gli onorari) forti di una qualche organizzazione sindacale. Se gli editori non possono permettersi di pagare un onesto artigianato verbale, che non stampino libri stranieri: in tal modo ci sarebbe l’auspicabile selezione dei rifiuti letterari che vengono scaricati nel Bel Paese. Bisogna dunque sperare in un sindacato di traduttori che blocchi i rapidi ingranaggi del mercato: e se poi i crumiri, che sempre ci sono stati e devono campare pure loro, si lasciano spremere, non sarà un danno enorme. Traduttori di tutto il mondo… ! etc. etc.
caro francesco, scusa ma faccio un po’ fatica a capire quello che scrivi. mi capita spesso, sarò un po’ tonto. caro gianni, grazie del complimento. l’idea della “geografia” piace anche a me, difatti è il tema del mio prox articolo su stilos.
C’est pas grave! Sergio, non fa nulla. Spesso, dici? Ma quanto spesso? Quasi sempre? Minchia!!
effeffe
Molto sommessamente, mi permetto di obiettare al sommo Kundera
ironico?
che mai come oggi le università pullulano di cattedre di comparatistica,
pullulano? nel senso di pull over?
materia di studi che fonda la propria legittimità sul rapporto dialettico delle diverse letterature
(e perfino discipline artistiche, regolate da traduzioni intersemiotiche)
ironico? Intersemiotiche?
, viste non come insieme di settori linguisticamente e culturalmente separati, ma come massa fluida in costante movimento proprio a causa dei meccanismi di scambio, importazione ed esportazione che si verificano grazie alle traduzioni.
Nel medioevo la libera circolazione di “merci” avveniva senza alcun tradurre
In questo senso, il sogno goethiano della Weltliteratur invita a considerare le traduzioni come luogo di valorizzazione e non più di soppressione delle differenze culturali
(per cui l’opposizione binaria “bellezza” o “fedeltà” decade automaticamente)
qui sta tutta la tua messa in discussione della tesi kunderiana. Io non la capisco. Non mi sembra che oggi in Italia si traduca di più nè tanto meno meglio. Turisti non significa geografi. Concordi?
; e sollecita una nuova mappatura in cui le frontiere letterarie non coincidano più con i confini delle nazioni o con quelli linguistici. Ergo non esiste una storia della letteratura. Esiste una geografia. I lettori di bestseller sono i clienti del turismo organizzato, all inclusive, i lettori forti degli intrepidi esploratori, e gli appassionati del canone quelli con lo sguardo orografico ( i rilievi delle vette).
Quando entri in una libreria, in Italia, i volumi sono classificati per generi, giallo, saggistica, poesia… indipendentemente dalla storia (data di pubblicazione) e dalla geografia (nazione di appartenenza dell’autore). In quelle francesi prevale la classificazione per origine dell’autore, in generale, e allora trovi letteratura francese, spagnola, latinoamericana, e quando l’autore scrive il libro in francese lo si mette nel comparto letteratura francese, anche se è di praga, cosi’ come la nostra Helena Janeczek, che è una scrittrice italiana.
effeffe
à suivre
Una sola data, fra le tante, per la nuovissima questione che anima il dibattito indiano: Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, 1967.
Mi sa che qui servirebbe un buon traduttore, perché sembra che parliamo lingue diverse. Kundera sostiene che “la pratica universitaria studia la letteratura quasi esclusivamente all’interno del quadro nazionale: di Broch si occupano solo i germanisti, di Joyce gli anglisti, di Proust solo i francesisti”. Io obietto che l’approccio comparatistico, molto diffuso anche in ambito universitario, smentisce o ridimensiona di molto questa fosca diagnosi. George Steiner, a detta di molti uno dei critici più autorevoli in circolazione, scrive degli ottimi saggi che parlano di Celan, Proust, Joyce o Tolstoj, pur senza essere un germanista, un francesista ecc. Di più, i suoi libri sono pieni di riferimenti interdisciplinari (arte, musica, filosofia). Poi, negando valore alle categorie di “bellezza” e “fedeltà”, invitavo a considerare il testo tradotto come “opera altra” rispetto all’originale, con ciò esplorando la dialettica di perdita e di acquisto e rivelando la strategia linguistica e discorsiva sottesa. I testi che approfondiscono queste tematiche sono di L. Venuti e di P. E. Lewis. Chi fosse interessato può consultarli. Infine, l’appunto di Rizzante, molto simpatico ma un po’ disonesto intellettualmente, perché il libro di Dionisotti nulla ha a che vedere con la cartografia tematica e simbolica (quindi non regionalistica e linguistica) cui alludevo; e che si rifà espressamente alle indicazioni di José Lambert (molto più recenti, del 1988), in cui si sollecitavano gli studiosi a riformulare “una carta delle letterature in cui le frontiere non possano coincidere automaticamente né con la carta delle nazioni né con la carta delle lingue”. Sollecitazione – a quanto mi consta – dai più non ancora raccolta.
Sono d’ accordo con Kundera : “La traduzione è bella se è fedele”.
Fosse solo per il fatto che una traduzione che non sia fedele non è una traduzione ma, direi, piuttosto un rifacimento.
D’ altronde, se si pensa al fatto che il verbo latino “vertere” vuol dire “tradurre”, ma anche “cambiare, mutare,trasformare”, allora ci si rende subito conto di quanto il confine fra traduzione e rifacimento sia tanto labile quanto pericoloso.
Inoltre, immagino che Kundera, parlando di bellezza di una traduzione, non si riferisca certo alla “scioltezza” che una traduzione deve conservare per non disturbare l’ orecchio (l’ occhio) del lettore.
Al contrario, una traduzione “bella” può anche turbare il lettore, se ciò serve a salvaguardare l’ essenza del messaggio originario; intendendo, ovviamente, con il termine essenza non un piccolo nucleo, il concentrato sintetico di una frase, ma il suo senso più profondo.
Una traduzione, infatti, è davvero riuscita se riesce a rendere il senso di una frase, prima ancora che il suo significato.
Operazione difficile, certo, ed è per questo che il traduttore è anche un artista.
Direi, quindi, che una traduzione è bella se è fedele, cioè se sa trasmettere l’ “essenza” di un messaggio originario,attraverso la resa il più possibile onesta del suo significato letterale.
Confermo di parlare una lingua diversa. Mentre Garufi parla la lingua comune della comparatistica “tematica e simbolica”, che è la lingua della comparatistica universitaria. Il mio appunto su Dionisotti non è disonesto nella misura in cui lo studioso all’epoca apriva le finestre nella stanza dello storicismo letterario. Parlava una lingua diversa. Anche Kundera parla una lingua diversa nella stanza della “geopolitica della letteratura”, perché a questo la comparatistica universitaria – quella dei “cartografi” – sta riducendo la nozione di Weltliteratur, a cui Kundera si rifà.
Carissimo Sergio,
subito dopo aver scritto la mia risposta, approfittando di un’uscita d’ufficio per recuperare materiali e prendere aria, mi sono chiesto che cosa avesse provocato in me disagio. Innanzitutto il tono del tuo commento.
Dimmi se sbaglio ma l’impressione che ho avuto era di un tono sprezzante doppiamente ingiusto, sia come lettore di Ni sia come autore del blog, visto che reputo una fortuna per noi poter pubblicare autori come Kundera, nel senso di esserne autorizzati a farlo.
Pubblicare autori di un certo spessore e perchè no anche popolarità, non credo equivalga a non entrare in polemica con loro nè ad accettare quanto detto come oro colato.
Quando ti ho risposto, mi sono beccato un insulto abbastanza gratuito che diciamo la verità, potevi anche risparmiarti/mi. Se una cosa non ti è chiara mi chiedi di spiegarmi meglio ma non ti autorizzo a sparare che comunque sia non capirai mai un cazzo di quello che scrivo perchè o sei un pirla o non si capisce un cazzo in generale. Traduzione, rifacimento del tuo
“caro francesco, scusa ma faccio un po’ fatica a capire quello che scrivi. mi capita spesso, sarò un po’ tonto”
Per tornare al tuo commento vorrei soltanto capire se quello che vuoi dire, in sostanza è:
1) Quando Kundera parla di traduzioni belle e fedeli, che si giustifica, secondo te, solo in un universo composto da letterature nazionali, fa riferimento a un mondo letterario e universitario che grazie a Dio (ma soprattutto all’affermazione delle cattedre di letteratura comparata) non esiste più.
E’ questo che vuoi dire? E se Milan Kundera facesse riferimento alla propria storia, ovvero di un romanziere che scopre le traduzioni francesi dei propri romanzi un certo tempo dopo la loro pubblicazione, e tale scoperta è talmente dolorosa da spingerlo a ritirare dal commercio ogni edizione esistente per curarne personalmente la traduzione e restituire l’opera a quello che l’autore voleva che fosse?
Insomma, cose cosi’. Comunque amitiès.
effeffe
Mah, in fondo questo pezzo di Kundera è da prendere per quello che è, conversazione da salotto: il concetto di “fedeltà” il parlare a braccio di uno scrittore annoiato.
Potremmo sapere da dove è tolto? Qual è la fonte del brano?
senti francesco, io ho fatto delle obiezioni precise al pezzo di kundera. lui sostiene che i classici vengono studiati alle università solo dagli specialisti, io ho replicato che non è vero, citando le cattedre di comparatistica e il nome di george steiner. poi kundera se la prende con le traduzioni traditrici perché infedeli e io ho contrapposto il concetto di riscrittura, in cui l’opera del traduttore non viene più intesa come semplice copia, ma rivendica uno statuto proprio, elevandosi a luogo di valorizzazione e non più di soppressione delle differenze culturali. Ho cercato di argomentare queste mie affermazioni e ho prodotto pure qualche autorevole pezza d’appoggio. a tutto ciò tu mi hai rispondo con un incipit a specchietto e con riferimenti all’apertura del “negozio H&M di via Roma” e al “survival kit for lost generation”. ora – ribadisco -, sarò tonto ma mi sfugge il nesso sottile che lega insieme le due cose. è un mio problema, naturalmente; ma dirlo non significa insultarti e certo per darmi del tonto non ho bisogno dell’autorizzazione di nessuno. per quanto mi riguarda penso che sia più scorretto – proprio un intervento “a gamba tesa” – fare il verso all’altro (come hai fatto tu) o fraintendere deliberatamente ciò che dice il tuo interlocutore (come ha fatto rizzante) al fine di ridicolizzarlo, piuttosto che ammettere una propria deficienza. ma son punti di vista, opinabili come sempre.
Ogni colore si espande e si adagia
negli altri colori
Per essere più solo se lo guardi
(Giuseppe Ungaretti)
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Tinta tra tinte guaìr e arginar:
a tener te: te, agguerrita, a tentar.
(Alessandro Mazzà; “rifacimento” del cui sopra usando le sole lettere di UNGARETTI)
“conversazione da salotto”?
“parlare a braccio di uno scrittore annoiato”?
Non sapevo che le colonne dei commenti di NI fossero frequentate da i più grandi, sapienti e profondi intellettuali del mondo.
M’inchino di fronte a tanta perspicacia.
Servizio momentaneamente sospeso a causa del raggiungimento, nella presente colonna dei commenti, della soglia massima di presunzione.
Ci scusiamo per il disagio arrecato alle lettrici e ai lettori di NI.
???”ammettere una propria deficienza”???
Potremmo sapere da dove è tolto? Qual è la fonte del brano?
chiede Miku.
Furlen says.
Me l’ha dato Milan Kundera per la rivista di cui mi occupo. Con Massimo Rizzante, Andrea Inglese, collaboriamo all’Atelier du Roman, rivista diretta da Lakis Proguidis e fondata da Kundera. dopo aver tenuto il seminario sul romanzo all’ecole des hautes etudes di Parigi.
@Stefano. Il tipo del salotto (non mi ricordo più chi sia) lascialo perdere, prima o poi annegherà nel mare di cazzate che , pour l’instant, lo fanno sentire come un pesce nel proprio elemento.
@Sergio. L’H&M cui facevo riferimento era per l’effetto global veicolato dalla merce in questione, esattamente come certa letteratura. H@M come H&P (harry potter) L’universale non è il globale, converrai…
Per essere più chiaro ti faccio un esempio. L’Italia è l’unico paese d’occidente in cui i film al cinema vengono doppiati e mai, quasi mai, proposti in Versione Originale sottotitolati . I film doppiati , sono un esempio di resistenza del kitsch. Oltre ad essere il più delle volte molto mal tradotti
Servizio momentaneamente sospeso a causa del raggiungimento, nella presente colonna dei commenti, della soglia massima di conformismo.
Ci scusiamo per il disagio arrecato alle lettrici e ai lettori di NI.
Francesco, scusami, la “rivisitazione” era per Garufi, non per te.
Adesso vado a lavorare, buona giornata.
Forlani, volevo sapere se fosse uno scritto d’occasione legato al numero di Sud o se avesse avuto altra origine.
Che fosse una conversazione “distesa” è evidente, poi: chi parla più di “fedeltà” al giorno d’oggi?, questa piuttosto serie di accomodamenti dinamici difficile da immaginare nella camicia di forza di un vocabolario tanto ristretto. La pratica della traduzione sconfessa l’elementare esoterismo kunderiano: i problemi a me sembrano, continuo a pensarlo, quelli reali di un mercato che non paga (si può ben dire) i traduttori, minando alla base la sopravvivenza delle persone che dovrebbero, o che fortuna, con inventività e coraggio, produrre essi stessi un’opera d’arte.
Mi scuso dunque se ho straparlato di “salotti” e “discussioni a braccio”, ma questo dovrebbe essere consentito anche a chi non si chiama K.
Caro Miku,
giusto per contestualizzare il testo di Kundera, questo fa parte di una sezione che ricorre in ogni numero e dedicata a riflessioni sulla traduzione, sulla lingua, sui generi. Vi hanno collaborato Francois Taillandier, Erri de Luca, Matteo Palumbo, Yasmina Khadra, Albahari, Cerovic, Rizzante ecc.
Contributi che reputo cosa giusta non limitare ai soli lettori di Sud che sono, come per ogni rivista letteraria poco meno di un migliaio. Testi che reputo straordinariamente attuali forse proprio grazie alla loro inattualità. Approfitto per aggiungere una cosa. Sud credo sia la sola rivista a proporre in copertina, su tre distinte colonne, l’indice che si compone di autori, traduttori e fotografi/illustratori. Cioè facciamo nella pratica quanto invocato da Garufi, ovvero stabilire flussi tra i differenti codici, registri, campi e soprattutto la considerazione dei traduttori come veri e propri autori.
effeffe
Comunque ai salotti letterari preferisco la sala da pranzo di Biondillo
Caro Garufi, prima mi dà del disonesto, poi mi accusa di fraintenderla deliberatamente, alla fine dice che sono un deficiente e che la voglio ridicolizzare. Guardi che io ho espresso solo il mio punto di vista, che come dice lei, è sempre “opinabile”. Nutro qualche dubbio sul suo modo di trattare le opinioni altrui. In ogni caso, per chiarire meglio la mia posizione sulla questione – questione che a mio modo di vedere è centrale all’interno del dibattito estetico attuale – ho passato un testo che forse potrà aiutarci ad avanzare oltre la banale disputa.
Grazie per le informazioni Forlani.
Gentile Rizzante, quale la centralità di Dionisotti 1967 ai fini della attuale discussione?
Caro Rizzante, la disonestà intellettuale sta nel fraintendere o storpiare volutamente il pensiero dell’interlocutore per metterlo in ridicolo. Schopenhauer ne ha illustrate alcune simili ne “L’arte di ottenere ragione”. Io penso che lei sia una persona intelligente – tant’è che ho apprezzato il colloquio con Celati incluso nel Best Off 2006 -, e da una persona intelligente e preparata mi aspetto che mi vengano fatte obiezioni sensate.
E’ vero o no, per fare un solo esempio, che l’affermazione iniziale di Kundera sul provincialismo degli studi dei classici del 900 equivale a ignorare l’esistenza di saggi comparatisti e di critici come Steiner? Citare il testo di Dionisotti, sottolineando che è del ’67 e suggerendo che c’entra qualcosa con l’idea (“nuovissima”!) della “geografia letteraria” cui accennavo, significa che o non si è capito cosa ho detto, o si è finto di non capire. Io propendo per la seconda ipotesi. Quanto alla “deficienza propria”, mi riferivo alla “mia”, quando dissi di non capire la risposta di Forlani. Quello che imputavo a lei era specificato fra parentesi. Ad ogni modo su una cosa sono d’accordo: non ci capiamo, parliamo lingue differenti, per cui per me non ha senso proseguire questa discussione.
Gentile Miku, nessuna centralità, solo fertile inattualità. La rimando comunque a quanto ho scritto nel commento del 31 gennaio. Il senso del riferimento a Dionisotti è credo in quelle righe abbstanza chiaro.
Caro Garufi,
anche per me la discussione è chiusa.
Rizzante, la chiosa cui si rimanda è per lo vero sibillina: magari è per me l’occasione di riprendere in mano quel libro, che getti luce almeno su altre questioni, se non su queste.
Potrei sapere, Garufi, che cos’è il BEST OFF 2006? Mi incuriosisce. La ringrazio anticipatamente.
Io l’articolo di Kundera l’ho apprezzato proprio per la semplicità con cui dice: fedeltà. Uno dei pochi seminari che ho frequentato con passione all’università era con Borso, il traduttore di Kierkegaard. Lui diceva che un autore è come il dio di Leibniz, può scegliere tra una gamma vastissima se non infinita di possibilità, e sceglie quella secondo lui migliore. Diceva che per tradurre bisognava essere fedeli e credenti in quel dio sempre ovvero rispettare le sue scelte, o altrimenti mettersi a fare dio in proprio. Era anche stressante provare e riprovare insieme col testo davanti per trovare la soluzione giusta, lui la chiamava scherzosamente ascesi o qualcosa del genere. Ma la cosa bella era che alla fine di ogni seduta ci sembrava anche a noi studenti di essere traduttori di Timore e tremore.
Cara Lucia, “Best Off 2006” è un libro antologico curato da Giulio Mozzi e pubblicato da Minimum Fax che raccoglie articoli apparsi su riviste letterarie italiane nell’anno precedente.
Milan Kundera 2 a 0, Pirlo in chiusura del primo tempo e raddoppio di Kakà alla mezzora della sconda frazione di gioco.
Partita senza storia, decisamente noiosa.
says
gaizka@paranoici.org
Ognuno ha le partite che si merita :-) (nota di effeffe)