Lago Negro
di Graziano dell’Anna
Ci sono libri di autori pubblicati da piccole case editrici, che nel frastornante traffico editoriale tengono costantemente la destra, pazienti, lasciandosi superare dai bolidi – libri di autori stampati dalle major, reclamizzati a tappeto su giornali, riviste e blog – che invece si impadroniscono rigorosamente della corsia di sorpasso (e a volte qualcuno va fuori strada e si schianta su un palo: sono i libri dai motori truccati, osannati da critici e recensori “capolavoristi” – amanti dell’iperbole come strategia promozionale – e lanciati di volta in volta come “il più bello degli ultimi cinquant’anni” o “il più importante di questo decennio“, ma pronti a stroncarsi al cozzo con la prima lettura o con “l’esame del tempo” – da cui l’invito a certi critici e beejay affinché imparino a usare prudenza, a mettere l’airbag ai giudizi).
Uno di questi libri della corsia di destra – libri che hanno la presunzione della modestia, che partono lenti come un diesel, ma che alla fine arrivano – è Lago negro (L’ancora del mediterraneo, 2005) di Andrea Di Consoli. Un piccolo gioiello di oreficeria letteraria che rischia colpevolmente – nonostante alcune segnalazioni, tra cui quella di Cordelli sul “Corriere della Sera” – di passare inosservato. Andrea Di Consoli è scrittore e giornalista nato a Zurigo da genitori lucani che, nonostante la giovane età (classe 1976), scrive per “L’Unità”, “Stylos”, “La Repubblica di Napoli”, dirige la piccola realtà editoriale di Avagliano e ha già al suo attivo un saggio su “Le due Napoli di Domenico Rea” (Unicopli, 2002) e la raccolta di poesie “Discoteca” (Palomar, 2003) .
Il suo Lago negro è una raccolta di racconti che però è un romanzo. Ogni singolo pezzo, infatti, è legato agli altri e, con gli altri, al tutto in una fitta rete di rimandi (varianti di situazioni, ambienti e personaggi, rimbalzi di leit-motiv eccetera): una poematicità “franta”, non lineare, in cui si riflette l’anima lacerata e scissa della generazione di trentenni che ne è protagonista – generazione di disoccupati, vittime del precariato lavorativo ed esistenziale di questi anni, giovani meridionali divisi tra un passato che non riescono a ricordare e un futuro che non sanno immaginare, tra il desiderio struggente della propria terra e la necessità di emigrare in clandestine partenze notturne nell’ignoranza che “quello che fate stanotte non lo cucite più”.
I racconti sono scritti in una lingua piana confinante con la poesia, che Di Consoli ha forgiato e allenato nella palestra di Discoteca – una poesia, però, sciolta appunto nella prosa e dal registro volutamente “basso”, fatta di cadenze colloquiali, inflessioni regionali, immagini comuni, lessico corrente. In questo senso, il racconto posto all’ingresso del libro, Shakespeare, oltre ad essere un pezzo magistrale sulla morte, la disperazione e il rapporto col passato, suona anche come dichiarazione di poetica, quando nel desiderio del protagonista di vedere il proprio padre “recitare Shakespeare“ “in dialetto” si confessa la volontà letteraria di Di Consoli di vestire la tragedia in panni feriali, di mettere la sordina al sublime.
Quelli di Lago negro sono racconti “mediterranei”: per la rappresentazione di ambienti e personaggi; per la carica di pathos, di passionalità viscerale che li attraversa; per l’espressionismo di una lingua figlia legittima del corpo e, a sua volta, per la centralità che l’elemento fisico, carnale occupa nelle storie. Una carnalità ostentata, messa in primo piano, dove si incistano le frustrazioni, le derive dell’amore, la violenza e il male di vivere di una terra e di un’intera generazione che godono ancora di poco spazio nelle ribalte televisive, nelle inchieste giornalistiche e sociologiche e nelle opere letterarie, ma che nei racconti di Di Consoli trovano finalmente il coraggio – disperato – della propria voce.
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sono perfettamente d’accordo con te è un libro stepitoso e raro, io ne avevo parlato nel mio blog, perchè quando casulmente lo avevo letto ne ero rimasta incantata, soprattutto dalla forza della scrittura e dalla rabbia corposa e profonda, ma pienamente controllata in narrazione.
Cosa sia la letteratura è diffcile dirlo a freddo, ma quando si leggono libri come questo si ha come una lluminazione e ci si dice: ecco cos’è la letteratura
E poi pongo la solita domanda: ma cosa c’è al momento nella Lucania degli scotellaro e dei salvia che ci sta dando tante prove letterarie diverse e originali?
Bella anche la tua recensione
geo
questo è per me una necessità della Lucania e non solo:
POESIA MERIDIANA
… Se l’uomo ha da morire prima d’avere il suo bene
Bisogna che i poeti siano i primi a morire.
Paul Eluard, tradotto da F. Fortini
POMARICO – MATERA – BASILICATA – TERRA – (Forse) UNIVERSO – Da queste parti parlare di poesia significa urlare. Gridare contro. Fare poesia significa stare dalla parte della terra e rompere gli stendardi che il dio dell’impero ci mette nelle mani. Dovremmo innalzarli come vuole o frantumarli con le nostre visioni? Le nostre dannazioni?
Non abbiano nessun posto, che sia più bello degli altri, da custodire. Come vengono alcuni a dirci ogni tanto. Noi piccoli germi del sud. Testimoni di un meridione che canta e balla, senza che abbia bisogno di essere ancora immortalato. Stiamo tappezzando di colori le nostre giornate e non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare alla bellezza delle parole. Che è bellezza dei luoghi. E dei non luoghi. Probabilmente. Qui la quotidianità insegna a scrivere e consente di leggere.
Dai nostri corpi sgorgano parole veloci e precise. Quanto le frecce del meridione che strimpella le corde dell’Italia. Dalle bocche di noi, poeti di questo tratto di sogno, scappano parole di mille dialetti. Escono dalle nostre anime termini in lingua italiana o vocaboli donatici da altri popoli. Gli altri paesi ci hanno dato culture. Oggi, di nuovo, giungono culture. Grandi quantità di sostanzioso nutrimento. L’accoglienza ci tinge e non ci permette di non amarla. Dalle nostre parti si dorme e ci si sveglia in tanti modi. E la poesia nasce alla stessa maniera.
Adesso, noi, che non siamo altro che gocce di un pezzo di sud grande quanto il mondo intero, catturiamo i ritmi delle piante e ci assuefacciamo agli odori del mare. Della montagna, delle colline che ci sollevano gli occhi. Adoriamo gli immensi spazi e le loro caratteristiche.
Il passato lo teniamo in questi occhi. Nei nostri occhi. Quello che le anziane donne scure in volto si raccontavano, e in certi dimensioni ancora si raccontano, non sono che spicchi di antica poesia. I pastori ed i contadini lavoravano cantando ed inventando creazioni liriche, in ogni istante. Intrise della loro quotidianità e del loro duro sacrificio. Scalfire il terreno era benedirlo e salutarlo. Possederlo dentro e senza diritto di proprietà, stampato sul braccio.
Ogni uomo è un poeta. Scriveva qualcuno. Ogni poeta è pure un uomo. Lo si è dovuto capire in seguito. E l’hanno dovuto capire i poeti. Almeno quelli agganciati ai movimenti della propria regione natia. Quelli scossi dalle scosse elettrificanti dei coloni, arrivati sempre a bordo di sogni gonfiati ed effimeri. Scomparsi come sono scomparse le loro tentazioni di morte e dolore.
Il dolore è la religione sono due elementi fondamentali della poesia meridiana. Evidentemente, di quella meridiana di tutti i tempi. Se possiamo provare ad indovinare.
Queste due conseguenze del passo zoppicante della società sono caratteri forti dei secoli. Nonostante oggi, della seconda vi sia rimasta solamente (e nei migliori casi) la pratica fine settimanale. Con la cancellazione del valore assoluto di essa. Della sua morale che era contro potere, perfino. Almeno a volte. Della sua importanza reale. Spesso religione e dolore hanno fatto cammini comuni. In certe occasioni, lo stesso.
Il dolore delle donne, il dolore dei poveri, il dolore dei malati. Sono da sempre motivo esistenziale dei meridionali ed hanno avuto, in diverse momenti, funzione addirittura di musa ispiratrice. Quei rumori intensi accompagnavano i meridionali ed i meridionali non potevano separarsi da essi.
La religione, essenzialmente, come pratica antica per la ricerca di una vita migliore. L’aldilà. Una speranza utile alla sopravvivenza, un ultimo ormeggio al quale chiedere aiuto prima di cedere. Aggrappandosi ad essa era praticare una via per la salvezza. Per lo spirito, in particolar modo. Poco per le membra.
E’ sin troppo facile carezzare: Orazio, Morra, Scotellaro, Trufelli. Per apportare argomentazioni sostenenti le tesi proposte. Invece, sarebbe meglio continuare a strappare immagini forti. Da questo emisfero basso basso. Che si chiama Mezzogiorno.
Soupault, anni addietro, dava consigli ai poeti: Sii come l’acqua/quella della sorgente e delle nuvole/puoi essere iridato od incolore/ma che nulla ti fermi/neanche il tempo/Non ci sono strade troppo lunghe/né mari troppo lontani/non temere né il vento /né ancora meno il caldo o il freddo/Impara a cantare/senza stancarti mai/mormora e insinuati/o strappa e travolgi/Balza o zampilla//Sii l’acqua che dorme/che corre che gioca/che purifica/l’acqua dolce e pura/perché essa è la purificazione/perché essa è la vita per i vivi/e la morte per i naufraghi La sua lirica sa di testimonianza. Eppure, queste righe le sento patrimonio di qualcun altro. Dote di tutti i poeti meridiani. Perché in questo scorcio di sensazioni, il sud di questa piccola nazione, c’è tutto ciò che vale.
L’acqua scivola sul popolo del sud. Per lo meno in Basilicata, il bene più santo è presente in abbondanza. I lucani si accorgono di cosa vuol dire. L’acqua è, per eccellenza, l’Essenza. La prova dell’esistenza del cielo. La prova che esiste una purificazione ed un piccolo spazio incontaminato. Che sia solamente una particella o una gigantesca distesa. Ma vive.
Siamo nati per nascere e nascere ancora. Per ricordare che è necessario un uomo sociale. Un individuo che non solo mangia e beve. Un soggetto che pensa al Sogno di una cosa. Che è scordare la povertà e inondare il presente. Con battiti di anima e dolci note.
La poesia è una esigenza di questo territorio. Scrivere poesia è un impegno civile. Come si diceva, bene, in passato.
La poesia meridiana ha bisogno di coltivare felicità. I poeti meridiani hanno bisogno di coltivare felicità. Si deve proporre felicità. Sorrisi come antidoti per i mali. Per tutti i mali. Non vi sono misure intermedie. La solitudine è l’unica alternativa ha questa idea. Non staremo qui ha parlarne.
In alto ormai non abbiamo che una luna puttana. Quella donna procace che circuisce le stelle. Una signora dai seni candidi, lisci; intenta a drogarci e sgualcirci. Questo dobbiamo saperlo. Prima di cominciare. Dobbiamo fare i conti con il Tutto che passa davanti e dentro di noi. Non so se siamo impreparati. Comunque, prepararsi è un’enorme gioia. Un frutto sensuale che si deve ingoiare. Per poi sospirare e rilassarci. Fino a quando i giorni saranno immensi e i desideri saranno diventati poesia e futuro. Attimi più che lunghissimi. Brillanti.
Queste riflessioni non sono dettate dalla presunzione di aver riassunto un intero concetto, in qualche riga. Sono semplicemente un primo (coraggioso forse) tentativo di porre un punto di partenza. Certamente vi saranno molte persone che avranno modo di ampliare il concetto. O confutarne interamente le argomentazioni. E’ fondamentale che lo si faccia. Bisogna aprire il più possibile il dibattito. Nella consapevolezza che dissertare a proposito della Poesia Meridiana significa parlare di qualcosa di anticamente giovane. L’immaginazione necessita la presenza assidua della realtà e della voglia di girarsi continuamente avanti ed indietro. La presente è una sfida a quanti hanno la volontà di procedere nell’intento. Sospirando sempre e spargendo sale sulle nuvole e sulle pietre dei nostri incanti.
NUNZIO FESTA
mi piasce la formulazione “il male di vivere” perché è originale, vera.
Eddài Tash, sei tremendo: non ne lasci scappare una… la recensione assolve il suo compito e cioè incuriosire sul libro. Preferivi disagio esistenziale, malessere sociale, inquietudine? :-)
effettivamente sembro – e sono – un rompi-coglioni.
“male di vivere” è solo una delle banalità contenute nella recensione.
non dico che il libro sia brutto perché non ne so nulla.
e tuttavia, dopo aver letto le banalità contenute in questo pezzo, ne diffido.
QUI non si può parlare di un libro in *questo* modo e poi dare addosso ai critisci, come spesso si fa.
c’è una categoria dell’agire umano che si chiama coerenza.
per dire.
Ciao, Roberto, sbaglio o questo pezzo assomiglia a libri che viaggiano in seconda scritto da me e messo qui su nazione indiana da Franz Krauspenhaar? :-) Mi sa proprio di sì, e la cosa mi fa piacere, naturalmente. :-) Ciao!
Un “male di vivere” è incastonato nel primo racconto della raccolta: much ado…
Caro Tashtego,
senza entrare più di tanto nel merito, mi farebbe molto piacere sapere, parlo sinceramente, in cosa consiste esattamente la mia incoerenza.
Mettiamo che io abbia scritto una sfilza di “banalità” come tu dici – e guarda che sono tentato di darti ragione: il male di vivere, i giovani meridionali, la critica alla critica, la generazione che trova voce in un libro eccetera, cose in parte ovvie, d’accordo – perchè sarei incoerente?
Se avessi detto che molti critici sono “banali” e poi avessi scritto, come mettiamo che io abbia scritto, delle “banalità”, allora di certo sarei stato incoerente.
Se invece, scrivendo che certi critici gridano troppo facilmente e troppo spesso al capolavoro, avessi scritto di Lagro negro che è un capolavoro o che è “il più bel libro degli ultimi cinquant’anni”, allora anche sarei stato in parte incoerente.
Mi sembra, invece, di aver criticato certi critici – non tutti, non molti, non la critica tout court, ma “certi” critici – per “certe” (non tutte) recensioni “capolavoriste” e,contemporaneamente, di aver detto di un libro – magari con una serie di “banalità” – che è un “piccolo” gioiello, “piccolo” appunto, senza gridare al capolavoro: mi sembra, in fondo, di non aver mancato di coerenza come tu mi accusi.
Ma tant’è. Il libro è bello (mi pare che nei commenti di Lipperatura lo segnalasse con toni elogiativi anche Scarpa-Cerasuolo, ma potrei ricordarmi male), scritto bene, interessante (come vedi, non indulgo in elogi eccessivi e iperobolici) e mi dispiacerebbe davvero se ti avessi dissuaso dal leggerlo. :-)
G.
scusami graziano.
ti rileggo con attenzione e ti commento, appena posso.
qui in NI l’incoerenza starebbe nell’avercela coi critisci e però scrivendo cattive critiche.
però magari mi sbaglio.
insomma ieri sono stato un po’ sbrigativo.
Ah, capito… Io critico i critici e però scrivo una brutta critica. Detta così, non hai tutti i torti.
Però, mi sembra comunque che la tua sia una generalizzazione.
Io critico di “alcuni” critici “alcune” critiche: quelle in cui si grida troppo facilmente e frequentemente al capolavoro. Ciò non toglie che siano critiche scritte bene, con le parole giuste al posto giusto, azzeccate nei concetti, non banali eccetera.
Poi, mettiamo, scrivo un pezzo con alcune “banalità” su un libro molto bello e interessante, dicendo che “sussurrare” di un libro che è bello in mezzo a una folla che “grida” ai capolavori, rischia di far passare questo libro – e tanti libri come questo – sotto silenzio.
Se generalizzi, sono d’accordo che sembro alquanto incoerente. Ma altrimenti, scusami, ma mi sembra di no.
E poi, giusto per il gusto di aggiungere, guarda che la mia non voleva essere una recensione “professionale”, una scheda critica con nome e cognome, curriculum, trama e vattelappesca, come le scrivono tanti giornalisti e critici copiando dalle quarte di copertina.
Io volevo analizzare alcuni elementi del testo – omettendo ellitticamente (e volutamente, te l’assicuro) gli altri – sottolineando: 1) l’organicità del libro (il legame dei racconti tra loro, quasi a formare un romanzo); 2) la lingua “bassa”, “popolare”, coerente coi contenuti e la visione d’insieme dell’autore; 3) la tendenza dell’autore a trattare temi alti, tragici, con un tocco lieve e una lingua al limite del parlato, non letteraria. Questi tre punti, per chi ha letto Di Consoli, mi sembra siano forti ed evidenti, e volevo che funzionassero da idee-guida per chi voglia addentrarsi nella lettura del suo libro.
Poi, se nel trattare temi come il senso di spaesamento esistenziale dell’uomo moderno o la vecchia questione della prosa-poetica o poesia-in-prosa o altri temi annosi, uso qualche termine come “male di vivere” o “poesia sciolta nella prosa”, be’, dai, non te la prendere tanto.
Tutto qui. Ciao
graziano. non pensarci. tashtego è sempre più attento a scrivere che non a leggere. la tua recensione non è affatto male.
tashtego sei buffo:-).
Uno può criticare i vizi dei “critici” della propria epoca che hanno la mania di ingrandire, di usare iperboli, di urlare sempre al capolavoro e poi magari scrivere una recensione che non necessariamente debba essere un capolavoro ;-)
Ognuno può fare solo quello che può.
Io posso scrivere una critica negativa su uno scrittore ma non è detto che se io mi metto a scrivere un romanzo lo possa scrivere, non dico meglio, ma neppure come lui. Come se critico la cucina in un ristorante non è detto che se io mi metto dietro i loro fornelli possa fare di meglio;-) o se critico un medico che mi ha curata male possa sostituirmi a lui ecc.
Insomma critcare se non lo si fa per livore e per partito preso è arte nobile e salutare. Bubare per vizio lo è un po’ meno ;-).
La recensione in questione a me è piaciuta, mi sembra più che corretta … sarà perchè il libro che viene recensito è un buon libro e … diciamocelo una volta per tutte, alla fin fine, quello che conta è il libro che si recensisce non la recensione di per sè;-).
Un bravo e abile recensore che ti recensisce un pessimo libro alla fine ti innervosisce, ti incattivisce. Il disgusto per il capolavorismo è venuto non perchè i recensori non fossero bravi e neppure perchè usassero troppo la parola capolavoro, ma perchè dopo aver letto due o tre di quei “capolavori” si rischiava di diventare inferociti;-), se fossero stati anche lontanamente buoni libri, probabilmente nessuno si sarebbe incazzato.
Secondo me questo, può piacere o meno, ma è un buon libro, con una forza strana, una disperazione vitale, una rabbia insolita, insomma io ho sentito qualcosa dentro quel libro, anche se non è che sia proprio il mio genere, anzi.
geo