Trovarsi in mezzo
di Christian Raimo
Giovedì mattina vado a trovare Marcello in ospedale che si è tagliato le vene. Nel corridoio del reparto psichiatrico non ce n’è uno sopra i trent’anni: anche le facce si assomigliano tutte, uomini e donne, forse per l’indigestione di psicofarmaci a cui sono costretti. Quello che ha fatto il terrorismo negli anni ’70 e la droga negli anni ’80, penso, oggi lo fanno i prezzi degli affitti e i contratti a progetto.
A contemplare la veglia sterile di Marcello ci sono il padre e la madre, come se sottintendessero che neanche il raptus del figlio è stato un atto d’indipendenza. “Gli ho portato un libro”, gli dico. “Meglio che adesso si rilassa”, mi risponde la madre.
All’uscita dall’ospedale telefono alla psicologa di cui mi ha dato il numero Leonardo: rimando il nostro primo appuntamento, ed è la terza volta che rinvio. “Ho la macchina dal meccanico, e non ho i soldi per fare nient’altro. E tutto sommato sono poco centrato in questo periodo”. Lei, una signora, è gentile, mi dice che forse vederla aiuterebbe proprio a centrarmi. Io le rispondo che forse devo precentrarmi. Ci sentiremo.
A pranzo non mangio, bevo due spremute, una in un bar una in un altro. Vado all’Università. Il sole si fa esponenzialmente caldo. Mi sono ricordato che oggi si laurea Gemma, studiavamo insieme anni fa. Lei, dodici anni di Lettere, una tesi, per cui ne ha impiegati sette, sull’autolesionismo nella letteratura italiana del Novecento: i primi tempi fioccavano anche battute. La ritrovo magra magra, e quando esce al sole per le foto, la luce la schiaccia. Ha preso il 110 e lode politico. Dice che vorrebbe andare a studiare per un po’ in America, un master o qualcosa del genere, ma che deve anche rifarsi un impianto costoso ai denti davanti, e non ha i soldi per tutti e due. L’ex-fidanzato non sa se infilarsi o meno nelle foto di famiglia. Poi, lei mi invita alla festa per sabato.
A una cert’ora piango. Dieci minuti, sui nuovi autobus lunghi del comune di Roma. Sono senza biglietto, e mi chiedo, se salissero i controllori, se piangendo attirerei di più la loro attenzione o li respingerei, per pudore o imbarazzo.
Ho un appuntamento alle tre e mezza a Prati con Peppe, gli devo ridare due dvd da un anno, da quando vivevamo insieme. Staccava alle tre da questi turni che fa, dodici ore davanti a un computer ad aggiornare i tamburini dei film e dei teatri per una serie di giornali locali di Lazio, Abruzzo, Molise, Umbria. Quando arriva mi sorride e mi fa una faccia come se stesse per sentirsi male. Poi si sente male, me lo dice. Mi chiede se lo accompagno in un bar. “Ti spari degli orari insostenibili”, dico la cosa più ovvia. Ordino due camomille. Dice: “Mi hanno visto che c’ho delle cose alla tiroide, niente di grave, ma delle cose che mi sbalzano tutti gli umori, il metabolismo, ecco perché sto sempre nervoso, non dormo, mangio disordinato”. “Tutte le persone che conosco sono nervose, non dormono, mangiano disordinato, c’hanno il metabolismo impazzito. Penso sia l’effetto lungo di Chernobyl”, dico, forse per fare una battuta. “Tu quanto dormi?”, mi chiede. “Di media, due ore e mezza a notte”, rispondo, “il che vuol dire alle volte di più, alle volte di meno. Alle volte, mi capita, faccio la lunga, vedo che c’è il sole, è mattina, mi faccio la doccia, e ricomincio la giornata”.
A una cert’ora, più tardi, mangio, due tramezzini, con delle cose verdi, e un supplì. A una cert’ora mia madre mi dice che mi ha preparato la cena, e io le rispondo che non passerò a cenare da loro.
Un mio amico insegna italiano a Schumacher e lo segue in giro per il mondo, ritagliandosi delle mezz’ore di tempo tra una conferenza stampa, una prova su pista, e la vita che fa Schumacher. Una mia amica pensa di essere fidanzata con un ragazzo irlandese anche se lui non si fa sentire da sei mesi, perché, dice, è oberato di lavoro. Un altro mio amico lavora come aiuto-dialoghista in un reality in tv e ogni volta che usciamo mi racconta un sacco di episodi sinceramente divertenti su Brigitte Nielsen. Mia sorella è stata per due anni l’amante di un uomo sposato finché non ha più retto, e un mese dopo che si erano lasciati a lui hanno diagnosticato un cancro, ma loro non sono riusciti a riavvicinarsi (adesso lui sta benino). Un mio amico è stato dodici anni con una ragazza e adesso non si parlano e lui ogni sera (ogni sera, inverno primavera estate autunno) mi telefona, e mi chiede perché, io provo a spiegarglielo, lui mi dà ragione, ma io gli dico anche che dovrebbe chiederlo a lei invece che a me e agli altri amici, ma lui non ce la fa a chiamarla, per orgoglio dice. Un mio amico delle elementari ha la proprietà di incrociarmi minimo una volta al mese, o per strada, o in un pub, e poi di chiamarmi varie volte per ritrovarci: mai trovatici troppo neanche da piccoli. E poi c’è Giampiero, il mio migliore amico, il compagno di banco al liceo, che vive per strada, a via Carelli, tra Cinquina e la Marcigliana.
All’ora di cena vado da lui con il 307, sono l’unico italiano sopra i vent’anni in un autobus stipato di bengalesi, rumeni, polacchi dai denti d’argento, dai vestiti pastello, dalle scarpe fuori moda. Scendo e faccio il pezzo fino alla roulotte a piedi. Un vecchio parallelepipedo Rover, anni ’70 credo, parcheggiato lungo il bordo di un campo non coltivato su cui è due anni che dovrebbero edificare. Giampiero è uscito dal liceo con 60/60, si è laureato in ingegneria, ha lavorato per un anno a Milano alla Procter & Gamble e poi per sei mesi a Roma in un’azienda che si occupava di forniture militari. Ha messo da parte una ventina di milioni, e con dodici si è comprato la roulotte, e vive qui. A un chilometro c’è il parco naturale della Marcigliana, più la ci stanno i buddisti, un paio di fattorie, e il lago artificiale con un circolo sportivo.
Mi fa entrare, mi chiede ironico che se non c’ho niente di meglio da fare che passarlo a trovare, ci mettiamo a parlare di sentimenti. Mentre cucina, mi legge un pezzo, di un saggio o di un romanzo non si capisce, di uno psicologo argentino, che dice: “Non è vero che l’amore è solo irrazionale. Ci sono dei motivi reali per cui ci si ama. Motivi enumerabili, gerarchizzabili. Mettiamo la voce, per esempio”. “La voce, scusa?”. “…La sicurezza con cui l’altra persona imposta i discorsi, discorsi che possono contenere una serie di ciarle senza la minima pretesa di senso, ma che modulate da una certa voce sembrano dar vita a una specie di armonia…”. “Mi sembra tradotto a cavolo”, dico. Lui continua a leggere: “Un altro è il modo in cui l’altra persona cammina o corre anche, oppure sbadiglia o starnutisce: considerata la poca spontaneità di molti dei gesti che facciamo (spesso intesi a esaudire o contraddire determinate aspettative), i gesti involontari è come se ci facessero all’improvviso scoprire come è fatto l’altro in fondo, chi è. Un altro sono le convinzioni dell’altro, e soprattutto le sue intenzioni, e soprattutto i suoi tentativi, sempre maldestri, astigmatici, di volere bene: sproloqui superideologici o antiideologici, gesti troppo timidi o invadenti, sorprese fuori tempo, coup de teatre inutili, ancora più inutili analisi diairetiche, provocazioni involontariamente offensive, dichiarazioni di sincerità mal interpretate, battute in tempi funerei, frasi luttuose in mezzo a una festa, assalti animaleschi…”. Mentre legge apparecchia anche, le verdure a pezzetti e l’insalata che ha preso tra le cose invendute al mercato di Val Melain. Butta lì anche che vorrebbe vendere la roulotte, che alla lunga gli pesa anche questo senso di proprietà, che vorrebbe sul serio vivere per strada. D’estate in Italia è possibile, dice, d’inverno potrebbe andare in qualche paese caldo. “Tipo gli uccelli”, dice qualcuno di noi due. “È la vita che è violenta”, dice l’altro. E mentre ceniamo o giù di lì, mi chiama Marcello dall’ospedale, saranno quasi le undici, è solo e può fare qualche chiamata, mi vuole raccontare dell’altro giorno, mi dice, di quando ha provato a farla finita. Esco dalla roulotte per ascoltarlo. Ho indosso la camicia, ma sono anni che i nervi non mi fanno sentire il freddo. Al telefono Marcello mi ridescrive, come se stesse leggendo pedissequamente un diario che tiene in testa, l’ultimo anno, gli sbagli che ha fatto, gli sbagli terribili, i perché non riesco a fare le cose, i non ce la facevo, i volevo solo finirla, i basta. Poi, come se si trattasse di una radiocronaca di calcio, mi parla di lui che si è messo nella vasca, ha preso la lametta, e si è tagliato i polsi, ma poi. E si ferma. Poi ho chiamato mia sorella e mio fratello. Perché ho pensato tante cose, dice, e tra le tante che ha pensato c’era anche questa. Dio, dice. Ho pregato, mi ha detto tutto lamentoso. Ha pregato e ha detto: Dio, dammi soltanto un motivo per non farlo, e Dio il motivo che gli ha dato era questo: il corpo che stai uccidendo non appartiene a te, ma a Dio appunto. E quindi non doveva preoccuparsi di riuscire, fallire, eccetera, ma soltanto di gestirlo decentemente per tenerlo in vita. Dio gli aveva proprio parlato, diceva, e lui prima di svenire aveva chiamato il fratello e la sorella per l’ambulanza eccetera. “Non mi sono tagliato fino in fondo”, dice, e io gli dico che va bene, che ci credevo. Poi ha attaccato di colpo, perché, ho intuito, passava la ronda degli infermieri.
Parlo fino alle tre con Giampiero, o ancora, deciso già che mi fermo a dormire da lui, per strada, nella roulotte provvisoria che Giampiero venderà, dice, o più probabilmente, regalerà, visto che è già tanto che qualcuno voglia pagare assicurazione più rischio multe per un catorcio del genere.
Non sono mai riuscito a dormire su un oggetto fermo in mezzo a una strada, perché ho bisogno del movimento che mi culli, e poi c’è questo fatto dell’insonnia. Così per altre due ore non chiudo occhio come al solito, con il buio che ricomincia a ridisciogliersi.
Soltanto alla fine, come alle volte mi capita, mi sembra di avere un’intuizione: sento prima l’odore della ruggine della roulotte, e poi, proveniente da tutti gli spifferi, mi concentro sull’odore della strada di mezza campagna. E faccio caso, che è diverso da quando dormi dentro casa dove ogni minuto è uguale all’altro, dolorosamente uguale. Perché invece qui si sentono dei rumori che cambiano, e anche degli odori che cambiano. E a un certo punto – davvero non sono più io che vivo in me – finalmente crollo, e così.
(pubblicato in precedenza sulle pagine romane di “Repubblica”)
complimenti e buon anno nuovo, a Christian Raimo e a tutti gli indiani…i contratti di affitto, ragazzi di trent’anni che sognano mutui trentennali ma che non vorrebbero mai e poi mai generare figli (“Ha figli lei?”. “Si’, due”. “Due?… E’ triste morire senza figli”.), gli anni 2000 fanno cagare ancora più degli anni ’90, solo che negli anni ’90 avevamo vent’anni e c’erano i Nirvana, adesso ne abbiamo più di trenta e ci becchiamo i Nirvana+2 Ore di Contenuti Speciali
GTesen
Chri, mannaggia a te, come diciamo a Roma, mi hai fatto venire i brividi e piangere un po’, ed è soltanto mezzogiorno, e di un giorno di festa, e il ritmo serrato e dolente di questo viaggio di un giorno all’interno di una generazione del mondo occidentale così lievemente ma sensibilmente danneggiata da un tempo che se ne sta andando per i cazzi suoi e non ci aveva avvisato è solo una delle cose critiche che mi vengono in mente e a cui mi aggrappo per dirmi che questa è *soltanto* scrittura, non è la verità.
(Se qualcuno vuole continuare a sostenere che Raimo non è uno scrittore, scriva qualcosa di altrettanto necessario e pulsante, prima di affidare quella stronzata ad un commento, per favore.)
non contento, raimo ha messo il racconto su NI, gli deve essere sembrata una cosa onesta e giusta parlare di una vicenda tragica di un suo amico…
non è la vicenda tragica di un mio amico, mi dispiace dover ancora ribadire questo equivoco. se la tragedia di un mio amico sta lì, questa è la vicenda tragica mia. mi dispiace di urtare le sensibilità ma questa è la verità. il rapporto con il mio amico è un’altra cosa.
Umile, dolente, necessario. Bello.
Ti auguro un felice anno nuovo. A te e a tutti quelli che leggeranno questo testo con attenzione e rispetto.
.. quello che mi chiedo, è, sinceramente, cos’è accaduto tra la fine delle illusioni e l’inizio della crisi..
io, come moltissimi, appartengo alla categoria dei laureati in ritardo, con tesi monumentali.. insomma degli sciocchi, sentimentali che faticano a realizzare i propri desideri e sono continuamente mortificati nelle proprie competenze da ignobili, cinici sfruttatori e una selva di incompetenti che a questi sfruttatori piacciono tanto perché sentono di poterli controllare meglio.. niente di nuovo… il sistema che si è instaurato in questi anni, quello di una precarietà fissa, è talmente distruttivo che non è neanche il caso di perder tempo a profetizzare come andrà a finire: siamo la nuova Bisanzio. Alle nostre porte premono popolazioni forse meno raffinate (mediamente) ma enormemente più vitali e demograficamente esplosive. E’ la fine, l’inizio della fine. A meno di pandemie o altre catastrofi, tra vent’anni ognuno di noi vivrà sotto l’ombra della bandiera cinese: il nuovo Impero. Probabilmente assai più illiberale e violento, e pervasivo di quello statunitense (hai voglia…)
Dunque?
Mi chiedo cosa ci è mancato per collettivizzare questa disperazione.
Non è che siccome c’è stato il sindacalesimo, il ’68, il femminismo, l’ecologismo, noi non si possa più fare niente: le forme storiche, generazionali di protesta non hanno il copyright!
Invece, non sta accadendo nulla.
Ad incendiare le macchine, per esempio a Parigi, c’hanno pensato ancora ‘loro’. E noi? noi che siamo qui da sempre, noi bianchi, noi piccolo-borghesi, noi superistruiti.. che c…o ci stiamo a fare?!
PERCHE’ non riusciamo nemmeno a PARTECIPARE al nostro funerale?
Raimo, le vene non te le sei tagliate tu ma il tuo amico. E’ la “sua” tragedia, non la tua. Tu ti sei limitato ad andarlo a trovare all’ospedale, a prendere appunti, e a scrivere un raccontino, giornalistico e anaffettivo, com’è nel tuo stile. E ti ricordo che questo testo, che oggi riproponi, l’ha pubblicato prima dell’estate la Repubblica. Pochi mesi dopo che è successa quella cosa tragica al tuo amico. Ti sei chiesto se lui aveva voglia, dopo così poco tempo, di vedere la sua storia, solo un po’ alterata, spiaccicata sulla pagina di un giornale? Te lo sei chiesto? Gliel’hai chiesto?
Marco è interessante cio’ che dici, approfondisci.
allora, governi, il mio amico, non sono andato a trovarlo in ospedale, e le volte che ho pensato di tagliarmi le vene, il mio pensiero del suicidio è mio ed è per perversi motivi qualcosa che mi accomuna a questo mio tempo, e quindi spero – senza pudore – a lui.
Sentite questa di Simon Armitage
C’è nessuno qui che si sia preso in giro giusto
per farsi una risata? Nessuno si è aperto i polsi
con una lametta in bagno? Quelli in penombra
là in fondo fate bene attenzione. Quelli davanti,
gli informati, quelli che tra noi lo hanno fatto, su le mani,
facciamo vedere questi centimetri di pelle lacerata
tra l’avambraccio e il pugno. Mettiamola in questo
modo: una bella bevuta, un contorno cremisi
dentro la vasca, un metro di garza, asciugamani bianchi
lavati una dozzina di volta, rimasti sempre rosa. Sfortuna nera.
Di lì in poi la passione per gli orologi, bracciali e polsini.
Una storia plausibile: ti sei ferito in mezzo ai rovi
raccogliendo le more nei boschi. Venite qui, siate onesti
ripetete con me il verso decisivo “Proprio come sangue”
quando quelli da dietro corrono in avanti per dire
come un po’ d’amore vada molto molto molto lontano.
conosco almeno cinque dieci persone miei amici che hanno provato ad ammazzarsi in questo modo negli anni, r., n., s., m., v., m., d…. mi venivano in mente adesso. e la storia che è qui dentro non ha a che fare con il mio amico perché appunto non approfondisco per niente il suo dolore gossipescamente, ma do una risposta che è la mia al non portare fino in fondo la scelta di ammazzarsi. come do una risposta che è la mia al non riuscire a trovare una forma collettiva di rabbia, di reazione, se non la resa anche infantile, idiota, a questo dolore.
no, non l’ho chiesto se questa cosa gli faceva male. ma lo sbaglio non è stato scrivere questo racconto né pubblicarlo. lo sbaglio da parte mia è non essere andato a trovarlo in ospedale, è non aver parlato con lui di questa cosa, ma questa è una debolezza mia, ed è una cosa appunto che sta tra me e il mio amico.
ma perché, Governi ha mica chiesto a Vincenzo Paparelli o ai suoi parenti se poteva usare la SUA (sua di Paparelli) vicenda personale per metterla nel suo (suo di Governi) racconto in “parassiti”? La tragedia era di Paparelli, non di Governi, eppure Governi ha scritto un raccontino giornalistico e anaffettivo. Si è chiesto se Paparelli (o la sua famiglia) ne aveva voglia? Se l’è chiesto? Gliel’ha chiesto?
.. mag, prendo atto che trovi interessante il mio commento – spontaneo – al racconto di Raimo… mi dispiace deluderti, quindi, ma non credo di essere in grado di approfondire.. lo dico onestamente… forse, impiegando alcuni giorni, potrei anche spiegarmi, meglio, ma tante parole alla fine per dire la stessa cosa, e perdipiù su questo mezzo, la Rete… che malsopporta le lungaggini… se però tu, o chiunque altro, vuol dire la sua, magari aiutandomi a capire meglio, a rispondere alla domanda… altrimenti resterà insoluta… poco importa: probabilmente la risposta arriverà comunque e non ci piacerà affatto
Credo che le tue domande, profondamente inquietanti, siano il nodo focale del dramma esistenziale di ognuno di noi, che viviamo in uqesto tempo.
E’ come se, i grandi movimenti sociali, detonatori di pulsioni titaniche, aggregative, epiche, si siano sopiti sotto cumuli di ceneri iaridite dall’individualità sterile se non coltivata e accesa da dimensioni rituali collettive.
Manca il rito del nuovo sogno e manca il mezzo per trasmetterlo.
Poi manca l’idea focale su cui lavorare.
troppo sofisticate le sensibilità per essere incanalate in semplici movimenti.
troppo elementari per essere strutturate in nuove potenti spinte propulsive.
Ciao Marco
sono distratta dai Botti.
Magda
ma vai a cacare, va’, manco ti rispondo, steve.
Eddài, Gove’, sforzati un pochetto, con lo sputo che provi a lanciarmi tenta invece d’incollare una mezza risposta dignitosa, su…
bello
Del resto, tra un bacio e uno sputo, chimicamente, non c’è molta differenza.
che fate a roma di bello? io ci devo venire stasera
Letto d’un fiato, aiutato anche dal testo abbastanza compatto, che apprezzo, perché trovo fastidioso il continuo andare a capo di tanti scrittori nostrani. Ciò che mi viene da pensare, le sensazioni che ho provato – sarà che ho tirato fuori Old Bull Lee in un commento di ieri sera sul pezzo di Busi, sarà che attualmente cincischio proprio con quel periodo – quello che mi evoca, che mi ispira, è un racconto beat. Sì, scrittura beat, puri anni Cinquanta, scrittura perdente; non “personaggi perdenti”, che non vuole dire niente (la letteratura è piena zeppa di perdenti), ma lo stile perdente di un beat che naviga nel mondo ed è sempre sul punto di naufragare eppure non naufraga, almeno nella scrittura: è in bilico, cavalca l’onda di un mare sporco e sabbioso, e vi è immerso fino al collo; la scrittura perdente non è “anaffettiva”, non c’entra, ma chi mai ha stabilito che l’autore deve essere affettivo verso l’ambiente e i personaggi? E’ il distacco apparente, e non l’anaffettività, che fa del beat un viaggiatore, un nomade sempre un po’ triste, anche se roccioso, e gli fa tenere lo sguardo basso, sul marciapiede davanti a sé. Poi le critiche sul diritto di scriverlo, di pubblicarlo, beghe interne diciamo, per me sono gratuite. Dovrebbero essere oggetto di mail private, non di critica.
L’etica letteraria è anche una questione di critica e di cronaca, letterarie. In generale.
Bello questo testo… Raimo sei bravissimo a scrivere. Compliments- Conosco qualcuno come le persone che descrivi. O forse mi sembra solo perché le tue descrizioni sono molto vere.
Qui nei commenti ci sono sempre un sacco di polemiche e aggressioni incrociate che chi non è dentro tutte le vicende non capisce… e io mi stufo quasi sempre di leggerli ‘sti commenti. Troppe allusioni, troppe beghe personali, che palle.
Comunque a proposito della polemica “ti sei venduto la tragedia del tuo amico per scrivere un racconto” (critica di Governi mi pare), vorrei dire che, a parte l’autodifesa di Raimo che basta e avanza, una tale critica è comunque sempre irragionevole, anche se umanamente fondata (anche se qualcuno è stato veramente ferito da un racconto o un romanzo – e infatti è di certo successo migliaia di volte), perché alla fine quello che conta sono i risultati nel testo, non i fatti privati che ci sono dietro. Altrimenti su questa scorta dovremmo buttare via mezza letteratura mondiale.
ci sono stati scrittori che deliberatamente si sono ficcati in risse e tragedie e guerre per avere materiale da raccontare. Altri hanno sputtanato le grane con le mamme, le nonne, i padri le zie le sorelle gli amici del cuore i maestri di scuola gli amici dei figli i compagni d’armi eccetera pur di avere qualcosa da raccontare. hanno scaricato donne o si sono fatti scaricare, hano assunto droghe per ecc.. (E ovviamente anche cantanti, poeti, registi, teatranti hanno fatto queste cose… Lui lascia lei, lei è distrutta, poi non contento lui scrive una canzone su di lei dove elenca tutti i suoi difetti. Cosa dovremmo pensare di uno così? Figlio di troia? Può darsi. Ma è Bob Dylan. Tanto per fare un esempio.)
chessò, L’autista di Proust si sarà infastidito a essere ritratto come Albertine. Peccato per lui, ma a noi lettori non ci frega gnente di quella persona reale quanto ci frega di Albertine. Sembrerà brutto, ma succede così. La letteratura è fatta per essere generale, superare le barriere dello spazio e del tempo, mica per dialogare con amici e nemici.
Non ricordo chi citava un altro che non ricordo che aveva detto: “quando uno scrittore nasce in una famiglia, la famiglia è fottuta”.
Spiacente per la famiglia.
A me piace questo testo, Christian, e molto. Riesco da lettrice ad apprezzare un testo anche se l’autore mi ha indisposto in altre situazioni… non voglio aggiungere cose trite e ritrite sulla distinzione tra autore e testo, autobiografie, biografie e personaltà irritanti: pienamente d’accordo col commento di corpodibacco.
Beh, Agostinelli era già morto quando Proust decise di farne una delle matrici di Albertine, comunque sono d’accordo con corpodibacco, di cui mi ha divertito il riferimento a Bob Dylan, che da giovane è stato davvero un grandissimo figliodiputtana: tra l’altro rubò una canzone a un povero collega e la pubblicò a suo nome. Dunque il cantante, lo scrittore, il pittore, in altre parole l’artista secondo la concezione ottocentesca-novecentesca, può essere figliodiputtana? Lo è, e basta, perché parla di cose e personaggi che conosce, e ne ha bisogno per creare storie e tracciare ritratti. Ne ha talmente bisogno che spesso li usa senza scrupoli, e in alcuni casi dobbiamo dire “grazie”, perché senza questa mancanza di scrupoli non avremmo avuto molti grandi libri. Certo, non deve usare il vero nome e il numero di telefono, ma ciò non è avvenuto in questo racconto, no?
L’artista è un ladro in guanti bianchi, da chirurgo. Ma il primo a cui ruba, il primo CHE deruba, è se stesso. E scrivere è darsi in pasto, esattamente come vivere. Si possono formulare più domande che risposte sull’etica artistica, che esiste.
il racconto è bello.
dice.
Ho trovato questo racconto molto molto bello quando l’ho letto sul giornale e ora, rileggendolo. Mi sorprende un pensiero davvero banale: che i commenti che prendono di mira la quantità di verità che ci sarebbe dentro mettendo in discussione la liceità morale di esporla in pubblico in realtà la mira la stanno prendendo su un altro bersaglio, per di più mancandolo, estraneo al fatto letterario. Vale a dire la persona Christian Raimo, e i suoi amici, la sua vita, che col racconto non c’entra più nulla.
(fra parentesi, anche se può sembrare un dettaglio, non trovo “corretto” che tu, Chiristian, l’abbia pubblicato senza dichiarare che era già uscito su Repubblica. La trovo una piccola scorrettezza. Per chi legge non è lo stesso pensare che si tratti di un contributo originale, scritto e pensato per Nazione Indiana, o che si tratti di una ripubblicazione. Il rapporto autore-testo-lettore secondo me vive di una lealtà oggettiva, extratestuale, che induce l’ultimo anello della catena, il più debole, a porsi in un modo anziché in un altro a seconda della messa in prospettiva dell’oggetto letterario che ha fra le mani. Un conto è pensare: “guarda guarda, un nuovo racconto di Raimo, che bello”, e scoprire nei commenti che non è nuovo per niente; un altro invece: “guarda guarda, Raimo non aveva niente di nuovo fra le mani e pubblica una minestra riscaldata spacciandola per nuova”. Certo, tu sei libero di pubblicare come ti pare; io però da lettore sono libero di provare una sensazione sgradevole).
Ezio
ok, ezio, giusto, fatto
Il raccontino (anaffettivo) di Governi su Paparelli è qui:
http://www.pagine70.com/vmnews/wmprint.php?ArtID=586
Comunque non sono d’accordo con Steve: questa non è la tragedia di Paparelli, è a tutti gli effetti la tragedia di Governi. Ma davvero davvero.
Bene.
Mi sento sopraffatta da quello che scrivi, come fosse accaduto sul serio. Ma in realtà poi è accaduto, cazzo. Me ne sbatto della finzione letteraria, questa storia è anche mia, è anche una parte di me! E grazie di averla scritta… soprattutto quel pezzo che mi ritrovo sempre a rileggere, dove scrivi che il “il corpo che stai uccidendo non appartiene a te, ma a Dio appunto. E quindi non doveva preoccuparsi di riuscire, fallire, eccetera, ma soltanto di gestirlo decentemente per tenerlo in vita”.
È questo che cambia tutto.
Mi addolora leggere i commenti infantili di chi si attacca alle storielle (peraltro invadendo la tua vita, quella sì che è tua) di fronte a te che hai il coraggio di scrivere una frase del genere, il corpo non è tuo, ecco io mi sento sopraffatta dalla Verità (suona snob, ma non so dirla altrimenti). A questo serve il corpo, ad amare. Sia si parli di teoremi, sia si parli di masturbazione alla fine i tuoi racconti mi fanno sempre lo stesso effetto: mi scopro ad aver ancora voglia di amare nonostante me. Trovo sinceramente bello che ci sia qualcuno che ha il coraggio di scrivere questa cosa, christianraimo. Questo lo apprezzo davvero tanto.
chissà perché queste vostre generazioni (quante sono, quanti anni avete, chi siete, che volete, cosa vi manca, cosa vorreste vi fosse dato, eccetera) non riescono nemmeno a pronunciare la parola fatidica, la sola che abbia un senso quando si tratta di passare dalla, spesso disperata, doglianza individuale all’analisi, all’organizzazione e infine all’azione collettiva: “politica”.
Tash, io tengo 42 anni e la politica la faccio quotidianamente rompendo in tutte le stanze dei bottoni che trovo.
un muro di gomma.
ma mi scaldo piu’ con questi argomenti, giustizia, politica , stato sociale, istruzione, etica, che con George Clooney.
“la politica la faccio quotidianamente rompendo in tutte le stanze dei bottoni che trovo”.
non so, mag-da.
se posso dire: la politica non si fa verticalmente, come sembri pensare tu, o almeno non solo verticalmente; si fa invece orizzontalmente, cercando consenso e adesione su problemi condivisi, costruendo piattaforme e movimenti, mobilitando il più possibile, eccetera.
insomma, mag-da, la politica, per statuto, non è una cosa individuale e comprende, in certe occasioni, anche opzioni tipo spacchiamo tutto, dico io.
si vabbè ma che c’entra questo con il racconto (notevole) di Raimo?
mi sono espressa male.
Per stanza dei bottoni avrei una doppia visione.
L’una quella canonica dell’amministrazione burocratica della cosa pubblica,
ma la piu’ importante, quella che tu chiama dimensione orizzontale, io la chiamo mentalità corrente.
Ecco, cercare di incidere sulla mentalità corrente di chi ti sta vicino, dei tuoi conoscenti, di chi si contenta pensando di godere qui ed ora di cio’ che il proprio opportunismo premierà, non considerandosi minimamente parte di un progetto piu’ vasto che è l’appartenza all’Umanità.
Fare politica significa chiedere al bidello, al preside all’assessore, al prete, al medico, a tua sorella, perchè mai scendono a compromessi corrompendosi in collusioni quotidiane di ogni sorta, perchè accettano di tollerale la mediocrità del “male comune e mezzo gaudio” finendo poi essi stessi per commetterlo (il male)?
No, fare politica è decisamente come dici tu essere presente con coscienza critica nelle cose che attengono al quotidiano.
Non ci interessano i massimi sistemi se non metabolizzati dai minimi sistemi, perchè se non è cosi, rimangono vuote tautologie, come i minimi sistemi senza idealità sono miopi.
@druido
il discorso sul cosidetto “sbocco politico” nasce da alcuni commenti che sottolineano la condivisione del “disagio” che si legge nel racconto, che, ripeto, è bello.
@mag
ti capisco poco: schmitt a parte, politico è ciò che attiene la polis, vale a dire gli indirizzi e le strategie per ciò che è condiviso o condivisibile, palesabile, discutibile, modificabile, trattabile, legiferabile, eccetera: di conseguenza ogni disagio reso visibile da una “condivisione attiva”, che può anche risolversi in uno spaccare tutto – metti le banlieues francesi -, diventa perciò stesso politico.
ma le generazioni cresciute negli anni Ottanta sembrano averne persa la nozione, del politico: le percepisco come una sommatoria di individui sofferenti & apparentemente dissenzienti che non riescono a comunicarsi vicendevolmente nulla, nemmeno la sofferenza, non riuscendo dunque a condividerla, a riconoscerla come comune, condizione prima per trasformarla in politica.
mi fermo e stop.
si, Tash, deficono di pathos sociale, sono intelligenti artificiali e mancano di sensibilità naturale catalizzata in forme epiche, mitiche.
anche io finisco, scusa Raimo l’O.T.
Fotografia magistrale di una generazione che: non sa uccidersi ( e perchè dovrebbe, poi?), non ha soldi per l’analista, dei massimi sistemi se ne frega e però prende il 110 e lode politico. Ecco, quest’ultima cosa non l’ho capita. Insomma stona.
Cri
ci andiamo domani a vedere i neuro fotoni impazziti…e le sigle dei puffi?