IN-SEGNARE 2
prosegue la con-versazione con Tina Nastasi
Ant
Mi sembra che uno dei fuochi del problema arda – anche nei commenti alla prima razione – attorno all’evocazione di Socrate. La capacità di aiutare il richiedente a mettere in luce il suo pensiero, perfino malgré lui, ha un fascino straordinario. Non v’è dubbio, mi sembra, che anche il Socrate che ci viene restituito dalla penna di Platone non esiti ad “indirizzare” opportunamente l’interlocutore per una strada o per l’altra. Quanto pesa quest’operazione sull’insegnante e quanta è la manovrabilità delle menti dei concreti preadolescenti romani?
Ti
Bisogna che ci mettiamo d’accordo in che senso intendere la metafora delle “strade”. Nell’uomo convivono, piuttosto poco pacificamente, due tipi di tensione che danno vita a due mondi: uno personale, riservato, a cui gli altri non hanno diritto di partecipare, in breve quello privato; l’altro che riguarda l’intera collettività, in altre parole quello pubblico. La tensione privata si esprime secondo ragioni singolari che possono essere comprese, che non devono necessariamente essere condivise, ma che vanno massimamente rispettate: ogni decisione di intervento sulla vita privata di un essere umano deve essere presa con la più profonda cautela e onestà intellettuale e l’intervento stesso essere condotto con la più elegante delicatezza affettiva.
La tensione pubblica, al contrario, deve esprimersi nel valutare secondo giustizia le molteplici ragioni degli altri, con cui, pure, ci è vitale condividere la nostra esistenza. Per giustizia intendo quel valore etico-sociale in base al quale si riconoscono e si rispettano i diritti altrui come si vuole che siano riconosciuti e rispettati i propri.
Il primo tipo di tensione è alla base della creatività, che è capacità fra le più alte della mente umana e risorsa fra le più preziose dell’intera umanità, come la storia ci insegna. L’unico modo per insegnarla è quello di lasciare agire liberamente una persona in un ambiente adeguato alla sua età e al suo grado di sviluppo. Direzionare la sua capacità creativa altrimenti (secondo altre menti) rischia di trasformarla nella sua negazione. Ritengo inoltre che l”indirizzare” un allievo nella costruzione della propria sfera privata da parte di un insegnante, investito dell’autorità, seppure via via sempre più socialmente indebolita, di maestro di vita e di pensiero, sia operazione gravida di responsabilità pesanti (responsabilità intellettuali, etico-sociali e civili): il pericolo di plagiare le menti e tentare clonazioni da regime, sia pure con tecniche sofisticate e apparentemente indolori, incombe dietro l’angolo.
Il secondo tipo di tensione, quella pubblica, trova invece molteplici ostacoli a esprimersi liberamente ed è proprio quella che va educata a scuola fino all’età in cui una società conviene che una persona sia pronta a svolgere funzioni pubbliche (età in cui siamo chiamati alla responsabilità intellettuale, oltre che etico-sociale e civile, delle nostre azioni, senza secondo appello).
E va educata nella direzione dell’ampliamento dei punti di vista concettuali e culturali dai quali affrontare qualunque cosa ci si metta avanti, ci venga proposta, ossia un qualsivoglia problema, sia esso un quesito con cui si chiede di trovare, mediante un procedimento di calcolo, uno o più dati sconosciuti, partendo dai dati noti contenuti nell’enunciato del quesito stesso, oppure semplicemente una questione di cui si cerca la soluzione, o, ancora, un caso complicato, difficile da risolvere, finanche una situazione preoccupante.
In questo caso l’ “indirizzare” l’allievo è preciso dovere dell’insegnante e la direzione è duplice: da un lato indicare i molteplici percorsi dell’uomo nella conoscenza di sé (radice della consapevolezza) e dell’altro da sé (radice del rispetto), dall’altro lato usare, e mettere gli allievi nelle condizioni di poter usare, gli strumenti che hanno permesso quei percorsi.
Una conversazione ben tenuta è il luogo comunicativo più efficace per allenare futuri uomini pubblici. Scrive Clementina Gily a proposito della cultura salottiera del ‘700:
“[…]. Conversando, nel farsi gruppo di pochi che poi si riapre al discorso generale di tutti, si poteva parlare di se stessi, confessare passioni, tessere trame; e poi, tornando al discorso più ampio, scambiare informazioni di politica e cultura.[…]. Oltre alla complicazione delle parole, alle frasi ed alle modalità da evitare/adoperare, emerge la centralità del ruolo dei silenzi. Essi non sono solo partecipazione di tipo speciale, sono anche attesa del turno, dell’opportunità data a ciascuno di prender parte, elemento essenziale perché quel parlare possa essere definito conversazione e non conferenza, ad esempio. Silenzi, parole, regole, turni, sono tutti binari in cui si attua la comprensione, che assicurano il decorso corretto della comunicazione. Essi mostrano nell’importanza della turnazione il motivo stesso per cui nel Settecento essa diventò tanto importante generando un vero e proprio genere letterario nella manualistica sul tema: la forma della conversazione ha il fondamento essenziale nell’eguaglianza dei diritti dei parlanti, tanto che essa si interrompe quando viene meno.” (http://www.giornalewolf.it/comunicazione/conversgily1.htm)
Ricordo poco di Socrate e Platone. So che se ne studiassi oggi il pensiero e le opere, userei strumenti intellettuali più raffinati che mi permetterebbero di averne una comprensione più ampia e profonda. Mai completa. Perché per comprendere il pensiero e le opere di una persona si deve, come si dice dalle mie parti, averci mangiato insieme sette salme (unità di misura dell’area dei terreni agricoli) di sale.
Ma quel dialogare, quell’interrogarsi e rispondersi a vicenda con vivo interesse, gentilezza e cautela, quello sì, me lo ricordo, mi divertiva e mi piaceva: lo faceva Socrate attraverso la penna di Platone, lo faceva il mio insegnante di filosofia al liceo, mostrando rispetto e stima nei confronti dei suoi allievi, qualunque fosse il benamato livello di conoscenze da loro acquisito/dimostrato (grande busillis attorno al quale si arrovellano i migliori ingegni!).
Socrate e Platone mi hanno offerto uno strumento culturale per affrontare il mio impegno professionale, il mio insegnante di filosofia mi ha mostrato come usarlo.
Un’ultima considerazione per esprimerti un’idea a cui sono affezionata. Ritengo che la propensione verso il gioco tipica dell’essere umano sia all’origine della sua elevatissima capacità, assai significativa secondo una logica evolutiva, di adattamento all’ambiente. Intendo la parola “gioco” nel suo significato più ampio, quello cioè di operazione assai complessa e seria che tuttavia diverte, ossia ci fa cambiare direzione, ci volge altrove.
Ritengo anche che pensare sia uno tra i giochi più affascinanti che l’essere umano ha a sua disposizione: tale attività permette di manipolare oggetti diminuendo al minimo la sensibilità delle operazioni alla forza di gravità e al fattore tempo.
Ritengo infine che dialogare significhi giocare in due al gioco del pensare: tu mi offri un oggetto mentale creato personalmente da te e io rido dentro di me, di quella risata pura e non convenzionale di cui sono sonoramente capaci solo i bambini piccoli, quando scoprono un oggetto nuovo e sconosciuto. Poi lo manipolo con il mio personale modo di pensare e lo offro a mia volta a te. Magari, giocando, viene fuori qualcosa che è ragionevole pubblicare. E, chissà, un dialogo pubblico può dar luogo a una conversazione e a qualcosa che è ancora più ragionevole pubblicare.
E rispondo alla tua seconda domanda: le menti dei bambini sono manovrabili come quelle degli adulti, in qualunque luogo della Terra essi vivano. Ma è estremamente pericoloso per la comunità perseguire questa logica di potere.
“…Mi sembra che uno dei fuochi del problema arda – anche nei commenti alla prima razione – attorno all’evocazione di Socrate…”
Questa modalità così *socratica* di trattare i commenti mi induce senz’altro a tacere su questa e su eventuali altre puntate.
scusa, Emma, non ho capito proprio. Era solo un modo per dire che nei commenti al post la questione della modalità socratica era – sanamente, a mio avviso – molto dibattuta, e quindi poteva valer la pena di tornarci. Sinceramente. No?
Antonio
Mah. Io ci ho visto un certo distacco dai commenti, quasi un voler evitare il confronto diretto.
Ho capito male? Meglio così.
1. Non so se ho capito.
La creatività si applica solo alla “tensione privata”?
Ma se è così (se ho capito), non si tratta di una creatività ridotta ai minimi termini, una creatività da hobby, da “tempo libero”, da individuo chiuso nella propria singolarità?
2. “L’unico modo per insegnarla [la creatività] è quello di lasciare agire liberamente una persona in un ambiente adeguato alla sua età e al suo grado di sviluppo.”
Molto bello e lineare.
Sempre che la persona sia libera per definizione, mai condizionata, se non dalla sua propria “natura” (ovviamente “buona”).
Ma se, alla lettera, lasciamo i “concreti preadolescenti romani” liberi di agire, cosa succede?…
In effetti qui non c’è Socrate, che è – a ben vedere – e soprattutto ai livelli più alti e profondi, difficilmente attaccabile.
Qui c’è Rousseau.
Il vero “sgomitolamento” – in effetti – è quello di Rousseau, non quello di Socrate.
3. “…il pericolo di plagiare le menti e tentare clonazioni da regime, sia pure con tecniche sofisticate e apparentemente indolori, incombe dietro l’angolo.”
“le menti dei bambini sono manovrabili come quelle degli adulti, in qualunque luogo della Terra essi vivano. Ma è estremamente pericoloso per la comunità perseguire questa logica di potere.”
Certo, i rischi ci sono, ma siamo sicuri che il nostro “non intervento” non lasci libero campo all’ “intervento” di qualcun altro, diverso da una “natura buona” per definizione?
Il concetto del plagio, come dice Emma, è assai opinabile. Il punto è: si tratta di mettere in crisi il già pensato che in realtà è impensato. Si tratta di de.pensarlo, anzitutto. Socraticamente, nulla di più nulla di meno. Ma non basta. Bisogna educare non solo al metodo dialettico, ma anche all’autocoscienza di essere parte in causa di una comunità dialogante. Di essere soggetto attivo: ciò a cui la scuola, solitamente, non insegna. E quando arrivi tu (parlo per implicazione diretta nella faccenda) e sparigli le carte trovi resistenze, non solo da parte dei colleghi (va da sé), ma anche da parte di qualche ragazzo: perché nell’impero della passività (dove si combina disciplina e spettacolo) si è incapaci di libertà (guarda caso ho scritto una piccola riflessione poetica sul mio blog proprio a proposito di questo, a partire da un episodio scolastico). E allora, bisogna andare avanti, e stimolare la creatività, pubblica e privata. E’ così che si resiste, tenendo a forza la faccia contro il vento.
Da quello che ho capito io, la creatività appartiene alla sfera privata nel senso che è un momento intimo, di solitudine, di altro dal mondo. Avete mai visto un bambino che ti guarda in faccia ma non ti vede, che tu parli e lui non ti sente e mentre tu gli dici: “Marco, ma mi stai ascoltando?”, lui se ne esce con una soluzione assolutamente nuova e brillante? Ecco, quello era un momento intimo, un momento in cui se ne stava creativamente per i fatti suoi.
Anche i silenzi, io credo, siano necessari.
Agire sulla sfera privata di ogni piccolo individuo è un’operazione che va fatta con cura e cautela, perchè, inutile nascondersi dietro un dito: la scuola incide eccome sulle sfere private. E anche su quelle pubbliche. Ma mentre nelle sfere private c’è la speranza che non incida sempre negativamente, in quelle pubbliche è facile che si corra il rischio di ammaestrare piccole scimmie di regime. Il solo garante è, a mio avviso, il senso etico di ogni operatore.
Bellissimo il passaggio sul gioco del pensare. Davvero bello.