A Gamba Tesa/ Massimo Rizzante
foto di Philippe Schlienger
LA PATRIA DEI LUOGHI COMUNI
di
Massimo Rizzante
Che fare?
Avevo quattro possibilità.
Primo: festeggiare il decimo anniversario delle «Vacanze dello spirito» in compagnia di alcuni «grandi protagonisti della cultura» – così recitava il depliant recapitatomi in portineria – in un rifugio d’alta montagna circondato dalle «vette più caratteristiche delle Dolomiti».
Il seminario era aperto a tutti coloro che erano in grado di leggere «un semplice articolo di divulgazione culturale». Una volta superato il test, la vacanza prevedva due incontri al giorno con uno dei «grandi protagonisti della cultura»: un ex-filosofo del pensiero debole, un economista del pensiero unico, un critico letterario celebre per i suoi giochi enigmistici. Nel pomeriggio si poteva scegliere tra il trekking e il cinema all’aria aperta. Alla sera ciascuno era libero di consacrarsi alla «scoperta della propria natura».
Secondo: accettare l’invito di un’università privata a partecipare al progetto Superfluxus Superstudent Channel. Alcuni giovani artisti americani avevano creato un canale web che da un mese era gestito da «un’élite di studenti innovatori» – così recitava l’e-mail che avevo ricevuto il giorno prima. Questi studenti, che «coniugavano in modo artistico la ricerca con il divertimento e l’attenzione con la distrazione», inauguravano un programma dal titolo Superprof Day: per meglio conoscere l’ambiente un «gruppo di ricerca» filmava la giornata standard di un professore.
Terzo: partecipare a un incontro organizzato da un forum di appassionati di internet. Il simposio si teneva in un hotel a cinque stelle sulle rive del lago e il titolo era: Gli uomini di Atlantide.
Un anno fa avevo incontrato per caso un giovane ebreo polacco, il quale mi aveva informato dell’esistenza di una famiglia di grandi personalità che lungo il corso della storia dell’umanità avevano dovuto lottare contro la malvagità e la meschineria di coloro che – affermava – «credendo di camminare sotto il sole della conoscenza, in realtà non facevano altro che opporsi al mistero vittorioso delle anime notturne». Fra le anime notturne la cui vita era stata particolarmente disgraziata, il giovane annoverava Socrate, Boezio, Dante, Cagliostro, Tommaso Campanella, il suo maestro polacco Kropotkin, e, naturalmente, lui stesso, «l’ultimo uomo di Atlantide»
Quarto: raggiungere mio padre a Vienna per trascorrere insieme qualche giorno.
Ma, prima di tutto, dovevo assolvere ai miei doveri.
Un club di lettori di best-seller – gente reclutata dalle commissioni dei premi letterari o da case editrici a corto di soldi – mi aveva invitato a redigere un «panorama» del romanzo italiano contemporaneo, «noto anche all’estero» – come era stampato in grossi caratteri sul contratto.
Panorama
«L’ultima volta che ho tentato di descrivere un panorama, cari amici, avevo tredici anni, ed ero al Prater di Vienna.
Ero salito sulla Grande Ruota. Dopo aver penzolato per mezz’ora in un abitacolo sospeso nel vuoto, scesi in preda al panico. Poteva trattarsi di ebbrezza da altitudine: in fondo non ero ancora mai stato su un aereo né avevo mai sperimentato le vertigini del coito.
Mio padre era rimasto seduto su una panchina a gustarsi alcune delicatessen dello spirito. Professore di filosofia in un liceo, leggeva la tesi su Heidegger redatta nel 1948 da una giovanissima Ingeborg Bachmann. Quando mi vide, chiuse il libro e mi chiese: ‘Era bello il panorama?’. Come potevo confessargli che a causa del mio spaesamento non ero riuscito a mettere a fuoco nulla? Fu così che, per la prima volta, gli dissi una bugia disegnandoli una città che non coincideva con la città reale, se non per qualche dettaglio: un quadro di Brueghel dove tutti i contadini erano, se si osservava bene il loro basso ventre, grottescamente eccitati; un’anziana signora che, trascinandosi per Ottakringerstrasse, domandava alla folla di passanti se andava tutto bene – Alles in Ordnung, Herren und Damen?; i volti tesi dei due custodi della cripta dei Capuccini che sembravano temere la fuga notturna di qualche imperatore…
Da allora, ho preso molti aerei e sperimentato sufficientemente le vertigini del coito, ma non ho mai più offerto né a mio padre né a nessun altro alcuna visione panoramica: né della vita, né della Storia, né del mondo. Ogni volta che ho tentato di farlo, ho fallito. Non è che non creda nell’aspirazione profondamentre radicata nell’uomo di cogliere la totalità. Ma da allora non ho più potuto superare la mia ebbrezza da altitudine affollata di dettagli, menzogne reali e ricordi inverosimili, senza penzolare in preda al panico nel vuoto della verità».
Das Man
«Il libro di Ingeborg Bachmann – come mio padre mi informò durante la cena – era una feroce polemica contro Heidegger.
Secondo lui, che conosceva bene l’opera della scrittrice austriaca, all’epoca dei suoi studi universitari la Bachmann era ancora troppo influenzata dal circolo filosofico di Vienna per comprendere l’importanza dell’analisi esistenziale di Heidegger. ‘Non ha compreso il senso del das Man’ – mi disse. ‘Il das Man?’ – ripetei. ‘Sì – continuò mio padre – il territorio del ‘si dice’, della ‘chiacchera’, del sentito dire, della quotidianità, il luogo dell’inautentico dove ‘nessuno è se stesso’ – rispose mio padre. Si rendeva conto che avevo appena tredici anni? E che non ero in grado di comprendere quasi nulla? Naturalmente. Ma ogni volta che gli ricordavo la mia età, mio padre alzava la mano destra e mostrandomi con l’indice l’invisibile cammino che avevo davanti a me, esclamava: ‘È per l’avvenire’».
I volti imprevedibili del nostro essere comune
«L’avvenire mi ha raggiunto. Oggi posso comprendere mio padre, ma non per questo ho smesso di interrogarmi.
Se il luogo comune, come afferma Heidegger, è il prodotto del das Man, dove ‘nessuno è se stesso’, mi domando: l’uomo, in quanto essere ontologicamente prosaico, cioè immerso costantemente nella vita quotidiana, potrà mai sfuggire a questa trappola? E il romanzo, che per primo ha scoperto la bellezza del mondo della vita quotidiana e che da secoli la frequenta, è forse, a differenza della filosofia o della poesia (Heidegger, alla ricerca dell’Essere, ha imboccato il sentiero che lo portava a Hölderlin, non quello che lo avrebbe condotto a Flaubert o a Kafka), l’arte più esposta alla forza di riduzione del das Man? La più vulnerabile? La meno adeguata per conoscere l’essere dell’uomo?
Io direi esattamente il contrario: proprio perché il romanzo è lo strumento più sottile – essendone il più invischiato – per conoscere la vita quotidiana, esso è anche lo strumento più lucido e spietato per metterne a nudo i conformismi, le verità apparentemente assolute, i falsi ideali. Direi anche di più: il romanzo è l’arte più raffinata per esplorare i luoghi comuni dell’esistenza. Grazie ai suoi personaggi, il romanzo getta una nuova luce sulle situazioni vissute mille volte, usurate dalla medesima mancanza di attenzione, o continuamente dimenticate.
Quando, leggendo un romanzo, ci si riconosce nei gesti, nei pensieri o nelle azioni di un personaggio e si esclama: ‘È proprio così!’, o ‘Perchè non ci ho pensato prima?’, ciò non avviene tanto a causa di un’identificazione automatica, o di un’interpretazione predeterminata, quanto per una ragione del tutto opposta. Si scopre con stupore ciò che si è. O meglio: si scopre quella possibilità che si è, che non si credeva di essere e che il personaggio romanzesco, al nostro posto, ha sperimentato. Il personaggio possiede proprio questa missione: ci rivela ogni volta un volto imprevedibile del nostro essere comune».
L’infanzia del romanzo
«Inetto a offrire panorami e allevato all’avvenire da un padre filosofo, mi sono messo finalmente a leggere due best-sellers italiani scritti da miei contemporanei, fra i più rinomati in patria e tradotti all’estero in mille lingue, nella speranza, cari amici, che possiate comprendere il mio tentativo.
Il primo è Io non ho paura di Niccolò Ammaniti.
Siamo nel 1978. Il protagonista, Michele Amitrano, ha nove anni. Vive ad Acqua Traverse, un paesino del sud. Ha una sorella, una madre casalinga, un padre camionista e qualche amico con cui scorazza in bicicletta per le campagne. Un giorno scopre per caso un grande buco con dentro un bambino della sua età, Filippo Carducci. Filippo è molto magro, sporco e trema di paura. Il romanzo, da questo momento, si svolge su due piani: la storia del segreto di Michele e la storia di un rapimento, tanto tragico quanto maldestro, ad opera di una banda di adulti di Acqua Traverse, i cui componenti formano un modesto campionario della malvagità umana. Il romanzo è narrato alla prima persona da Michele. Il punto di vista è quello dell’infanzia, anche se qualche raro paragrafo ci trasporta in un presente lontano dagli avvenimenti dell’estate del 1978.
A pagina 37 del romanzo (che ne possiede 216), Michele, cadendo da un albero, ha appena scoperto il povero Filippo. Non ha neppure il tempo di capire se è vivo o morto che deve, richiamato dai compagni di giochi, ritornare a casa. Il bambino del buco sarà il suo ‘segreto’.
Tuttavia, per il lettore dotato di un minimo di esperienza, già a questo punto non ci sono più segreti. È evidente che Michele ritornerà nel luogo della scoperta fino a quando sarà scoperto a sua volta dai cattivi. È evidente, a chi conosca minamente la cronaca nera della nostra penisola, che si tratta di un rapimento. È evidente che la banda che ha organizato il rapimento è di Acqua Traverse. È evidente che il padre di Michele ne faccia parte. È evidente che la madre, sebbene riluttante e piena d’angoscia, gli tenga il gioco : i soldi servono per abbandonare il povero Sud e andare a vivere nel ricco Nord. È evidente che ad Acqua Traverse non vivano che falliti, perdigiorno o ricchi che hanno il potere di vita e di morte su falliti e perdigiorno. È evidente a p. 37 che, grazie a questa dote suprema dell’autore che è la cosiddetta felicità narrativa – come molti critici considerano l’assenza di digressioni, di meditazioni e di interventi sul piano della composizione –, l’intreccio corra veloce verso lo scioglimento come un treno lanciato sui binari della predeterminata interpretazione del mondo, predeterminata perché prevista, e prevista perché già inscritta nel catalogo di déjà vu di cui sono composte le nostre esistenze.
Del segreto più grande, e cioè di che cosa sia l’amiciza, l’amore, il sesso, la morte per Michele, nel romanzo non c’è traccia. Ciò che conta è la trama. Ciò che conta è il grado di automatica identificazione ottenuto attraverso la successione e messa a punto dei fatti. La felicità narrativa è l’eterna infanzia del romanzo.
In altre parole, come avrebbe detto mio padre, in questa opera l’evidenza del das Man aveva vinto. Mentre il romanzo, in quanto strumento di esplorazione del suo segreto, era stato sconfitto».
Un malinteso ontologico
«L’altro romanzo che ho voluto leggere è Non ti muovere di Margaret Mazzantini.
La storia ha come protagonista e voce narrante Timoteo, un chirurgo felicemente sposato con una giornalista, Elsa. Timoteo, in una sala contigua alla camera operatoria dove sua figlia Angela – caduta dal motorino in una giornata di pioggia – sta subendo un intervento al cervello, racconta, quasi indirizzando una lunga e dolente lettera alla figlia morente, una vecchia storia avuta con Italia, una donna non molto istruita e sgraziata (che morirà di setticimia per un aborto maldestro), ma da cui il protagonista è stato attratto per le ragioni sempre oscure dell’amore. Ciò che l’autrice sembra aver voluto mettere in scena è una sorta di duplice, sincronica e drammatica operazione. Da una parte il difficile intervento chirurgico su Angela, dall’altra la necessità del padre di praticare un’altrettanto difficile e pericolosa incisione, ovvero una confessione a cuore aperto su una parte di sé con cui non aveva mai fatto i conti.
Il problema di questo romanzo – al di là dell’abile costruzione della story – il treno deve procedere di gran carriera verso la stazione dello scioglimento finale – è che si basa su un malinteso ontologico.
Lo formulerei nel modo seguente: se si scrive in prosa la bellezza a cui si dovrebbe tendere è appunto quella prosaica. La bellezza prosaica non è la bellezza lirica; non sopporta la stessa quantità di pathos né lo stesso grado di enfasi; necessita di una dose minima di ironia; non fa uso dello stesso tipo di metafore.
Il romanzo della Mazzantini è paradossalmente un romanzo lirico. E che cosè un romanzo lirico? Un romanzo che aspira a esplorare la parte quotidiana dell’esistenza, ma che compie questa esplorazione attraverso dei mezzi impropri, tanto che, invece di mettere a nudo il mondo dei luoghi comuni (il das Man) lo riveste di cattivi versi.
Un esempio. Siamo all’inizio del romanzo. Timoteo ha appena ricevuto la conferma che sua figlia si trova in sala operatoria. È disperato. E comincia a correre:
Ho corso giù per le scale, ho corso sotto la pioggia dell’esterno, ho corso mentre un’ambulanza che arrivava sparata inchiodava a due passi dalle mie gambe, ho corso dentro i battenti della porta a vetri dell’astanteria, ho corso nella stanza dove qualcuno con un arto fratturato gridava, ho corso nella stanza accanto, vuota e in disordine. C’erano i tuoi capelli per terra. I tuoi capelli castani e ondulati raccolti in un mucchietto insieme a qualche garza insanguinata.
Il personaggio corre in preda alla disperazione. L’autore corre con lui. Solo che l’autore appare disperato quanto il suo personaggio. O meglio: l’identificazione necessaria con il proprio personaggio non è qui sostenuta dall’altrettanto vitale distanza tra lo sguardo dell’autore e quello del personaggio. L’enfasi drammatica è perciò ulteriormente drammatizzata. Il patetico, grazie all’anafora (‘Ho corso’, ‘Ho corso’), non essendo controbilanciato da un minimo di ironia, deborda. Tale assenza di compensazione fa scivolare la scena drammatica verso il grottesco involontario.
Le frontiere della prosa sono delicate. Il rischio non è solo l’eccesso di pathos, ma anche la tendenza a cogliere attraverso metafore liriche le situazioni vissute dal personaggio.
Alla fine della corsa di Timoteo, si legge: ‘In un attimo sono polvere che cammina’ (sono io che sottolineo). Timoteo non si sente più un essere umano in carne e ossa. Il dolore lo ha talmente triturato che è diventato polvere. Ciò che conta di più in questa metafora è soprattutto la visibilità dell’immagine. Il suo regime lirico tende a rendere universale il dolore di Timoteo, a fare in modo che sia quello di tutti gli uomini. In altre parole: questa metafora non coglie la specificità del dolore di Timoteo. Tutti, nella situazione di Timoteo, possiamo diventare ‘polvere che cammina’. Ma chi è Timoteo? Qual è il suo rapporto specifico con il dolore? Tutto ciò resta nascosto in virtù della luce accecante della metafora lirica, luce tanto più accecante in quanto la metafora è priva di originalità».
Il sorriso delle ombre
Sono ritornato a Vienna. È successo una settimana fa. In sogno. Ero di nuovo al Prater. Sospeso sulla Grande Ruota panoramica. Questa volta non ero solo. L’abitacolo era pieno di gente e penzolava furiosamente nel vuoto. Nessuno, tuttavia, sembrava preoccuparsene. Notai una signora molto anziana che in modo ossessivo continuava a domandare a tutti i presenti: Alles in Ordnung, Herren und Damen?. Sono sceso, ma mio padre non c’era. Sul prato di fronte erano state disposte molte sedie. Disegnavano un quadrato perfetto, dove improvvismente sedeva un pubblico bizzarro: alcuni turisti dello spirito vestiti alla tirolese; un gruppo di studenti americani pronti a girare il loro primo lungometraggio; degli uomini armati di computer alla ricerca di Atlantide; le ombre di Socrate, Boezio, Dante e altri immortali (che non riuscivo a riconoscere) che ridevano nel silenzio del parco, circondato dalle vette più caratteristiche delle Dolomiti, nella patria dei luoghi comuni.
Tutti attendevano la mia conferenza».
Un altro ritorno
Ho voluto ritornare al Prater. Io e mio padre eravamo seduti su una panchina. La Grande Ruota girava lentamente. La disperazione – che all’età di tredici anni non mi abbandonava mai – grazie alla natura, agli alberi, al canto degli uccelli si era placata. Due lacrime scendevano lentamente sul mio viso.
Fu proprio in quel preciso istante che mio padre mi domandò: «Ti piacerebbe vivere per sempre in questo quadro di stile Biedermeier? ».
«Stile Biedermeier?» ripetei, senza capire. Ah, dimenticavo: «È per l’avvenire!»
I commenti a questo post sono chiusi
Mio padre, quando avevo a 13 anni, mi parlava della Juventus. Ora che ne ho quasi 40 mi parla ancora della Juventus.
(il pezzo, comunque è molto bello)
é rassicurante la circolarità che dai tra il Das Man inizialmente dogmaitco e ieratico e il suo finale aperto sul futuro emozionale.
Sento movimento, superamento, quasi come se dal vuoto iperativo”attento al luogo comune!” si terminasse , attraverso l’angoscia, alla maturazione, alla completezza del sentire.
Anche se noi vuoi, Heidegger ti lavora dentro, tanto piu’ che agisce l’istanza paterna, doppiamente paterna in questo caso, simbolica e anagrafica.
Freud direbbe che hai un superio molto sviluppato, avendoli interiorizzati tutti e due..:-)
magda
ps: ho postato anche di là…se vuoi fare un giro…sulle poesie….
Pezzo fulminante. Brào ‘l Forlòn, supremo il messere Ritzànt, come ovvio.
Ora lo stampo e lo appendo sul muro sopra il pc, così ogni volta che mi viene una folle idea lo rileggo e ci medito in silenzio per alcune ore… per l’avvenire… grazie, a chi ha scritto e a chi ha postato.
In sintesi volevo dire:questo articolo rivela molta CURA. :-)
E contiene idee, il che lascia spesso sbigottito anche il lettore più cinico e scaltrito. Idee come piovessero, davvero.
Idee e sentimenti, tutti in versione mostruosamente atemporali, ovvero, sia diacronici che sincronici.
Ci trovi idee e sentimenti in embrione e le stesse poi in maturazione.
Si gioca con l’aleatorietà temporale, similmente al bambino
che gioca al”come se fosse” reversibile.
E’ un post cinetico di “conati” esistenziali.
Elogi, complimenti e sofisticazioni sono meglio di niente.
Nessuno, però, nota o fa notare che questo pezzo è una prova, forse rara forse no, che in Italia, a dispetto delle sterili e sempre uguali polemiche e lamentazioni che coinvolgono i soliti noti su carta e on line rubando tempo prezioso alle lettrici e ai lettori, esiste una critica militante di alto livello.
La miopia è davvero un male comune, troppo comune.
P.S. L’orologio dei post dà i numeri. Sono le 14.21.
la miopia è figlia dell’onanismo.
quasi tutti gli intellettuali portano gli occhiali.
l’orologio è figlio della relatività.
la criticità d’alto livello è nota individuale, il bello sarebbe divenisse senso di appartenza a corpi piu’ vasti.
Secondo voi, quali sono i criteri, gli ambiti, in cui la “militanza critica” germina, cresce e feconda? come coltivarla e con quali formazioni?
Ma Stefano, lo sappiamo che in Italia esiste la critica militante…perlomeno io penso così. Ora non essendo io una critica, cioè facendo altro mestiere, non posso che apprezzare il testo di Rizzante e sorprendermi del fatto che il post di Sartori non ha sortito alcun effetto, per esempio.
Herr Zangrando, perché perdere tempo con le tautologie? Ancora di recente, ricordava il Wittgenstein che esse sono sinnlos. Massimo è anche un ottimo critico militante. Nelle pagine citate, però, fa altro, di pure più interessante (e in altre che si spera qualcuno abbia il coraggio civile di pubblicare, vero).
Cara Gabriella,
vista l’aria stantia che si respira in interventi come quello di Mozzi su Vibrisse (che a sua volta ha stimolato quello, più sobrio ma secondo me inficiato in partenza dalla viziosità del tema, di Sartori) o pamhplet come “Eutanasia della critica” di Lavagetto, credo che chi come noi è innanzitutto lettrice o lettore abbia ragione di dire, dove e quando è il caso: “Ecco, è questo che vogliamo! Ecco una critica che per noi ha valore e ci trova pronti a seguirne con fiducia le indicazioni”; e questo non tanto rivolgendosi al critico in questione, quanto piuttosto a tutti gli altri, ai compilatori di inutili pagine e paginate di sedicente critica o metacritica senza senso né durata, affinché si rendano conto dell’inopportunità del loro operato e, nella migliore delle ipotesi, cambino mestiere.
Cara Magda,
non so cosa intendi per “senso d’appartenenza a corpi più vasti”, ma credo che la critica d’alto livello non debba seguire niente al di fuori del proprio fiuto estetico, che di solito è frutto del talento e di una lunga e solida formazione, e di quello dei propri interlocutori, che essa sceglie da sé.
Giovanni egregio,
hai ragione: qui il nostro fa pure altro: fa un saggismo d’autore che in Italia non esiste “ufficialmente” e che pertanto non trova molti canali per la propria diffusione – e lo sai anche tu, n’est pas?
Quanto alla tautologia, credo che il commento qui sopra spieghi sufficientemente perché ho voluto correrne il rischio; del resto, dopo aver perso tempo a leggere Mozzi e Lavagetto, il presente sprechino mi pareva innocente e giustificato.
Un solo rilievo, e pedante scolastico didascalico [aggiungi tu gli aggettivi che, in questo momento di pausa, mi fanno difetto]: non si dà lavoro critico se non rivolto a una comunità critica. Sia poi essa composta di lettori, altri critici o che altri, non ha importanza. Importa che esista una rélation critique continua, come da 40 anni se non più propone Starobinski, come succede(va?) in Francia, come di certo confusamente ma con vigore càpita in certa America e magari altrove.
D’accordo, Giovanni. Dal canto mio, voglio precisare, poiché i commenti sopra si prestano all’equivoco, che non è che giudico il saggio di Lavagetto o l’intervento di Mozzi privi di valore critico (ci manca solo che un pischello come me si metta a pontificare contro chi la sa più lunga – mooolto di più nel caso di Lavagetto – di lui), bensì rimpiango il fatto che ci si arrabatti ancora, in varia maniera, con una “vexata quaestio” tutta italiana, quella della critica, che alla luce di pezzi come questo di Rizzante, o almeno di alcune sue parti, si svela improvvisamente come una non-questione, un problema inesistente. Sarà pur giusto constatarlo, no?
Vere dignum et iustum est, hombre: ne parlammo d’altronde proprio con Massimo Rizzante e con altri, consenzienti e no (anche questo sarà comunità critica, no: confronto dialettico, non coincidenza di opposti e altro del genere). Una possibile difficoltà, di cui ancora si chiacchierava con Massimo, è trovare la sede adeguata per queste che, a fronte dei mali e beni dell’Universo immemore, sono senz’altro minuzie: ma che, nel petit jardin de la culture, sono montagne. Una sede quasi di certo inadatta, per dire, sembrerebbe giusto il web; per ragioni ontologiche, pragmatiche e in ultima analisi anche soltanto linguistiche.
Magistrale, come sempre!
Ma sono particolarmente felice che Massimo, che è uno dei migliori critici del romanzo che abbiamo in Italia, abbia finalmente deciso di scendere in campo e dire la sua. Rizzante militante (rima a parte) è il meglio che si potesse sperare
lello
Io peferisco il critico (f)rizzante. Quelli che scrivono sui giornali sono sgasati.
Lello, una preghiera: mai più discese in campo. Dell’ultima, e purtroppo più nota, l’economia e la finanza italiane (quindi la sola finanza) stanno pagando il conto da 12 anni in qua.
Urca! hai ragione Giovanni
ci mancherebbe solo il critico Cavaliere…
faccio ammenda ;-))
Mio padre, invece, quando avevo 13 anni mi parlava di guerra… (Terribile!)
Questo è uno dei pezzi migliori apparsi su NI, comunque. Chirurgico.
chirurgico plastico, sartoriale.
mio padre..quando avevo 13 anni (lui 38)..faceva l’amico,(terribilissimo) e parlava a tutti delle sue stravaganze.
Le grandiose visioni panoramiche possono essere illusorie, ma ci sono strade che permettono soluzioni e approdi dignitosi, salvaguardando le prerogative e insieme i limiti della ragione.
C’è continuità, sembra, tra le ricerche del padre e quelle del figlio.
La filosofia per esplorare e snidare i luoghi comuni del pensiero; la letteratura, e soprattutto il romanzo, per esplorare i luoghi comuni (e insieme i “grandi” temi) dell’esistenza.
La critica (del romanzo) come indagine sulla effettiva capacità della letteratura (del romanzo) di esplorare i luoghi comuni dell’esistenza.
Il “buon” romanzo diventa allora il romanzo che affronta i luoghi comuni (i “grandi” temi) della vita (“l’amicizia, il sesso, la morte…”) senza furbizie, senza fermarsi alla superficie.
Senza le scorciatoie del sentimentalismo, della “trama” o della “felicità” narrativa.
Senza concessioni agli stereotipi (ai luoghi comuni) più facili della cultura di massa.
La “forma” della critica come via di mezzo tra pensiero ed esistenza, tra scrittura saggistica e scrittura letteraria (narrativa).
A che tante virgolette? E che cosa vogliono dire, le parole svirgolettate? Il sabato pomeriggio, nel pieno dei saldi, non è chiaro.
@in-comprehençion
1) Sì, ho la manìa delle virgolette e delle svirgolette.
2) Sì, può darsi che il mio discorso non sia chiaro. Allora leggiti il testo di Rizzante. Se “io” non l’ho capito, pazienza. “Tu” leggilo, in ogni caso. Poi magari spiegami – virgolettando e svirgolettando – quel che hai capito. Non limitarti ad elogiare.
3) Sì, adesso vado per saldi.
Molto male, avreste dovuto venire in manifestazione oggi… eravamo tanti, a Milano. Altro che saldi!
@ emma
“manifestazione” ;-)
Condizione necessaria e sufficiente per essere alla manifestazione di Milano è abitare a Milano o nei pressi. E peraltro: l’adesione in ispirito e toto corde non basta?
*330 Km.* MILANO
*400 Km.* ROMA
@Gabriella, scrivici un post sulla manifestazione dai……….che ero ammalata a letto…
Era giocosa la mia battuta. Mag, se vai sul blog di Georgia c’è un’esauriente rassegna stampa sulla giornata di ieri. Ciao. :-)
Il commento di prima è mio, il furlen ha usato il mio pc ed era rimasto il suo nome.
Auguri di pronta guarigione.
Gabriella è bello il sito di Georgia, pero’ mi piaceva sentire le tue impressioni personali, se ti va’ ovviamente.
ciao
Magda
[…] E, per venire al dunque: è interessante il ben venduto e incensato primo romanzo Piperno, è interessante il primo romanzo di Colombati, è interessante l’ultimo libro di De Luca? Credo che l’unico possibile metro di giudizio sia quello di analizzare, indipendentemente (almeno in un primo tempo) dalle loro vendite, il loro lavoro. Il che vuol dire entrare senza pregiudizi ideologici o estetici o altro nello specifico delle loro opere, delle loro costruzioni linguistiche. Confrontandole con quelle della tradizione italiana, con le opere recenti a esse più vicine, cercando eventuali relazioni o vicinanze o corrispondenze con il conformismo letterario (e più in generale culturale) italiano, cercando i legami con i pregi e i difetti e le pecche di altre opere (italiane) passate o recenti, ragionando sull’eventuale originalità linguistica (in senso lato). Evidenziando e ragionando sulle influenze che vengono da letterature di altre lingue alla luce del senso e dell’effettiva eventuale “innovatività” che assumono per la lingua (in senso lato) italiana, valutando la riuscita o meno dell’innesto. Le trasposizioni tra letterature diverse prendono spesso l’apparenza di novità (= di atti di sabotaggio linguistico), ma poi si rivelano, col tempo, e col senno di poi, molto meno interessanti di quello che erano sembrate all’inizio (viene a galla il lato conformistico dell’operazione). Questo in realtà lo fanno in pochissimi, e non lo fa certo la critica giornalistica. E’ rarissimo, tanto per fare un esempio, che le recensioni giornalistiche entrino nel merito, a parte qualche banalissima e prevedibilissima frasetta, della lingua. Ma in realtà non ci vuole molto spazio, non ci vuole molto tempo. Ci vuole intelligenza, serietà, libertà dai vincoli ideologici e libertà dalle reti di influenza (cosa molto difficile, visto il fittissimo imbricamento di interessi e di rapporti personali nel piccolo mondo letterario italiano). Ci vuole soprattutto molta distanza dal conformismo imperversante, appunto. Ma faccio un esempio: in un testo riportato su Nazione Indiana Massimo Rizzante riesce a “smontare”, nel senso che trova la “pecca di fondo”, e riesce a farlo in poche righe, di un libro del sopra citato Ammaniti e del bestseller della Mazzantini. Di valutazioni di questo genere sento atrocemente la mancanza. […]
[…] E, per venire al dunque: è interessante il ben venduto e incensato primo romanzo Piperno, è interessante il primo romanzo di Colombati, è interessante l’ultimo libro di De Luca? Credo che l’unico possibile metro di giudizio sia quello di analizzare, indipendentemente (almeno in un primo tempo) dalle loro vendite, il loro lavoro. Il che vuol dire entrare senza pregiudizi ideologici o estetici o altro nello specifico delle loro opere, delle loro costruzioni linguistiche. Confrontandole con quelle della tradizione italiana, con le opere recenti a esse più vicine, cercando eventuali relazioni o vicinanze o corrispondenze con il conformismo letterario (e più in generale culturale) italiano, cercando i legami con i pregi e i difetti e le pecche di altre opere (italiane) passate o recenti, ragionando sull’eventuale originalità linguistica (in senso lato). Evidenziando e ragionando sulle influenze che vengono da letterature di altre lingue alla luce del senso e dell’effettiva eventuale “innovatività” che assumono per la lingua (in senso lato) italiana, valutando la riuscita o meno dell’innesto. Le trasposizioni tra letterature diverse prendono spesso l’apparenza di novità (= di atti di sabotaggio linguistico), ma poi si rivelano, col tempo, e col senno di poi, molto meno interessanti di quello che erano sembrate all’inizio (viene a galla il lato conformistico dell’operazione). Questo in realtà lo fanno in pochissimi, e non lo fa certo la critica giornalistica. E’ rarissimo, tanto per fare un esempio, che le recensioni giornalistiche entrino nel merito, a parte qualche banalissima e prevedibilissima frasetta, della lingua. Ma in realtà non ci vuole molto spazio, non ci vuole molto tempo. Ci vuole intelligenza, serietà, libertà dai vincoli ideologici e libertà dalle reti di influenza (cosa molto difficile, visto il fittissimo imbricamento di interessi e di rapporti personali nel piccolo mondo letterario italiano). Ci vuole soprattutto molta distanza dal conformismo imperversante, appunto. Ma faccio un esempio: in un testo riportato su Nazione Indiana Massimo Rizzante riesce a “smontare”, nel senso che trova la “pecca di fondo”, e riesce a farlo in poche righe, di un libro del sopra citato Ammaniti e del bestseller della Mazzantini. Di valutazioni di questo genere sento atrocemente la mancanza. […]
Sono finito qua un po’ così…un pezzo davvero bello, interessante. Soprattutto, fa riflettere. Grazie.