IN – SEGNARE 1
Pubblico un dialogo tra Tina Nastasi e me sul tema dell’insegnamento. Tina insegna italiano e storia in una scuola media di Roma, con fatica e passione. Ha anche notevoli competenze di filosofia delle scienze. Il dialogo comincia idealmente da una risposta di Tina ai miei interventi di qualche settimana fa sulla scienza e i suoi limiti.
Ti
Sono d’accordo con te quando prendi le distanze da chi sopravvaluta (via maestra verso il fanatismo) la scienza, come tutto il resto aggiungerei. Il punto è come conoscerla tutti e bene e come imparare a collocarla nella varietà dei saperi. E questo mi sembra il bello da discutere.
Ant
Cara Tina, tu che hai costruito le tue conoscenze attraverso saperi intermedi (tra discipline) ad un buon livello, che adesso insegni in una scuola media di una città come Roma e che condividi una presa di distanze dalla scienza, come risolvi il problema di insegnare cose sensate senza indebite e sbagliate semplificazioni e a collocare tutto quanto suona scientifico nella varietà dei saperi. Anche da quel che sentono dire a questa età i ragazzetti imposteranno la vita.
Ti
Insegnare significa originariamente imprimere un segno nella mente di una persona. Io scelgo i segni, ossia gli oggetti culturali da comunicare alle persone con cui lavoro (ragazzetti/e di undici/dodici anni). Cerco poi un insieme di pretesti e contesti, altrimenti dette esperienze guidate, in cui occorrono quegli oggetti e li butto sul tavolo di lavoro. Una volta concluso il percorso attraverso tali esperienze, ne richiamo una alla loro memoria e innesco una tempesta di interrogativi: ogni domanda che sorge spontanea in questa fase è benvenuta.
A quali domande risponde l’esperienza su cui voglio farli riflettere? In gruppo, lo verifichiamo cercando indizi nella struttura di tale esperienza e utilizzando punti di vista e strumenti propri delle discipline che sono chiamata a insegnare. Per indicare ogni elemento dell’esperienza scegliamo con cura le parole affinché i nomi conseguano rigorosamente da quello che è sottoposto alla nostra analisi. Alla fine avremo un certo numero di domande con risposta e un certo numero di domande senza risposta. E’ possibile allora che queste ultime vengano soddisfatte utilizzando punti di vista e strumenti propri di altre discipline: in questo caso mostro una possibile direzione del percorso. Alcune domande rimangono tuttavia senza risposta. Lo rimarranno per sempre? Questa domanda spesso rimane aperta.
L’idea che mi guida è che una modalità socratica di lavoro solletichi la curiosità senza costringere le menti a percorsi stabiliti una volta per tutte e che alleni le persone a un dialogo continuo e inesauribile con tutto quello che le circonda. Mi offre la possibilità di partire dalle domande che poniamo all’esperienza e di mostrare così il processo che conduce alla costruzione del sapere nel mondo degli esseri umani, prima di ogni distinzione disciplinare. La storia diventa il luogo in cui raccontare l’evoluzione del sapere dalle sue forme embrionali a quelle via via più differenziate e specializzate. In questa mappa storica la scienza assume di per sé il ruolo di un ramo robusto nell’economia di un grande albero dalle radici profonde.
Quanto all’insegnare cose sensate senza indebite e sbagliate semplificazioni, qui poni un bel problema. In linea di principio, ogni oggetto culturale per quanto complesso può essere comunicato operando una scelta dei livelli di descrizione. Come operare opportunamente la scelta? E’ necessario avere piena consapevolezza del valore e del peso di tutti gli elementi che compongono l’oggetto culturale che si vuole comunicare in veste semplificata perché altrimenti si rischia di eliminare i suoi elementi costitutivi e fondanti. Ti propongo un esempio molto semplice: se mostro la foto di una giraffa a un bambino occidentale di otto mesi, espongo la sua esperienza a un oggetto complesso e sconosciuto nel suo insieme: non l’ha mai visto prima. E’ chiaro che difficilmente potrò comunicargli quel centinaio di elementi (scientifici) che fanno di una giraffa una giraffa. Cosa posso fare allora? Posso sicuramente guidare il suo sguardo lungo le linee principali che disegnano il profilo dell’oggetto giraffa e proporgliene in seguito un disegno. Posso poi indicare al bambino parti della giraffa che sono note al bambino perché gli appartengono: gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie. Poi posso attirare la sua attenzione sull’elemento senza il quale una giraffa non è una giraffa: il collo lungo lungo. Il bambino non potrà ancora per molto tempo accedere alle pieghe concettuali della teoria darwiniana, tuttavia osserverà una differenza, percepirà un punto mancante nel continuum della sua vita mentale e, come ogni essere umano, s’incuriosirà e interrogherà (sempre che, beninteso, abbia una vita fisica ed emotivo-affettiva sufficientemente buona). Da qui partirà la sua ricerca, fondamento di ogni sapere umano, e, per approssimazioni successive, la sua personale costruzione conoscitiva, unica e imprevedibile.
Detto questo, se chiedessi a te, che hai costruito le tue conoscenze attraverso i saperi della fisica, della filosofia, della storia e della cultura letteraria e artistica, di spiegare a me, persona di media cultura scientifica generale, la teoria della relatività, ebbene avrei buone probabilità di veder soddisfatta la mia domanda, foss’anche partendo dall’immagine di Einstein che da bambino immaginava di cavalcare la luce.
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1) Un bambino di otto mesi?
2) Anche se fosse (un bambino di otto mesi), siamo sicuri che con la “sua” ricerca – e “per approssimazioni successive, la sua personale costruzione conoscitiva, unica e imprevedibile” – arriverà a Darwin, invece che a Lamarck?
“L’idea che mi guida è che una modalità socratica di lavoro solletichi la curiosità senza costringere le menti a percorsi stabiliti una volta per tutte e che alleni le persone a un dialogo continuo e inesauribile con tutto quello che le circonda.”
Sottoscrivo pienamente.
(Per notizie sul sottoscritto, vedansi commenti nel post “Laicità zero”.)
Peccato, per il resto, che il discorso di Nastasi sia un po’ appesantito da questo antistile pedagogese e burocratizzante, tipo “relazione didattica”.
La modalità socratica è suggestiva, ma – posto che tra insegnamento e apprendimento ci debba essere un nesso – non è applicabile a tutti gli insegnamenti.
Esistono “percorsi” che “costringono le menti”, inevitabilmente.
Non so fino a che punto è giusto quello che dice lei, Emma, riguardo alle costrizioni mentali.
Io ritengo, da insegnante, che a tutte le discipline, se così le vogliamo chiamare, anzi diciamo meglio, a tutti saperi, sia applicabile il metodo socratico. Forse è l’unico applicabile affinchè si ottenga un apprendimento che “imprima un segno”, specialmente quando si parla campi d’apprendimento particolari.
La difficoltà sta nel fatto che l’insegnante deve impegnarsi in maniera diversa, ricercare percorsi alternativi, completamente opposti a quelli attraverso i quali ha imparato a suo tempo.
Non è il discente a non apprezzare il metodo diverso, lo troverebbe al contrario molto, ma molto utile.
Sono contenta del fatto che si parli di quest’argomento, mi interessa molto, in particolar modo è utile il confronto.
Grazie.
@Laura
1. Non so cosa intendi per “costrizioni mentali”.
Io ho usato “percorsi che costringono le menti” (e il concetto l’ho preso dal post) perché a mio parere è insufficiente la teoria dello “sgomitolamento” (basta “sgomitolare” i nostri pensieri / la nostra mente e sappiamo già tutto).
Il “Da qui partirà la sua ricerca, fondamento di ogni sapere umano, e, per approssimazioni successive, la sua personale costruzione conoscitiva, unica e imprevedibile” non mi sembra del tutto estraneo alla teoria dello sgomitolamento.
2. Credo che un buon insegnante sia anche un insegnante provvisto di strumenti professionali diversificati (metodologie e didattiche socratiche, certo, ma anche metodologie e didattiche di altro tipo, non escluse quelle banalmente comportamentistiche). L’abilità e il talento di un insegnante credo stiano (anche) nell’usare questi strumenti in maniera il più possibile adeguata ed efficace, tenendo conto dell’età, del tipo di apprendimento che si vuole conseguire, ecc.
3. Se mi si dimostra che “tutti” gli alunni di una certa classe (per di più, nel caso del post, preadolescenti, quasi bambini) – esclusivamente per via socratica, e in tempi non infiniti – riescono a giungere a “scoperte” tipo quella della teoria evoluzionistica darwiniana, be’, giuro di starmene zitta.
4. Suppongo tuttavia che con “socratico” tu intenda anche un “clima”, delle relazioni, uno stile “democratico”. Va bene, può starci. Ma una lezione ex cathedra fatta come si deve non diminuisce necessariamente questo livello di democrazia.
5. Noto che mi dai del lei. Io invece ti do del tu perché in rete usa così. Nella vita reale certamente mi comporterei diversamente.
Il fatto è che dare del lei in questo contesto è rimarcare una distanza, direi anche in maniera deliberatamente offensiva.
Tu certamente non avevi intenzioni di questo tipo, ma *questo* è il risultato.
Potrei, socraticamente, chiederti cosa significa per te democrazia, poi cosa significa rete, poi domandarti come mai tutti quanti qua sopra si danno del tu, ecc. ecc.
Siccome il tempo a mia disposizione sta finendo, ti dico – non socraticamente – che per le relazioni interpersonali internettiane sono state inventate delle regolette specifiche. Basta digitare “netiquette” su Google.
Cara Emma,
prima di tutto ti chiedo scusa se il mio “lei” ha potuto in qualche modo sembrare qualcosa che assolutamente non è. Molto più semplicemente è che sono abituata a dare del lei a persone verso le quali mi rivolgo per la prima volta, anzi, a dirla tutta, mi sembrava un modo garbato, educato per rivolgerti la parola, niente di diverso. Anche perchè, se mi permetti, è la prima volta che mi capita di suscitare questo tipo di reazione, in quanto non navigo da stamattina, e normalmente al limite mi è stato chiesto: ci diamo del tu?
Premesso questo, e credimi, davvero non intendevo prendere improbabili distanze, dicevo, premesso questo, quando riprendo le parole “costrizioni mentali”, evidentemente cambiandole un pò da quelle che sono nel testo, intendevo questo, cerco di spiegarmi.
Come ti dicevo, sono un’insegnante, il mio lavoro cerco di farlo al meglio come tutti i miei colleghi, o almeno mi va di pensare che essi lo facciano al meglio.
La differenza tra me (e alcuni come me), e gli altri (e alcuni come loro) sta non nella materia insegnata, ma nel metodo.
Noi tutti, parlo di chi ha più di trent’anni, abbiamo imparato con metodi tradizionali: spiegazioni, ripetizioni, interrogazioni, esami ripetuti alle varie commissioni tipo pappagalli. Risultato finale: finito lo stess dell’interrogazione o dell’esame, via il libro da qualche parte e chi s’è visto s’è visto. Quell’apprendimento nella maggior parte dei casi non è stato un apprendimento vero, ma solo una ripetizione di nozioni che poi vanno nel dimenticatoio.
Pensa che al liceo cominciai ad amare la fisica quando qualcuno mi spiegò che quando lavi a terra se apri il balcone asciuga prima: quello è un fenomeno fisico. Il mio professore invece sapeva parlare solo di leggi, di numeri: non aveva saputo suscitare l’interesse.
Insegnare è davvero imprimere un segno, per questo quando io imprimo il mio segno nelle vite dei ragazzi (perchè mi pagagno per questo), vorrei che il mio segno fosse un segno sì indelebile, ma nello stesso tempo vorrei che fosse invisibile, tanto invisibile da non lasciare traccia.
Sembra un pò contorto, ma quello che voglio dire è che l’insegnante debba contribuire ad aprire le menti, quelle menti che normalmente io trovo chiuse col lucchetto. In una parola la scuola dovrebbe rendere autonomi nel pensiero, stimolando la creatività, l’inventiva. E questo non può farlo una nozione imparata a memoria, imparata sì, ma non a memoria. Nemmeno se parliamo di matematica o di scienze dove all’apparenza i percorsi sono più obbligati rispetto alle materie letterarie.
Io trovo bellissimi i racconti di Domenico Starnone, quelli che parlano della scuola, della sua esperienza di professore di liceo, dei risultati ottenuti e delle delusioni.
Quanto al punto 4, non mi riferivo al clima democratico, quello è scontato, e il rispetto dei ragazzi lo ottieni solo se loro ritengono che sei degno di rispetto. Un clima diverso incute solo timore e, non voglio proprio pensarci ad una scuola che incuta timore: il salutar timore della forza.
Questo volevo dire, Emma, volevo solo portare la mia esperienza e cioè che non esistono materie che si debbano studiare coi metodi tradizionali e altre no.
La scuola è un’istituzione delicata, fra le più delicate, per questo mi accaloro e cerco di capire, di studiare il modo di “farli studiare”.
E per favore non startene zitta, per nessun motivo; io scrivo di tanto in tanto in blog come questo proprio per confrontarmi, per ascoltare quel che dicono gli altri. Anche quello che dici tu.
Sperando di aver chiarito l’equivoco del lei, ti auguro buona serata, e alla prossima chiacchierata.
@Laura
1. Questione del lei e del tu.
Non mi sono offesa. Ho usato l’argomento anche come pretesto per spiegare il mio punto di vista, dunque per sostenere che non è possibile usare *sempre* metodi socratici. Se non per altro, per banali ragioni di economia (di tempo, di energie…).
Ancora: tu dici che usare il lei è un approccio “garbato”.
Io sono di diverso avviso.
È un po’ come per la questione dei metodi.
Non c’è un solo metodo, non c’è un solo contesto.
Il lei, che è d’obbligo nelle convenzioni della vita reale, in rete è fuori luogo. Può essere legittimamente frainteso e dunque risultare – paradossalmente – “sgarbato”.
2. Tu dici: “quando io imprimo un segno nella vita dei ragazzi…”
Imprimere “un segno nella vita” è molto. A volte la cosa è buona, a volte meno buona.
A volte è richiesto, a volte no.
Senza dubbio una scuola è anche un luogo di vita, di relazioni importanti (direi, sempre più, tra coetanei), di modelli. Ma i modelli più significativi secondo me sono quelli culturali, la cosa importante è ciò che tu definisci l’“aprire le menti”.
Io non ho nulla contro una scuola che vuole “rendere autonomi nel pensiero, stimolando la creatività, l’inventiva”. Mi interessa però il come. Il come tradurre questi nobili fini in azioni concrete. Non mi interessa un insegnante colto pieno di idealità, mi interessa un insegnante colto pieno di idealità con un bagaglio professionale specifico (teorie dell’apprendimento, conoscenza approfondita delle discipline che insegna, storia di queste discipline, didattica…), un bagaglio professionale capace comunque di tradursi in un’interazione proficua con gli studenti.
3. Torno al “tema”, in senso più stretto.
L’insegnamento delle scienze non è semplice divulgazione scientifica: su questo mi pare il post non abbia dubbi (anche se si potrebbe precisare che una divulgazione ben fatta non è stupido nozionismo).
L’insegnamento delle scienze tocca nodi cognitivi ed epistemologici complessi, presenta problemi specifici di vario tipo, senz’altro diversi da quelli propri delle discipline umanistiche (con l’esclusione, forse, in parte, della filosofia).
Mi soffermo (in modo banale) sul rapporto tra scienza e senso comune.
Torno alle giraffe e al loro collo lungo.
Il collo che secondo il post dovrebbe essere mostrato al bambino dagli otto mesi in poi.
Nella speranza – presumo – che a furia di vedere il collo lungo un bel giorno scatti l’associazione con le acacie. Acacie alte-collo lungo. Ecco l’adattamento all’ambiente, ecco l’evoluzione della specie! Siamo a Lamarck, più o meno.
Peccato che Darwin vada oltre, che il concetto di selezione naturale non salti fuori dalla semplice combinazione acacie alte-collo lungo…
È qui che il senso comune non basta più. È qui che cade, secondo me, il legame non reciso con la teoria dello sgomitolamento e con le teorie del “ripetere giova”.
La frattura epistemologica darwiniana non si ricompone con la semplice ripetizione dell’osservare e dell’associare, né con lo sbrogliare la matassa dei propri saperi/non saperi (il socratico).
Ci vuole altro. Sicuramente ci vuole l’intervento intelligente e puntuale dell’insegnante, sicuramente è necessario un certo sforzo di “costrizione” della mente.
Cara Emma,
sulla questione tu/lei, come la chiami tu, ho già detto, inutile ripetersi, aggiungo solo che ognuno modella le netiquettes quotidiane al proprio modo di essere; ne consegue che continuerò a dar del lei secondo i miei schemi comportamentali, pur ringraziandoti per le spiegazioni e scusandomi ancora per averlo utilizzato con te che, a quanto dici, non lo ritieni una forma garbata, almeno non in internet.
Andiamo avanti.
Sull’imprimere un segno. Non sono io, Laura, a voler impremere il segno. E’ il concetto stesso di insegnamento che significa “imprimere” un segno.
Buono o negativo questo è il punto. Ma che si imprima un segno non è nemmeno più da discutere.
E’ un DIRITTO del bambino che qualcuno imprima segni (comportamentali, affettivi, sociali, e di apprendimento), altro che non “sempre è richiesto”, il bambino ha diritto all’educazione e allo sviluppo armonico della sua personalità.
Certamente la scuola non è l’unica agenzia formativa deputata a questo, lo sono anche la famiglia (questa più di tutte le altre), il contesto culturale, addirittura la parrochhia o la scuola calcio, tanto per citare delle situazioni tipo, ma la scuola ha un compito istituzionalizzato a questo scopo.
Torniamo al metodo. Che ripetere serva è indiscusso, non sto mettendo in discussione il concetto di Stimolo/Risposta, o che imparare a memoria una poesia sia sbagliato. Sto solo dicendo che l’insegnante non deve dare le risposte, ma deve indicare la via affinchè il ragazzo le risposte se le vada a cercare da solo perchè gli interessa saperle.
Insomma, Emma, io queste cose non me le sto inventando al momento, sono teorie accreditate nel tempo, che qualunque insegnante, con un pò di buona volontà, ha il dovere di applicare nella vita scolastica di tutti i giorni.
E’il metodo del problem solving, che forse più di tutto è applicabileproprio nelle scienze, e non solo.
Il punto di tutta la discussione sta nel fatto che l’insegnante non dovrebbe mai dimenticare di essere stato alunno.
Mi farebbe piacere che anche altri prendesero parte a questa discussione, che non è personale tra me e Emma (a parte il tu/lei). Giusto perchè volersi confrontare non vuol dire non avere le idee chiare, ma arricchirsi di quello che inevitabilmente non si sa.
Buona giornata.
Laura mi piacerebbe prebdere parte alla discussione ma non ho voglia di concentrarmi…..anche perchè poi chissà quali teorie riuscirei a partorire…
fa anche rima.
cmq sono per il metodo olistico-maieutico.
io con mia figlia faccio cosi….solo che su tutto poi lei esercita la capacità critica che le ho insegnato io…anche quando deve contraddirmi…bell’affare che ho fatto.
@Laura
1. Ribadisco e poi chiudo. La questione del tu e del lei non l’ho tirata fuori perché mi sono offesa. È stata un pretesto per farti notare che i contesti contano, i metodi pure.
E che i contesti possono essere diversi, i metodi pure.
Se poi “ognuno modella le netiquettes quotidiane al proprio modo di essere”, che dire?
Io lo ritengo sbagliato, ma poi ognuno fa come gli pare – evviva.
Dunque dai pure del lei o del tu in base al tuo “modo di essere”.
Non so bene cosa sia un “modo di essere”, tuttavia riconosco che l’espressione “modo di essere” ha in sé qualcosa di profondo e di ineffabile. Figuriamoci se mi metto a litigare con uno che come motivazione del proprio comportamento mi dice che quello è il suo “modo di essere”.
2. La frase “il bambino ha diritto all’educazione e allo sviluppo armonico della sua personalità” mi dice tutto e non mi dice niente.
Io non ho mai messo in discussione principi così *grandi*.
Magari mi piacerebbe capire meglio cosa significa “sviluppo armonico della personalità”, ma ho l’impressione che rischieremmo di aggrovigliarci in uno sgomitolamento senza fine. Meglio rinunciare.
3. “Sto solo dicendo che l’insegnante non deve dare le risposte, ma deve indicare la via affinché il ragazzo le risposte se le vada a cercare da solo perché gli interessa saperle”.
Anche qui, non sia mai che mi metta a contestare così *grandi* e inviolabili principi. Rinuncio. Mi arrendo.
Preciso che “sgomitolamento” è concetto gramsciano.
“Sgomitolamento” è la concezione spontaneistica in educazione.
io intendevo invece produrre nel bambino un allenamento alla riflessione sulle cose, sopratutto nelle decisioni, cioè se faccio questo cosa comporta, se faccio quest’altro cos’altro.
Una palestra alla presa di coscienza delle concatenazioni causa- effetto per l’approccio logico alle cose, e una familiarità alla relazione, all’emozione che dovrebbe prolungare, ampliare, superare il legame monotropico materno.