Licola Paradise
di Davide Morganti
Se si attraversa Licola mare si è risucchiati dentro un day after marginale, di borgata cresciuta sulla muffa, che porta nei muri le stimmate di una città scheletrica, consumata dalla deriva. Non a caso un ragazzo, lo chiameremo Renato, mi dice, ridendo, che “Stanno meglio a Bagdad!”. Le giornate lui, una volta uscito dalla scuola di Monterusciello, le passa sul lato opposto di Licola, alle spalle del Depuratore, nella zona denominata Reginelle. “Qua – interviene un suo amico – la sera se non fosse per la luce del tabaccaio non ci sarebbe illuminazione”. A Licola mare mancano segnaletiche, non tutti gli impianti fognari sono terminati, il risanamento delle strade è labile, l’evasione scolastica diffusa.
Mi fermo con l’auto in uno slargo malmesso, intorno palazzi mangiucchiati e ragazzine che entrano ed escono da un portone anodizzato. Di fronte, agonizza un edificio che sembra uscito da un bombardamento. Ha mattonelle blu che sopravvivono sulla facciata, mentre nel basso ventre squarciato ci hanno ficcato dentro di tutto, trasformandolo in una discarica abusiva a pochi metri dal marciapiedi dove vedo una mamma tenere per mano una bambina. E’ l’ex Lido Blu, il cui processo di putrefazione è stato più rapido e meno drammatico di quello del mare. E pensare che negli anni Sessanta e Settanta la lunga striscia di sabbia era diventata un luogo di attrazione. La sua decadenza è iniziata dopo il 1980, con l’occupazione dei terremotati, ed è proseguita con la crisi bradisismica di pochi anni dopo. Oggi a Renato e ai suoi amici, sulla spiaggia, capita talvolta di incontrare carogne di pecore e di cani. “Mio fratello – dice uno con il giubbotto rosso – in estate ha trovato invece un delfino morto”. La spiaggia serve per far soprattutto allenare i cavalli dei maneggi abusivi (alcuni dei quali da pochi giorni abbattuti), nascosti nella splendida macchia mediterranea oggi considerata zona protetta (sic!).
Licola mare ha fatto infezione, come un taglio non curato, per disinteresse dei due comuni nei quali è conficcata, Giugliano e Pozzuoli: è, in fondo, una zona di non appartenenza, e da queste parti pare sia un male.
Mentre mi sposto verso Licola paese, passo davanti al centro “Iside”, un’importante struttura circondata dal verde che ospita sofferenti psichici. Quando raggiungo l’ex s.s. Quater 7, quella alberata dalle prostitute, imbocco a destra. Intendo raggiungere la mensa dei poveri, aperta da quasi due anni. Mi addentro all’interno, ma non la trovo subito. Supero un distributore di benzina, poi la caserma dei carabinieri, poi i binari della Circumflegrea, infine arrivo in un posto che non mi aspetto. Bar di lusso, negozi raffinati, due edifici di gradevole bellezza. Si tratta di Licola borgo, vecchio complesso borbonico ristrutturato, che ha dato vita all’omonimo giornalino locale con il quale intende dare voce a un mondo sotterraneo e sfilacciato di cinquemila e più abitanti. Mi allontano, dopo la piacevole scoperta, in direzione della mensa dei poveri. Viene ad aprirmi una delle responsabili, Rita Tommasino, che mi fa entrare in cucina dove faccio la conoscenza di Arturo Di Gennaro, il cuoco e, come tutti, volontario. Ci accomodiamo con lui nel refettorio vuoto, sono le 10.15 del mattino. E’ amareggiato per quello che è successo. “Poche sere fa hanno rubato carne, scatolame, olio, formaggi dopo aver forzato la finestra”. La situazione è preoccupante, perché la mensa, che vive di beneficenza, sfama ogni giorno un numero superiore alle sue forze: circa 150 persone. Arturo sa bene che a rubare è stato uno dei tanti disperati che frequenta la struttura, ma nelle sue parole non c’è rabbia. Da quel giorno, però, per garantire la regolarità dei pasti lui e i suoi collaboratori sono stati costretti a pagare di tasca propria la vigilanza privata.
Alla mensa arrivano da più parti: dal porto di Napoli, dal dormitorio pubblico, spesso già ubriachi perché per superare la notte all’aperto hanno bisogno di scaldarsi con il vino. Gli autobus provenienti da Mondragone e Castelvolturno scaricano decine di africani, russi, polacchi. Ci sono anche bambini ucraini che, accompagnati da madri spesso sdentate dalle botte, mangiano assieme ai barboni. “A loro a gennaio abbiamo fatto la Befana – dice Arturo – ed è stata veramente una festa”. Ci sono, poi, famiglie di Licola mare che chiedono la spesa, ma buona parte si rivolge a una chiesa di Varcaturo.
Arturo è costretto a congelare pomodori e pane, ma il problema più grave è che il frigo si è rotto e viene utilizzato per raccogliere malinconicamente pacchi di riso. Fuori, in giardino, c’è un prefabbricato che avrebbe bisogno di una ristrutturazione per sistemarci dentro una ventina di docce da utilizzare per restituire maggiore dignità ai suoi ospiti. Ma non c’è nessuno che si faccia avanti. Rientrando, Arturo mi dice che alcuni barboni italiani non sono voluti più andare a mensa da quando ci sono i neri e che alcune famiglie della zona, andando a messa la domenica nella chiesa adiacente, tengono i figli lontani dalla mensa per timore di infezioni. Nella mensa dove, invece, cercano ospitalità anche pensionati che non arrivano nemmeno a metà mese con quello che percepiscono. Se ne stanno umili e dimessi, senza mai urlare, avvelenati dalla vergogna, come Umberto D., il doloroso protagonista del film di De Sica. Attorno a loro c’è, invece, chi pretende di mangiare ancora, chi sporca, chi assume toni sprezzanti verso i volontari, chi litiga per un pezzo di pane. Ma ci sono anche molti musulmani che, durante il ramadan, “portano il cibo a casa e lo mangiano la sera. Alcuni, per rispetto al Corano, pur avendo fame, rifiutano piatti che hanno sugo di maiale”.
Arturo mi saluta, ha fretta, deve andare a comprare il pane per i suoi ospiti. A me non resta altro che ringraziare e andare via.
Licola prende il nome dall’antico lago dei follicoli, forma dialettale che sta per indicare le folaghe, un immenso acquitrino poi prosciugato che ha lasciato il posto a camping, ristoranti, piscine, discoteche, pub etnici, drive in, parchi acquatici, villette, viottoli contorti. E’ un mondo variegato, poco conosciuto, che tiene il naso fuori grazie all’impianto idrovoro, tracciato sulle innumerevoli indicazioni stradali che ci sono a ogni passo di via, che ha però trasformato le distanze in una malattia mortale; non c’è una vera comunità, ognuno rimane chiuso dove si trova. Licola è un luogo occupato, ma non abitato, dove chi viene da Napoli ci torna a dormire la sera e chi è di Pozzuoli ci rimane dentro senza mai uscirne. Basta risalire la strada che porta all’incrocio per Monterusciello per rendersi conto di questa sovrapposizione irreale. Nessuno è in strada, perché marciapiedi non ce ne sono, i cancelli dei parchi sono chiusi e decine di palazzine sono appena visibili dalla carreggiata.
Proprio come se un acquitrino le avesse sommerse in silenzio.
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Pubblicato su La Repubblica – Napoli, il 12 dicembre 2005
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Una volta l’ho fatta a piedi, da lì fino a Baia. I cani abbaiavano ovunque. Il mio accompagnatore mi disse, sconsolato: “Sono i cani della camorra, quelli dei combattimenti all’ultimo sangue”.
Non mi bastarono gli splendidi scavi archeologici per togliermelo dalla mente.
Ottimo pezzo.
Quei paesaggi per me sono lunari. Non ho mai capito perchè ma superata Pozzuoli mi sento come espulso dalla terra e non si capisce se si è aspirati verso il cielo- in un paradiso che la natura intorno suggerisce del tempo che fu – o verso l’inferno che il cemento e le urla in lontananza ti rammentano. Comunque Morganti è tra gli scrittori italiani che preferisco
effeffe
tra cuma e licola lo sfacelo… e mai che la sibilla ci mettesse una buona PAROLA. complimenti a morganti
Mai avevo letto di Licola in questo modo, mai avevo pensato che si potesse descrivere in questo modo quella terra che amo e che, ogni volta che la vedo abbandonata, mi fa rabbia e mi da’ pianto. Complimenti davvero signor Morganti, anche stavolta ho pianto, ma le mie lacrime oggi sono di rispetto e di compassione, sono lacrime di gioia e di dolore, ma per dortuna… non di rassegnazione. Se solo si potesse ridare a quella terra, a Licola, a Cuma, al Lago Patria la vera dignità che la storia le ha donato, ognuno di noi sarebbe ricco dentro. Complimenti signor Morgante… davvero.