Racconto di cani estivi in due frasi, una lunga e una breve
di Giorgio Vasta
Ho trascorso la giornata gocciolando lacrimoni di sudore dalla fronte sulle bozze di un libro, sempre alla scrivania, mentre i miei vicini litigavano, arrivava tutto attraverso la finestra aperta, lei gli diceva che lui non la rispetta, che non sa chi è, e io pensavo ma perché quando le coppie litigano c’è sempre questo orgoglio di dire tu non mi conosci, tu non sai chi sono io davvero, voglio dire, magari è anche vero, magari ha proprio ragione lei, ma, viene da dire, e allora?, che importanza ha?, è così necessario sapere con precisione chi è l’altra persona?, non sei mica il suo biografo, un notaio, un commissario di polizia, il suo medico curante, non devi assumerla per un posto delicatissimo, cos’è questa mania certificativa?, state semplicemente insieme, ovvero dentro una cosa che non è fondata sulla conoscenza (credo neanche sulla coscienza), quindi, via, tutta questa soddisfazione disperata nel dire tu non mi conosci è fuori luogo, lui dovrebbe risponderti sì, è vero, non ti conosco, appunto, posso darti un bacio?, ma soprattutto, dico io, quando litigate, tu Camilla (la mia vicina si chiama così, non è un cane ma ha due cani) e tu suo fidanzato a tratti convivente che non so come ti chiami, chiudete almeno la finestra, considerato che i due cani, un maschio e una femmina, sentono i volumi delle voci che si alterano, si eccitano e si mettono ad abbaiare e allora voi parlate ancora più forte sugli abbai e i cani pensano sia un gioco o una sfida e abbaiano ancora ancora più forte e voi non capite più niente, vi fronteggiate (vedo le vostre ombre) urlando di tutto, anche cose cattive e molto cattive e molto molto molto cattive, i cani sono al delirio, saltano da uno all’altra di voi, si grattano furibondi con le zampe posteriori a mulinello sulla cima della testa e contro gli occhi (colpi di rabbia, ferocissimi, ostinati, il nervosismo è una pulce psicotica che ci cammina contropelo), poi si saltano addosso, si latrano addosso contro il pelo sulle facce, si prendono a morsi il dorso e le zampe, reciprocamente e le proprie stesse zampe, e le scuotono, le zampe che si azzannano, come fanno quando tengono in bocca le pezze rosse e se ne vanno fieri lungo tutto il marciapiedi fino a casa, la preda di stoffa di sangue che penzola agonizzante dalla bocca (finalmente regrediti – questi mobili di pelo, queste suppellettili civili cui si sono ridotti gli animali domestici – al loro nucleo ferino, al midollo bestiale, inerte idiota orgoglioso), e voi nonostante i cani pazzi tutti escoriati e sparsi di cose rosse continuate a gridare e tu le vuoi dimostrare che in realtà la conosci, che la conosci bene, che sai com’è fatta, e allora tiri fuori il coltellaccio dell’aneddotica, il catalogo, ma lei dice no, no, non avevi capito niente neanche quella volta, e sono le tre del pomeriggio, 39 gradi percepiti, agosto, vicino Novara c’è uno che è diventato pazzo e si messo a sparare in mutande alla gente chiuso dentro casa, ha ammazzato delle persone, in mutande, e non sanno come tirarlo fuori, intanto voi siete alla partita doppia degli orgasmi, come diceva Gaber, precisazioni e rivendicazioni, un sacco di pronomi, un caos di pronomi stremati e tremanti, tu tu tu, io io io, occupato e pigolio (pigol-io), e i cani si sono fermati dagli azzannamenti e adesso vi fissano e respirano forte con tutto il muso il naso la gola e il torace, vibrano come robottini rotti, scaduti, hanno il pelo sudato e strinato come una copertaccia di trent’anni, su, smettetela o non li recuperate più, vivranno sempre nel caos psicosomatico, nel delirium tremens, ecco, calma, bravo, falla sedere, parlate più piano, bene, ma senti!, in sottofondo c’era Juliette Greco, stavate ascoltando un cd di Juliette Greco, ma cosa c’entra Juliette Greco con il vostro litigio?, è vero che la Greco cantava gli amori e i dolori degli amanti di Parigi, rive gauche, tanta tanta sofferenza con il trucco scuro intorno agli occhi, però lei era transalpina, voi due siete solo torinesi, mannò, lo sapevo, lei si è incollerita di nuovo, ha fatto un gesto aspro con la mano, una cosa secca con l’avambraccio, sembra che abbia lasciato la scia immobile nell’aria come nelle fotografie con un tempo di esposizione lungo, si è rialzata, ai cani si sono ridrizzate le orecchie, il pelo è in pieno irsutismo, ti rialzi anche tu e ricominciate, io io io, tu tu tu, i cani che abbaiano, di Juliette Greco non si sente più niente, tu non mi conosci, non mi rispetti, no sei tu che non capisci me, che non mi sai dare niente, la crisi dei cani adesso accelera, da cento a un milione in dieci secondi, uno dei due sembra che pianga, si azzuffano furiosi, famelici, viene fuori anche il sangue, puntano alla gola, poi il maschio sale sopra la femmina e la monta, sembra una macchina, le torce la collottola con la bocca, se la mangia, le divora il collo e la nuca nell’estasi frenetica (mi viene in mente un’immagine che credo sia da qualche parte in Henry Miller ma non me lo ricordo – com’è bello non ricordarsi la letteratura – un personaggio che torna nella cameretta in affitto che condivide con un amico e l’amico è a letto con una ragazza, il personaggio li guarda mentre fanno l’amore, guarda la schiena di lui che sale e che scende, pensa a una macchina tipografica, il movimento meccanico delle leve e dei rulli, il sesso come copiatura, come ripetizione ennesima dello stesso gesto, la riproduzione come riproduzione anastatica, come campionatura, il ritorno dell’identico che fa la vita indistruttibile), voi siete di spalle e non vi accorgete di niente, eppure sbattono contro i mobili, per poco non rovesciano la bottiglia di plastica con l’acqua, ecco l’hanno rovesciata, era senza tappo e l’acqua si sta spargendo sul pavimento e la femmina montata fotocopiata riprodotta intanto lecca l’acqua piano piano, con un ritmo tutto suo, scollegato da tutto, la si sente quasi ciangottare e fare quel bel rumore pieno e liquido e morbido e tenerissimo mentre sopra di lei c’è tutta questa mania, tutto questo laborioso uggiolare, questi occhi rossi rossi e i pronomi spappolati e sottilissima carsica nel fragore la Greco che non si sente e canta solo per sé e io intravedo queste ombre del litigio, del legame e della monta, fino a quando sale un po’ di vento, arriva fino a questo terzo piano, sbatte due volte le imposte, la terza volta le commessure dei due battenti combaciano e la finestra si chiude, io continuo a leggere la frase “nella logica delle gilde, i killer players godono di tutti i diritti, imperversano per le varie fasi del gioco avendo facoltà di sparare quando vogliono e a chi vogliono e sono considerati immortali”.
Spero che facciano tutti pace, che i cani facciano i cuccioli.
Splendido.
La frase lunga è il tormento della favola.
La frase breve è l’intento morale, la messa a dimora del seme della bontà.
Però (la frase breve) mi ricorda anche la chiusa di un vecchio tema, di quelli con titolo solenne e obbligo di lieto fine.
Un tema tipo “Il più bel giorno della mia vita”.
Dopo molto faticoso applicarsi, stremati, per concludere non resta che ripetere ossequiosamente il mandato: “Sì, quello è stato il giorno più bello della mia vita”.
Grazie Emma.
I temi alle elementari li chiudevo sempre con un ritorno. “Stanchi ma felici” era la costante, l’unica condizione ammessa per connotare il ritorno. Altro che Ulisse a Itaca. E comunque credo di continuare a fare in quel modo, variazioni leggermente più adulte sul tema del ritorno.
Stanco ma felice.
“Stanca ma felice” me lo ricordo bene.
Soprattutto nel tema del lunedì.
ma non era confusa e felice?
e va dove ti porta il cuore?
Magda, giuro.
Pensavo solo ai temi delle elementari :-)
Il lunedì si scriveva delle meraviglie vissute la domenica a giocare con gli altri bambini nel giardino della parrocchia. Dopo essere andati a messa, ovviamente.
“Stanca ma felice” era il finale classico del tema.
Ero convinta di scrivere una cosa abbastanza “vera”.
“Spero che facciano tutti pace, che i cani facciano i cuccioli” potrebbe essere in effetti anche una preghiera da *bravi* bambini.
bello il resoconto di giorgio.
stanco ma felice io lo ero sul serio.
chi è l’autore/trice del disegno?
Ciao Tash.
Non so esattamente di chi sia il disegno. L’ho preso qui:
http://www.strangeandbeautiful.com/
Credo sia qualcosa che ha a che fare con John Lurie.
g.
Aha,
faccio un piccolo disturbo (come dice katerina) e ti saluto,g.
Ciao,
silviamou
divertente, e molto ben scritto, imo.
Non hai mica messo questo eh :-)
http://www.strangeandbeautiful.com/art/my_name_is_skinny.jpg
Caro Andrea, per inserire quella immagine devo scriverci un pezzo apposta e al momento mi manca lo spunto.
Cara Silvia,
ciao a te.
Caro Giorgio,
questa sui cani spero che sia o diventerà, con anche il pezzo dell’altra volta, una serie. Sono tutti e due bellissimi.
E com’è bello non ricordarsi la letteratura, sì.
Grazie, ciao,
Comunque Giorgio il pezzo è bello. Mi viene in mente Mozzi quando dice che in lui convivono il lettore dell’avventura (quello che si perde nel mondo-a-disposizione) e il lettore della procedura (quello che lavora per Sironi, capisce come funziona la macchina che mette un mondo-a-disposizione, la aggiusta quando occorre). Insomma, sono ignorante e non capisco com’è la tua macchina, so solo che funziona. Ma in fondo va bene così.
L’essenza della canaglia… molto molto bello. Complimenti, Giorgio.
Meglio: l’essenza della canaglia nella canicola…
Grande Giorgio, mi sento proprio di dire che è ora di finirla con chi vuole conoscere l’altro. Che illusione pensare poi di farcela, anche chiedendo e pretendendo…ah ah
grandiosa metafora!
Uomini che si acCANIscono al pari di animali e cani che guardano oltre, come a volte dovrebbero agire gli umani…
grazie
cristina
Mi piace molto questa furia, la scrittura che la dice, che ne è forma, le parole sono cani, ha un che di cosmologico questa visione, forse potrebbe uscire dai Veda.
rama è sterilizzata-
Se c’è uno che sicuramente è stanco e felice, è il cane.
Ciao Giorgio!
Belle le due frasi. Ma volevo raccontarti il piccolo cortocircuito che mi ha causato la lettura della frase lunga.
Per mie questioni biografiche e culturali (scusa il parolone, ma penso che anche il senso della casa sia un dato culturale), leggendo, all’inizio pensavo che Camilla vivesse in una casa a sé, separata dal palazzo o dalla casa in cui si trovava la stanza con la tua scrivania, e che i cani fossero fuori in una sorta di giardino. Non sono di Torino, ho vissuto gran parte della mia vita in un paese dove, almeno fino ai primi anni ’80, i più vivevano in case separate, non in appartamenti, e spesso le case hanno un più o meno grande giardino attorno dove stanno i cani, soprattutto se sono più di uno (già l’idea di tenere un cane in appartamento mi angoscia – per il cane, non per me – figuriamoci due!). In più quando io e mio fratello eravamo piccoli il condominio e il collegio erano i due luoghi in cui minacciavano di mandarci i nostri genitori quando facevamo troppo casino (il che avveniva spesso). Ma forse non dovrei sempre ricondurre tutto al mio senso di casa e pensare che i torinesi, invece, sono gente d’appartamento, come lo divento anche io quando sto a Torino.
Comunque l’idea iniziale (due case separate, di cui quella di Camilla con un po’ di cortile o giardino dove ci stanno i cani, che sentono il tutto perché c’è la finestra aperta) ci sta bene all’inizio e in fondo funziona anche quando dici così: “quando litigate, tu Camilla (la mia vicina si chiama così, non è un cane ma ha due cani) e tu suo fidanzato a tratti convivente che non so come ti chiami, chiudete almeno la finestra, considerato che i due cani, un maschio e una femmina, sentono i volumi delle voci che si alterano, si eccitano e si mettono ad abbaiare e allora voi parlate ancora più forte sugli abbai”. Io infatti mi ero immaginata che tu consigliavi a lei e al suo fidanzato di chiudere la finestra quando litigano non per non disturbare te o per non far sentire fuori quello che dicono, ma semplicemente per non fare agitare i cani.
Poi però salta fuori che i cani sbattono contro i mobili, rovesciano la bottiglia d’acqua e la femmina si beve l’acqua sparsa sul pavimento, poi ancora che il vento arriva “fino a questo terzo piano”. Mentre leggevo che i cani sbattono contro i mobili mi dicevo, ma che tipi questi che tengono dei mobili in cortile! e allora ho pensato che i cani potevano essere anche in uno di quei terrazzi d’appartamento, che ogni tanto si vedono in giro, in cui la gente tiene credenze, tavoli e sedie e a volte pure la cuccia del cane. Il che poteva essere confermato dal fatto che la finestre da cui arrivavano le voci si trovava al terzo piano, però si chiama pavimento il pavimento del terrazzo? Boh!?
Beh insomma, non capisco niente al primo colpo, lo ammetto.
Spero di rileggerti presto (anche non sotto forma di frase, anche se chissà che effetto mi farebbe un racconto o un romanzo se già mi faccio dei viaggi con una frase!) e con un po’ più di lucidità.
Ciao e bravo!