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L’interludio di Bret

di Franz Krauspenhaar

Ho sempre seguito i lavori di Bret Easton Ellis con grande interesse e ammirazione. Ellis è la prova vivente di due casi diciamo così umani che avvengono abbastanza raramente nel mondo della letteratura: uno scrittore che esce da una scuola di scrittura e diventa grande (invece che un onesto artigiano o un ottimo o meno ottimo sceneggiatore televisivo o un più avvertito lettore, come invece avviene nella maggior parte dei casi) e anche uno scrittore di successo planetario che è anche un grande scrittore, uno che fa letteratura ad altissimo livello.

Ho letto tutti i suoi libri, e credo che la sua cosa migliore sia American Psycho: un voyage infernale dentro il glamour newyorkese degli anni 80, dentro la morte civile del kitsch di quegli anni angosciosamente spensierati. Un romanzo fatto da una prosa scandita, senza perdite, avvolgente nella sua secchezza, con quel turbinare ossessivo di marche e di marchi registrati, di lussi da nouveau riches, di frammenti continui da redazionale di rivista patinata mitragliati a tamburo battente, mentre intanto la sega elettrica del terribile yuppie Patrick Bateman ronza il suo motore mobile d’orrore a intervalli regolari, con sentenze di morte sanguinosamente ed oscenamente eseguite. Il romanzo di un moralista irrisolto, di un giovane uomo arrivato meritatamente al successo ma forse troppo presto, di un infelice Giano bifronte che lancia sputi asettici sul meraviglioso mondo imbordellato delle “mille luci di New York”. Tra gli scrittori celebri e celebrati anche nelle classifiche di vendita della mia generazione (quella dei più giovani tra i baby boomers) ho sempre pensato che Ellis fosse il migliore. Fino ad incappare in questo Lunar Park.

Il libro in questione è autobiografico in modo decisamente originale, e la prima parte è un vero fuoco d’artificio di svelazione del proprio io passato, pubblico e soprattutto privato, in un continuo gioco di sovrapposizioni tra i due, tant’è che uno diventa giocoforza l’altro senza soluzione di continuità. Per un lungo e felicissimo tratto lo scrittore americano ci racconta il dietro le quinte della sua vita di lit-star strappando senza sforzo risate caustiche, mettendosi alla berlina con coraggio e allo stesso tempo non rinunciando, com’è giusto, a una cavallina dose di autoironia estremamente compiaciuta. Autobiografico con nome e cognome, Ellis mette insieme pagine di grandissima presa, come se finalmente, sentendosi forse liberato da qualsiasi condizionamento narrativo di tipo classico tutto sommato propri del suo passato letterario, potesse aprirsi definitivamente ai suoi lettori con la sua verità, con la sua vera vita vissuta e strafatta di allucinogeni; finalmente, così pare, Ellis parla di se stesso – chiamandosi fuori dal solito gioco delle parti giocato tra i giornalisti e lo scrittore di successo in migliaia di interviste rilasciate in tutto il mondo- monologando più che brillantemente nel suo letterario “nero su bianco”.

Le cose a mio avviso cominciano purtroppo a peggiorare quando lo scrittore Ellis decide di fuggire un’altra volta da se stesso, inventandosi, peraltro con una certa maestria, un se stesso parzialmente depurato, che sta tentando con alterne fortune di mettere la classica “testa a posto” dopo aver sposato l’attrice Jayne Dennis (una notevole anche se dolce rompicoglioni di classico stampo hollywoodiano, una di quelle creature perennemente in bilico tra desiderio di normalità e narcisismo da personaggio pubblico), e ha riconosciuto il figlio dodicenne avuto con la donna al tempo del loro vecchio flirt nei bei eighties andati, sistemandosi con la famigliola tossicodipendente da psicofarmaci in una magione ipertecnologica del New England, in un quartiere residenziale che è una versione per ricchi dello scenario ammorbante e squallido di American Beauty.

Le cose cominciano a peggiorare soprattutto quando Ellis, reinventando se stesso, abbandonando il suo passato reale, s’inventa appunto un presente che più irreale non si puo’; e per renderlo ancora più irreale, questo presente – così, forse, da prendere le distanze con un colpo di coda da quell’ autenticità “senza pelle” delle prime pagine che m’aveva catturato anche per la qualità alta della scrittura – va a imbucarsi, come un infiltrato da party, in una ghost story con tanto di bambini scomparsi, presenze aliene, acchiappafantasmi, Patrick Bateman che torna – direttamente dalle pagine vintage di American Psycho– per uccidere ancora, se non altro nella testa del protagonista narratore di se stesso.

E allora tutto si sovrappone, si scompone e si parcellizza spesso caoticamente, mentre la scrittura si modifica lentamente ma inesorabilmente verso una a tratti banalità stilistica da bestsellerista patentato, denominato d’origine; la fabbrica di successi B.E.E. si fa prendere la mano da una storia tra lo Stephen King autobiografico e un certo cinema americano mordi e fuggi per adolescenti brufolosi in tempesta ormonale. Naturalmente questa fuga di Ellis attraversando le sue pagine sempre più povere di stile mostra però in maniera piuttosto netta una serietà artistica di fondo; non è insomma un gioco semplice, il suo, perché il mondo alternativo che si è inventato è comunque stato partorito dai suoi fantasmi più opprimenti (primo fra tutti, quello del padre) ma anche dal fantasma della letteratura che si spaccia da vita vera e viceversa. Il problema è a mio avviso che l’operazione di gioco di specchi tra Ellis scrittore in carne e ossa e sangue, Ellis narratore di se stesso, Ellis narrato dai primi due, in un gioco, oltre che di specchi, di scatole cinesi e di ombre di vivi e di morti, mostra la corda soprattutto verso la metà del libro; e il mio sospetto è che – pur tenendo abbastanza saldamente la barra a dritta grazie all’ormai consumato mestiere – lo scrittore si sia trovato ad un certo punto in pieno calo della libido ispirativa, e abbia cincischiato parecchio, per parecchie pagine non propriamente necessarie.

Verso la fine Lunar Park regala pagine di grande intensità; mi è sembrato chiaro che questa lunga metafora della paura (del passato, del presente, della normalità familiare e allo stesso tempo della solitudine del satiro) dovesse essere necessaria allo scrittore californiano per tentare di chiudere i conti col suo passato artistico ed esistenziale. Non ho avuto la sensazione avuta da altri – durante la lettura e ancor di più a libro chiuso- che Lunar Park sia un possibile punto di non ritorno, che la partita di Ellis con la letteratura si sia chiusa non certo per incapacità ma perché, in certo senso, questo libro potrebbe rappresentare l’assassino cartaceo di tutti i suoi precedenti, dai quali non gli sarebbe in ogni caso possibile liberarsi. Semmai il contrario: penso che questo libro rappresenti una sorta di parziale bilancio fantastico, un interludio sofferto e credo necessario allo scrittore, ma non giocato fino in fondo, non quanto da un autore di questo talento io lecitamente mi aspetto. Chiusa la pratica che ho voglia di denominare “The past of Bret Easton Ellis”, lo scrittore potrà credo ricavalcare l’onda, quando sarà pronto per farlo, tornando ad essere quel grande narratore puro che è stato.

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4 Commenti

  1. Ogni tanto mi chiedevo: ma gli scrittori degli anni Ottanta, Ellis, Mc Irney (che ho apprezzato, a suo tempo, diciamo fino a Riscatto), i narratori del “glam” newyorkese “scoppiato”, dove sono? Che fanno? Questa di Franz è una parziale risposta. Ellis cerca di andare avanti, di non dissipare il patrimonio acquisito, cerca di puntare alto, di spremere energie dal proprio talento, cerca di spalancare le porte del magazzino di idee e di creatività che però cigolano sui cardini. E allora mi chiedo: è un processo che continua a rigenerarsi questo degli autori giovani che portano alla luce stili, rabbie, disperazioni, incomunicabilità di una generazione – la loro, e lo fanno dall’interno, in tempo reale – e poi diventano grandi, diventano adulti, e magari diventano anche scrittori professionisti, e quindi devono misurarsi con la necessità di produrre, produrre, per sentirsi vivi, e combattono per questo, combattono con se stessi, con una scrittura che lentamente, ma inesorabilmente inizia a nutrirsi di se stessa, di professionismo, mentre per essere grande forse deve nutrirsi di vita, di contraddizioni, di delusioni, d’amore, e non riescono più a scrivere nulla tra le parole, non riescono cioè a viaggiare negli spazi inesplorati, ma ricchi di sorprese, del non-scritto? Non riescono più a portare avanti la ricerca di Jimi Hendrix, che voleva scoprire cosa c’è “tra” le note?

  2. credo che la crisi, perchè è evidente che lunar park rappresenti una crisi di quello che negli ultimi 15 anni ritengo essere stato semplicemente il miglior narratore del mondo, sia da ricollegarsi al parziale fraintendimento, da parte di una parte della critica e, quel che è peggio, anche da una bella fetta del suo pubblico, del capolavoro “Glamorama”. Romanzo particolarmente ambizioso e doloroso la cui filigrana dantesca, riscontrabile nelle sezioni a 33 capitoli, seppure alla rovescia, e nella parola finale “stelle” (oltrechè in numerosi nuclei tematici che andrebbero approfonditi) intendeva rappresentare (secondo me riuscendoci) l’allegoria definitiva di una società, e di una mente, precipitata in un girone infernale tra le scilla e cariddi di due contemporaneissime perdite: la perdita del senso di realtà e quella della propria identità fisica. Sorprendente anche per preveggenza nella descrizione di un mondo caduto preda di un terrorismo globale di origine oscura (pre 11 settembre) e di un imbarazzante figlio degenere di un quasipresidente degli stati uniti che preferisce “sostituirlo” ( bush jr cristiano rinato docet ?) GLAMORAMA ha scontetato molti. E temo che Bret se ne sia accorto. Da qui la scelta di fare un passo indietro tra le comode, e stilisticamente asciutte (quasi povere) pagine del romanzo di genere. Comunque il più dichiaratamente mainstream che abbia mai scritto. Il superpositivo plebiscito critico che sta ricevendo dovrebbe insospettirci.
    luigisocci

  3. Baldrus, a quanto ne so Mc Inerney è “missing” da tempo, e comunque a me, per questo, non sanguina di certo il cuore.
    Anche l’intervento di Socci su Glamorama e i suoi effetti mi pare molto interessante; e soprattutto dove denuncia un giudizio critico positivo plebiscitario su Lunar Park. Io questo l’ho trovato francamente imbarazzante. Perché diavolo parlare di capolavoro, quando per me è palmare che questo un capolavoro non lo è? (E comunque qui fioccano capolavori come nulla fosse, sarebbe ora di parlare di capolavori col dovuto distacco temporale, credo). Che si siano letti poco e male i libri precedenti di Ellis? O c’è dell’altro?

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