Virgolette
di Marco Candida
Il centoquarantacinquesimo commento al post A cena (e a colazione, se possibile) con Eva pubblicato su Nazione Indiana da Giovanni Choukhadarian, è firmato da Emma e tra altre cose dice:
[…]
Per me gli asterischi sono come due puntine o due mollette poste ai margini di un post-it in carta riciclata.
Servono per appendere il post-it da qualche parte, anzi possibilmente davanti agli occhi di chi legge.
Il corsivo è parente stretto, le “.” probabilmente pure, il TUTTO MAIUSCOLO è il cugino maleducato, ma siccome corsivo, “.” e TUTTO MAIUSCOLO per ora hanno un aspetto più familiare dei *.*, si finisce col notarli di meno.
[…]
Che si tratti di “…” o di *…* o del corsivo o del TUTTO MAIUSCOLO (da qualche tempo come sostitutivo di “…” per personalizzare di più i miei testi, ho adottato //…// non si sa mai proprio bene che cosa ci stia in mezzo a quei due segnetti.
Una volta aperte le virgolette (…o gli asterischi, o le apostrofi, o le doppie barrette…) si spalanca davanti a chi legge un territorio senza regole dove sembra proprio che tutto valga. Avete qualche dubbio su quel che ho appena scritto? Allora provate a rileggere la frase così: una volta aperte le virgolette “si spalanca” davanti a chi legge un “territorio” senza “regole” dove sembra proprio che “tutto” valga. Non vi sembra che messe così le cose qualche dubbio in meno adesso vi infastidisca? Io credo proprio di sì. O se volete: io “credo proprio” di sì.
Forse gli studiosi del linguaggio dovrebbero considerare di più e meglio questo strano fenomeno che sono le virgolette. Questi quattro trattini che si applicano ai lati delle parole le proiettano in una dimensione dove non si può decidere del loro reale significato; e scommetto che se proprio adesso avessi scritto accanto alla parola “significato” la parola “reale” con le virgolette, di sicuro avrei ottenuto l’approvazione di chi tra voi è più pignolo; e in ogni caso, se non altro, avrei ottenuto di farvi entrare anche soltanto per un micro-secondo dentro a questa (terza? quarta? quinta?) dimensione dove il significato di ogni parola si fa indecifrabile, avrei ottenuto di farvi precipitare per un micro-secondo in un piccolissimmo stato di trance catatonica, come se tutta quanta la vostra attenzione fosse stata risucchiata e compressa da quei quattro trattini messi in fila sopra la parola “reale”.
Sembra essere proprio questo il potere di questo segnetto apparentemente così “insignificante” (…non sembra molto più vistoso un punto di domanda?; o un punto esclamativo?; e che cosa dire di un punto fermo?…) ed è un potere mica da riderci, un potere, se ci si pensa, che manda all’aria moltissime tra le questioni più importanti che ci sono. Già: Il Potere Delle Virgolette!
Che cosa ne dite, infatti, se un giorno a qualcuno venisse l’idea di mettere la parola “Dio” tra virgolette? (Magari tanto per essere più chiari: di mettere la parola “Dio” tra virgolette in un trattato di teologia). E quante parole ormai sono state intrappolate dalle virgolette? Che ne dite della parola “famiglia”? E della parola “lavoro”, che cosa ne dite? Della parola “Destra”? Della parola “Sinistra”? E della parola “Centro”? Che cosa ne dite della parola “democrazia”? (…ma forse questa ci è proprio nata tra le virgolette…)
Le virgolette sono un segnetto insignificante, sì, e forse proprio per questo sono tenute in grande considerazione da chi fa un uso della ragione sottile. Usare le virgolette è segnalare che colui o colei che è dotato o dotata di una ragione sottile sa molto bene che quel che sta dicendo, che il termine che sta usando, non è completamente adatto, e che per una qualche ragione, lui o lei è costretto o costretta a usare quella parola (perché manca il tempo; per farsi capire da tutti; perché sia chiaro che il tema trattato è così importante che non se ne può parlare se non usando solo parole inadeguate; e via così), ma che in un’altra circostanza, se proprio si dovesse mettere d’impegno e usarla tutta la sua ragione sottile, allora quelle virgolette sparirebbero.
Il Dizionario Enciclopedico De Agostini definisce così le virgolette:
Segno d’interpunzione formato da due coppie di virgole (“”), usato per aprire e chiudere il discorso diretto, anche quando si tratta di parole espresse solo con la mente; per riportare citazioni; per dare evidenza speciale a una parola o a un concetto.
Anche se lo fa meno simpaticamente, con quel “per dare un’evidenza speciale a una parola o a un concetto”, il Dizionario Enciclopedico De Agostini dice la stessa cosa di Emma nel suo commento; per me, però, non c’è solo questo: c’è molto di più.
Le due coppie di virgole, gli asterischi, le apostrofi, le mie doppie barrette, e il corsivo, e il TUTTO MAIUSCOLO, e l’espressione “per dire” o “dico per dire” o “faccio per dire”, e via così, rappresentano soltanto la polvere di un pensiero che forse andrebbe pulito meglio. Tutti questi segni d’interpunzione, e alcune incidentali che si inseriscono nel discorso, molto spesso segnalano soltanto che abbiamo deposto la ragione, che una certa qual pigrizia ci ha sopraffatti, e così finiamo per rifugiarci in un modo di dire le cose o di renderle evidenti senza sforzarci di ottenere che siano le cose a dire il modo e che siano le cose e le parole a rendersi evidenti.
Quando non sappiamo bene di che cosa stiamo parlando (intendo: proprio ciascuno di noi, uno per uno, ogni volta che decidiamo di prendere la parola) allora ci viene da usare dei modi precostituiti per dire le cose (e che siano recenti o meno recenti, vuoti o densi, non è che cambi tanto) forse perché siamo spaventati e ci accorgiamo che quel mostro che si risveglia quando si prende la parola (come gli antichi raccontavano), bene, tutto sommato, quel mostro c’è, e ci sta addosso, e che se poco poco ci proviamo a dirlo qualcosa, qualcosa di nostro, qualcosa che sentiamo, non è facile proprio per niente, anzi è pericoloso, e per riuscirci addirittura possiamo arrivare a vederlo in faccia il mostro.
Che cosa poi sia, effettivamente, fuor di metafora, questo mostro, non credo proprio che si possa stabilire; credo che di mostri, quando si cerca di dire una cosa, se ne risvegli più d’uno, e che ci sono mostri che vengono da dentro di noi (i nostri fantasmi), e mostri che vengono da fuori di noi (persone in carne e ossa che non la smetteranno di perseguitarci per il solo fatto che siamo cercando di dire la nostra cosa); credo anche, però, che il modo di dire e le virgolette e qualsiasi altro sostitutivo delle virgolette e dei modi di dire, segnalino il terrore per quel mostro che scopriamo ogni volta che cerchiamo di costruire un discorso e che si chiama Arbitrarietà – o se vogliamo: Follia.
Tutto tra virgolette e per modo di dire misteriosamente si giustifica, si fa giusto (Non ci credete? Ecco qua un esempio: (Oggi è il “2007”. Mi sento un “marziano”. Mi “sbalzo” in piedi. Fuori fa freddo ma c’è “il sole”. Il cielo è “rosso”. Mi “scompagno” verso la cucina…); da quei quattro segnetti messi in fila alla destra e alla sinistra di una parola, insomma, sembra proprio che esalino gli spifferi gelidi dell’abisso di ogni senso.
Poscritto: Un commento di Alessandra Lisini tratto ancora dal post A cena (e a colazione, se possibile) con Eva:
Certo, l’uso degil asterischi è nato come sostituto delle virgolette.
Ma mi pare anche vero che:
Gli asterischi vengano usati come indicatori di errata corrige: a volte, nello scritto-parlato del web (o parlato-scritto?: la chat) precedono e seguono la parola che sostituisce, correggendola esplicitamente, un’altra da poco digitata, [es. Ciao caga.opssss *raga* :))))) ] e supplendo quindi a posteriori alla poca pianificazione del discorso parlato-scritto.
A volte, come in parte già detto sopra da Giorgia, indichino un uso più marcato rispetto a quella delle virgolette, significando lo slancio extratestuale della parola indicata.
[es. *sorriso*
Come a dire: non scrivo sorriso e basta, questo è un sorriso, o il mio sorriso, o un sorriso per te, per la tua battuta, .]
In questa medesima direzione, mi pare poi che la coppia di asterischi sfoci in un altro gesto, quello che mima le virgolette con le dita a rampino; per quanto questa mimica sia di origine anglosassione, ormai si sta diffondendo anche in altre aree linguistiche (e paralinguistiche).
Quando Marco Candida cita alla lettera, utilizza il carattere corsivo.
‘Quasiasi cosa ci stia lì dentro’ è il significato che assegna al carattere “…” (con tutte le varianti spurie annesse). A questo carattere Candida riconosce uno statuto speciale in funzione del particolare potere esercitato dalla virgolettatura.
Il potere è l’espressione di una sorta di principio di autorità (dato dalla consapevolezza del dubbio interpretativo e/o dell’improprietà di linguaggio) e può essere rintracciato in altri ambiti del discorso.
Tale potere è una maschera, dietro la quale si cela la paura, anzi il terrore di non aver niente da dire.
Onde per cui si arriva a comprendere cosa è da intendersi per discorso virgolettato: ‘Qualsiasi cosa ci stia lì dentro, non vuol dire niente’.
Per far ciò, Candida non ha impiegato un rigo in un commento. Ha ampiamente argomentato la convinzione che ‘siano le cose a dire il modo e che siano le cose e le parole a rendersi evidenti’. Io lo trovo erotico, come modo di fare parole.
se io fossi una parola, lo troverei deprimente.
siamo tante, e vi diamo il potere di dire tutto quello che volete dire. l’invenzione grafica significa soltanto questo: vorrei dire una cosa ma non trovo la parola giusta, perciò leggete tra le righe, o tra le virgolette, o tra gli asterischi. interpretate. scrivete voi, in un certo senso.
una di noi soffre, in quel momento.
e poi ci tocca pure consolarla.
Ciao kristian, non lo so se si tratta di potere o principio di autorità… Io, nell’uso delle virgolette, ci vedo solo una gran paura di tirar fuori quel che si ha dentro e di assumersene le responsabilità – non ci vedo nemmeno pigrizia, ci vedo solo paura :) Ciao word, non so… Perché scrivere per scrivere “scrivete voi”? :))
è la stessa cosa che penso io (o “io”, in quanto parola).
carino questo pezzo
Commento in ritardo, e per giunta con la convinzione di aver capito solo in parte il tuo scritto, Marco.
Quando mi sembra di aver capito, ecco che il discorso prende un’altra strada.
Per cui dico delle cose un po’ così.
[Una volta aperte le virgolette (…o gli asterischi, o le apostrofi, o le doppie barrette…) si spalanca davanti a chi legge un territorio senza regole dove sembra proprio che tutto valga]
Dipende. Il tra virgolette può contenere il richiamo al principio di autorità, all’ipse dixit, dunque anche all’ovvio. Ma non si può escludere a priori la lettura da mondo rovesciato (la lettura dell’ironia o del sarcasmo).
Le virgolette mettono in evidenza. Dentro le virgolette ci può essere tutto e il contrario di tutto.
[Virgolette come segno di pigrizia] [Virgolette come polvere di un pensiero che forse andrebbe pulito meglio] [Non ci sforziamo di ottenere che siano le cose a dire il modo e che siano le cose e le parole a rendersi evidenti]
Nell’opinione corrente è esattamente il contrario.
Le virgolette come prova di precisione. Prova di puntiglio. Perfino di puntiglio eccessivo.
Le “opinioni correnti” sono disprezzate dagli intellettuali (dagli “intellettuali”), ma ci sono, sono lì, se ne fregano degli intellettuali (degli “intellettuali”).
D’altra parte, oltre alla pigrizia di chi non ha voglia di *applicarsi* (e perciò si *applica* alle virgolette), c’è il [limite], c’è l’impotenza del linguaggio.
Che rappresenta un problema, ma anche un dato interessante, non necessariamente in negativo.
Una lingua onnipotente (“onnipotente”) – sempre perfettamente sovrapponibile a quello che chiamiamo “reale”, o comunque a ciò che stiamo trattando – taglierebbe fuori un bel po’ di roba (di “discorsi”), senz’altro anche gran parte della letteratura. Probabilmente taglierebbe fuori anche i “mostri” (i “mostri” di Marco Candida).
[Virgolette come “abisso di senso”]
Cos’è un “abisso di senso”? Forse un ossimoro?
Al solito. Impotenza [limite] della lingua.
Tentativo di uscire dall’impotenza [dal limite] con una contraddizione.
“Io, nell’uso delle virgolette, ci vedo solo una gran paura di tirar fuori quel che si ha dentro e di assumersene le responsabilità – non ci vedo nemmeno pigrizia, ci vedo solo paura…”
Marco, pensiamo per un attimo all’affermazione contraria.
Una scrittura senza virgolette è una scrittura senza paure?
In letteratura (prosa) una scrittura senza virgolette potrebbe essere (per es.) un monologo, o un brano descrittivo.
Ma un monologo non è necessariamente privo di remore nel tirar fuori il rospo.
E una descrizione potrebbe tralasciare un sacco di cose, essere piena di omertà.
Le virgolette dei dialoghi presuppongono naturalmente i dialoghi, dunque una scrittura con una trama, uno sviluppo. Potrebbe essere fiction, ma non è detto.
Le virgolette delle citazioni fanno pensare a una scrittura saggistica, a una scrittura con finalità diverse da quelle letterarie (che aspira a una “verità” diversa da quella letteraria).
Insomma, forse si sta dando troppo peso, troppa *responsabilità* alle virgolette.
Ecco, finalmente ci siamo.
Ciao Emma. Il pezzo si riferisce ad un solo uso delle virgolette: quello che permette di intendere una cosa e anche una qualche altra cosa che però è sospesa in una sorta di limbo del significato. Se scrivo: Oggi è una “bella” giornata, chissà mai che cosa intendo con quel “bella”. Che è brutta? Che è bella, ma non proprio del tutto? E allora se non è bella, ma proprio del tutto, com’è? Come si può definire una giornata “bella, ma non proprio del tutto”? Esiste una parola? (In questo senso, ho poi scritto in un commento – che non mi pare il caso di metterlo però sullo stesso piano del contenuto del pezzo – che interviene della pigrizia, e soprattutto della paura). Quanto all’abisso di senso… diciamo che il pezzo gioca con la possibilità di reggersi su una specie di “cattiva scrittura” (come la frase iniziale del territorio senza regole) in forza dell’uso delle virgolette. E’ un po’ la logica del pezzo. E “abisso di senso” (che, non prendiamoci in giro, è un’espressione che si capisce benissimo e non mi sembra per niente ossimorica) può rientrare in questa “licenza”.
Oh, come vedi, continuo a usare con il massimo candore le virgolette, perché, come ho cercato di fare nel pezzo, non sono contro le virgolette, non è che dico “vi esorto a non usare le virgolette” o che “le virgolette sono il virus del pensiero”… Certo, forse sono più a sfavore che a favore delle virgolette, specialmente quando bisogna mettersi giù e meditarle per bene le parole.
Non sono d’accordo quando scrivi:
Una lingua onnipotente (“onnipotente”) – sempre perfettamente sovrapponibile a quello che chiamiamo “reale”, o comunque a ciò che stiamo trattando – taglierebbe fuori un bel po’ di roba (di “discorsi”), senz’altro anche gran parte della letteratura. Probabilmente taglierebbe fuori anche i “mostri” (i “mostri” di Marco Candida).
Una lingua onnipotente, no, ma una lingua pulita il più possibile, sì. Non una lingua che rappresenti l’esperanto per noi tutti – poi, chi se ne importa di una lingua così?; ma una lingua pulita il più possibile, sì. Non mi importa proprio niente che la lingua si sovrapponga al reale; ma se scrivi questo, e sia, scrivilo, ma se mi chiedi cosa penso di quel che hai scritto, allora ti risponderei che penso dovresti pulire meglio il tuo pensiero.
Spero si capisca… Sono in un internetpoint (un euro e cinquanta ogni mezz’ora) e c’è rumore.
Quando scrivi:
Marco, pensiamo per un attimo all’affermazione contraria.
Sì, be’, se la mettiamo su questo piano, allora si mette su un piano di “verità”; ma a me non interessa poi così tanto. Penso, invece, che l’onestà sia quel che un testo può dare – la sua pulizia, il suo liberarsi di idoli che ormai sono falsi nel dire la sua cosa. Ecco cosa si può fare più che “dire cose inaudite” o costruire chissà quali modi elaborati per dire le cose (lo “stile”)…
“…se mi chiedi cosa penso di quel che hai scritto, allora ti risponderei che penso dovresti pulire meglio il tuo pensiero…”
Può darsi che io debba “pulire” meglio il mio pensiero, Marco, ma tu sei sicuro di dirmelo in modo “pulito”? :-)
“e così finiamo per rifugiarci in un modo di dire le cose o di renderle evidenti senza sforzarci di ottenere che siano le cose a dire il modo e che siano le cose e le parole a rendersi evidenti”.
le cose e le parole sullo stesso piano collegate da una congiunzione coordinativa? la ragione sottile non sopraffatta da pigrizia lo ammette?
Monica, sì, le cose ‘e’ le parole non si possono proprio mettere sullo stesso piano (almeno non ‘tutte le cose’ e ‘tutte le parole’).
Emma, mi sembra che assegni alla parola “pulito” lo stesso valore che ha la parola “verità”. Io assegno valore diverso a queste parole diverse.
No Marco, “pulito” lo riferisco a questioni di lingua e di pensiero, non a questioni di verità. Come fai tu, credo.
“Pulito” non mi piace, ma il punto è che non mi sembra nemmeno *preciso*.
È a metà tra una valutazione di tipo morale e una di tipo igienico.
E comunque tu non spieghi cosa intendi per “pulito”. Ci giri attorno, ma non spieghi.
Se “pulito” ha a che fare con *preciso*, non sei abbastanza “pulito”. Il tuo pensiero non è abbastanza “pulito”.
Accusa speculare a quella che mi rivolgi, come vedi.
Emma, non so. “Accusa speculare”, “si può sostenere il contrario”. Guarda, io non sto qui a rivedere una qualche verità di quel che penso e scrivo. So che quel che si dice è sempre ribaltabile (e non credo che si risolva la faccenda non prendendo posizione oppure cercando di costruire testi che sono costruiti intorno al compromesso (e che quindi cercano di prendere un po’ tutte le posizioni), e che si limitano – che ne so?; biologicamente? sociologicamente? – a riportare tutte le descrizioni possibili di un fenomeno), e penso (al momento: sono convinto) che una verità non ci sia – oppure che ci sono tante verità, tutte.
Allora, e qui vengo alla pulizia, mi sforzo di dire le cose senza lanciare nessun segnale che cerchi di portarti dalla mia parte… Questo credo si possa fare. Non mi sono messo a dire “Senti a me, dammi retta, butta a mare le virgolette e sforzati di fare un pensiero tuo perché questa è la via della vera, verace, fantastica vita”. Adesso che ho scritto la frase automaticamente mi viene da dire: “Ma chi l’ha detto che fare dei pensieri in autonomia sia poi la via?” e poi anche: “Bah, ma che noia, queste cose ce le diceva il prof…”.
Se un testo contenesse la verità non si potrebbe ribattere.
Tutti i testi si possono ribattere.
Nessun testo contiene la verità.
“vengo alla pulizia, mi sforzo di dire le cose senza lanciare nessun segnale che cerchi di portarti dalla mia parte”.
Che significa “senza lanciare nessun segnale”?
Che cerchi di portarmi dalla tua parte con strategie “nascoste”?
Che non vuoi portarmi dalla tua parte?
Che non te ne frega niente di portarmi dalla tua parte?
Mi sembra che la tua definizione di “pulizia”, nel caso specifico, sia di un’ambiguità insostenibile.
Non vedo proprio perché – in una discussione, posto che abbia delle idee – uno non dovrebbe cercare di portare l’interlocutore sulle proprie posizioni (eventualmente anche su una posizione scettica come quella che tu sostieni, sia pure con toni dogmatici).
Mi parrebbe una questione di “pulizia” mettere in conto un “compito” di questo tipo.
Diverso il caso di un testo letterario, dove l’intenzione pragmatica viene magari molto dopo.
Che significa “senza lanciare nessun segnale”?
Significa senza dire “questa è la verità, per dindirindina”; oppure significa senza dire “comprami!”; oppure significa senza dire “votami!”; eccetera.
Che cerchi di portarmi dalla tua parte con strategie “nascoste”?
E’ proprio l’impostazione, Emma, che è sbagliata. Non c’è nessuna “mia parte”. C’è la parte del testo. Io sono una cosa; il testo è un’altra cosa. Il testo dice cose… che io sottoscrivo, è chiaro, ma il testo è una cosa e io un’altra cosa. Diciamo che sono uno che quando legge il testo è d’accordo con quel che c’è scritto… Cerco di fare testi, e con questi essere d’accordo. Ti sembra una roba tanto rivoluzionaria, mm?
Che non vuoi portarmi dalla tua parte?
Sì, lo voglio, e poi giochiamo a nascondino e mosca cieca.
Che non te ne frega niente di portarmi dalla tua parte?
Non dalla mia parte… Così la metti su un piano di potere. Dalla parte del testo e di quel che il testo dice. Ma ti è tanto difficile dire: “Quel che hai scritto è sensato?” senza pensare che io “sia sensato”? In fondo la storia della letteratura non è piena di pazzi ubriaconi che hanno scritto pagine bellissime? (Io non sono un ubriacone; pazzo, nemmeno, non ufficialmente almeno)
(eventualmente anche su una posizione scettica come quella che tu sostieni, sia pure con toni dogmatici).
Mostrami dove sono i toni dogmatici, santo cielo…
I tuoi toni stanno sconfinando nel trolling, tra l’altro.
Diverso il caso di un testo letterario, dove l’intenzione pragmatica viene magari molto dopo.
Ah, ecco: l’hai detto. (Senza spiegarti, ma questo fa lo stesso). Se adesso ti senti meglio, va bene.
Emma, al secondo punto ho scritto “l’impostazione è sbagliata”; con questo intendo “l’interpretazione che dai”… Non voleva essere niente di assolutizzante…
“Se un testo contenesse la verità non si potrebbe ribattere.
Tutti i testi si possono ribattere.
Nessun testo contiene la verità.”
Ci rinuncio, va’.
Ecco, meno male, anche perché prendere una logica ferrea da un internetpoint mi sembra ancora più assurdo di un ragionamento assurdo o venuto fuori come è venuto fuori. Noto solo che del pezzo hai solo evidenziato le cose che (a tuo parere) non funzionano (ma non perché non funzionano ma perché, a tuo parere, sono, mio dio!, imprecise…).
E ancora come (a tuo parere) stoccata finale copi e incolli una cosa che ho scritto dopo un lungo intervento (che si vede bene che è scritto di fretta), e me li rimproveri.
“Pretendere”
Nelle e-mail, nei commenti ai blog e negli sms mi capita spesso di usare le virgolette, probabilmente per pigrizia o per impossibilità di precisare un significato (perchè la comunicazione è troppo veloce perchè ci sia il tempo di precisare cosa si intende). In altri ambiti, invece, le virgolette servono a mettere in evidenza un termine (in una trattazione filosofica, ad esempio), come dice appunto il vocabolario.
ragazzi quante seghe che vi fate!
Mauro, ecco, bravo, ci mancava solo questo. Adesso abbiamo riprodotto lo schema tipico dei commenti.
Ciao! Io lo trovo un gran pezzo. eli
Da il libro di Umberto Casadei “Il suicidio di Angela B.”:
“E dopo aver ribadito che ci sono altre priorità, mi dice che, per esempio, si sta interrogando sull’esistenza o meno della punteggiatura. Al che, capirai, mi viene un po’ da ridere. Nella vita?, gli faccio. E lui, sorridendo: cos’è una virgola, per esempio, nella vita? Nel parlato, intendi dire? No, no. Proprio nella vita. Ti capita mai di percepirne, nel flusso, i punti, le spaziature, i punti e virgola, gli esclamativi, i sospensivi, le parentesi, gli aperte virgolette… ti è mai capitato di pensare, guardando – chessò, un viso, oppure un panino, oppure un edificio: cazzo è proprio fra virgolette!? Be’, ecco… Tipo, mi fa, guarda qui!, e si mette l’indice davanti al viso. La barba?, faccio. E sganascia. Tu, dice. Io? Tu non ti senti mai, in corsivo? In corsivo, sì! Cos’è, una variante?, gli chiedo. Sì, mi fa. Ma ha un’intensità molto differente, esoterica, concettuale. Ah… Poi ha cominciato a indicarmi palazzi, scooter, vetrine, cappelli, decorazioni natalizie: ci sono un sacco di cose messe fra virgolette!, mi fa. Guardo le scritte sospese sopra la strada: Merry Christmas and Happy New Year. In effetti…, faccio, portando una mano sugli occhi. Ma no, dai!, dice lui. Anche dentro?, gli faccio allora. Be’, cazzo, questo è ovvio, no? Alzo le sopracciglia: insommetta… Minchia! Eh? Insommetta!, hai detto insommetta! Embè? Come embè! Insommetta!, insommetta!, ma non senti che è un corsivo? Hai espresso un sentimento corsivo! Cosa? Ma sì!, un sentimento corsivo! Già diverso dalle cose che sono dei per così dire, fa. I per così dire sono praticamente virgolette. Il livello più elementare. Ho anche una teoria dei corsivi, sai. Sono comunque a questo stesso livello, anche se sono più intensi delle virgolette. Poi, mi indica un vecchio – come si chiama? – motorino bicicletta… È evidente, quello, gli dico: virgolette. Apre le braccia, a ribadire. Insommetta!, ripete, insommetta!, contentissimo, sorridendo e dissentendo: roba che facciamo un incidente. Quindi mi spiega che è la punteggiatura di base a mandarlo fuori di testa. E mentre entriamo nel cortile dell’Ossario, torna a chiedermi se nella vita percepisco le virgole.”
Monica, questo geniale passaggio di Umberto assomiglia più a un simpatico esercizio di creatività simile al commento di Emma (che comincia questo pezzo); il mio invece è un tentativo di analisi critica-razionale sul significato delle virgolette con l’affermazione di una tesi: usare le virgolette significa “spalancare un terreno dove ogni significato può valore”.