Sulla guerra civile ebraica e il nuovo profetico (2)

di Marc Ellis*

L’attuale dissenso ebraico
Di fronte al bando del profetico da parte dell’ebraismo costantiniano, gli ebrei che dissentono dalle attuali politiche di Israele sono in una posizione difficile, forse impossibile. Come i teologi dell’Olocausto, anch’essi proclamano la fine dell’era rabbinica, o almeno dell’ebraismo rabbinico quale è stato praticato nella storia ebraica. Inoltre, come i teologi dell’Olocausto e la teologia costantiniana cui questi diedero origine, gli ebrei del dissenso affermano la centralità dell’Olocausto per l’esperienza ebraica contemporanea. È vero che, affermando che se la sofferenza dell’Olocausto giustifica Israele come stato-nazione per i sopravvissuti essa impone anche il rifiuto di causare sofferenza ad altri, gli ebrei del dissenso usano l’Olocausto per chiedere la fine delle sofferenze dei palestinesi. Ma questa posizione li chiude in una trappola, obbligandoli anche ad avallare la necessità di uno Stato di Israele fondato proprio sull’etica di sofferenza e potere che essi non possono non condannare.

La critica degli ebrei del dissenso a Israele si limita, è chiaro, all’occupazione post 1967 della West Bank e di Gaza e alle politiche ‘di aberrazione’ che le hanno fatto seguito. Malgrado le sofferenze causate ai palestinesi nella creazione di Israele, nella visione dei dissenzienti gli ebrei, dopo l’Olocausto, non avevano altra scelta che fondare uno stato-nazione. Come i teologi dell’Olocausto, anche gli ebrei del dissenso pongono dei limiti di tempo e di tono al profetico. Per entrambi minare la ragion d’essere di Israele e il potere per preservarne l’esistenza è un peccato imperdonabile, da punire con la scomunica dal mondo ebraico. Ciò su cui dissenzienti e teologi dell’Olocausto discordano è la natura delle attuali politiche di Israele. Per combattere l’adesione della teologia dell’Olocausto all’etica del potere, gli attuali dissenzienti sono tornati al linguaggio religioso. Si ritrova qui l’interpretazione talmudica, ma mescolata a una sensibilità new age che eclissa i severi giudizi e l’intervento teologico dei profeti e di Dio sulla vita ebraica. Torah e Talmud sono citati, cioè, non in termini profetici che metterebbero in questione le fondamenta stesse dello Stato ebraico, ma solo per puntellare tali fondamenta. La stessa convinzione dei dissenzienti che sia la ‘ebraicità’, non gli imperativi dello stato-nazione, a determinare le attuali politiche, mostra quanto sia profonda in loro la negazione della forza dell’ebraismo costantiniano, e quanto in ultima analisi siano complici di esso.

Come ogni movimento di rinnovamento, l’attuale ondata di dissenso ebraico cerca di rinnovare l’ebraismo richiamandolo alle sue migliori intenzioni e possibilità. Di regola, tuttavia, la religiosità costantiniana contrasta tale rinnovamento, in parte lo assorbe e, trasfigurando e svigorendo il suo carattere critico, lo rivendica come proprio. È questo il destino dei riformatori cristiani. Come sfuggiranno a esso gli ebrei del dissenso? Come potranno evitare di perdere la battaglia che scatenano se, nello stesso tempo, si fanno alimento del perdurare ed espandersi proprio dell’establishment che combattono? La risposta è che i parametri comunemente accettati della guerra civile, ebrei contro ebrei, sono obsoleti, e possono solo portare al perpetuarsi di un ciclo di legittimazione e critica che lascia il popolo palestinese sofferente e la tradizione etica ebraica svuotata. Per riuscire ad affrancarsi dall’ebraismo costantiniano il dissenso ebraico deve affrancarsi dai ‘parametri accettabili’ del dissenso ebraico. Il che significa che deve lasciarsi alle spalle l’auspicato ritorno all’innocenza ebraica.

Ebraismo profetico
Invece di scegliere il dissenso dall’interno della tradizione, gli Ebrei del Rinnovamento devono fare il passo verso la profezia e divenire Ebrei di Coscienza. Gli ebrei di coscienza rifiutano l’ipocrisia dell’establishment ebraico e i compromessi degli ebrei del dissenso. Essi abbandonano gli argomenti di retroguardia sull’identità ebraica. In genere sono ebrei laici, perché il linguaggio religioso è ormai così compromesso che la nozione stessa di religiosità, per quanto possa essere splendidamente interpretata e presentata in termini affascinanti, è anatema. Essenzialmente gli ebrei di coscienza fuggono il mondo ebraico, agendo e organizzandosi nel contempo contro le politiche di occupazione ed espulsione di Israele. Sono in un esilio privo di aspettative e forse, a causa della loro situazione, senza possibilità di ritorno.
Ciò che gli ebrei di coscienza sembrano dire all’establishment ebraico è che la storia ebraica come l’abbiamo conosciuta ed ereditata è finita. La lotta non è più per la sopravvivenza ebraica o l’innocenza ebraica; la stessa categoria di ebraicità è ormai un pantano che non ammette soluzione né movimento in avanti. Per questi nuovi profeti, nella vita ebraica è penetrato un grado di ipocrisia per il quale non esiste rimedio. Il mondo ebraico quale è stato conosciuto ed ereditato non è più in grado di offrire un futuro che meriti di essere trasmesso alla prossima generazione.

Nel 1969 Emmanuel Levinas, il filosofo ebreo francese, scrisse un saggio intitolato Giudaismo e tempo presente [In Difficile libertà: saggi sul giudaismo, a cura di Silvano Facioni, Jaca book, Milano 2004, pp. 259-267; ed. orig. Difficile liberté: essais sur le judaïsme, A. Michel, Paris 1994]. In esso delinea la traiettoria centrale della sensibilità ebraica e il ruolo del profeta ebraico. L’ebraismo, scrive, è una “non-coincidenza con il proprio tempo, con la coincidenza: si tratta di un anacronismo nel senso radicale del termine, nella simultaneità di una gioventù attenta al reale e impaziente di mutarlo e di una vecchiaia che avendo visto tutto risale all’origine delle cose”. Riguardo al profetico nell’ebraismo scrive che “l’uomo maggiormente impegnato nella sua vita – colui che non può mai tacere – cioè il profeta, è anche il più separato, il meno capace di divenire un’istituzione. Solo il falso profeta possiede un ruolo ufficiale”. E conclude la sua riflessione sull’ebraismo e il profetico con questa penetrante e indimenticabile sfida: “Questo contenuto essenziale [dell’ebraismo e del profetico] però […] non si impara come un catechismo e non si riassume come un credo. […] Si acquisisce in un modo di vivere – rito e generosità del cuore – in cui una fraternità umana e un’attenzione al presente si conciliano con l’eterna distanza nei confronti della contemporaneità. Si tratta di un’ascesi, vale a dire una formazione di combattenti”.

Tale sintesi di ebraismo e profetico è per Levinas l’essenza del giudaico e del suo contributo al mondo. All’alba del XXI secolo l’ebraismo profetico corre ad un tempo il pericolo di scomparire e riapparire con incredibile forza. L’ebraismo costantiniano segnala la scomparsa del profetico in una forma ebraica annunciata; gli ebrei del dissenso evocano le possibilità profetiche inerenti al giudaico in una forma seducente e compromessa; gli ebrei di coscienza testimoniano la sopravvivenza del profetico senza potere articolare questa sensibilità in simbolo o significato.
Il procedere di ebraismo e profetico, questa sensibilità ebraica che, secondo Levinas, rifiuta idoli, mistero e magia, accompagna gli ebrei di coscienza nell’esilio. Risolutamente agnostici verso le rivendicazioni escatologiche della religione e dello Stato, e rifiutando uno schema predestinato e chiuso di culto e lealtà, gli ebrei di coscienza procedono in un futuro incerto. Le domande di rappresentazione simbolica a se stessi e agli altri, di adempimento della tradizione e sua trasmissione ai figli, di affermazione di uno status speciale o anche di uno status di autorevolezza da derivare dalla popolarità dell’ebraismo e della vita ebraica nel nostro tempo, restano inevase dagli ebrei in esilio. A differenza degli ebrei del dissenso, che lasciano sempre la porta aperta per un ritorno e una presa in eredità della vita dell’establishment ebraico, gli ebrei di coscienza sono lontani, senza cartelli indicatori o destinazione. Di Olocausto parlano raramente e in Israele vedono una terra perduta, un territorio straniero. Essi rappresentano la base di una nuova diaspora della coscienza.

La fine della storia (ebraica)?
Che cosa significa questa riaffermazione della diaspora per la vita ebraica e per il profetico? Significa che l’ebraismo è fondamentalmente diaspora nella sua sensibilità e che le tensioni presenti nel suo testo canonico rendono quasi impossibile mantenere una religiosità fedele in uno stato-nazione che rivendica un’affiliazione ebraica? Ora che il profetico è stato sottratto al canone, ora che la rivendicazione della strumentalità e della voce di Dio è stata smorzata, dobbiamo riconoscere che la fonte stessa del profetico e le affermazione stesse dei profeti non hanno più corso?
L’arrivo degli elicotteri da guerra quali testimoni del popolo ebraico, centrali per la vita ebraica com’era un tempo la Torah, e il raccogliersi di milioni di ebrei in uno stato-nazione la cui creazione ha portato a una catastrofe il popolo palestinese, non demonizzano la storia ebraica né la riducono a storia di una potenza coloniale e imperiale. La militarizzazione della storia e del pensiero ebraici può essere riconosciuta e combattuta senza condannare le battaglie e i limiti della storia ebraica qual è narrata dal canone biblico e da un passato di rifiuto e ghettizzazione.

L’idea che la storia di un popolo sia unidirezionale, senza evoluzione di pensiero e di pratica, e senza scelte compiute e scelte che ancora è possibile compiere, è una forma di determinismo e razzismo che altri hanno usato contro gli ebrei e gli ebrei contro altri. E lo stesso vale per l’idea di separazione dei popoli come qualcosa di permanente e auspicabile per la protezione e la proiezione dell’identità. Che la storia ebraica quale l’abbiamo conosciuta ed ereditata sia giunta a una fine non significa che l’ebraismo, il parametro stesso del giudaico, abbia perso la sua forza nel mondo. Significa solo che la sua espressione contemporanea nella vita ebraica maschera una sensibilità più profonda che, nella sua espressione rinnovata, non può essere articolata in un linguaggio identificabile come ebraico.
La militarizzazione del discorso religioso, come la militarizzazione del discorso sociale e politico, non inficia valori o testimonianze di fondo. Al contrario, accresce il bisogno della loro espressione nel momento stesso in cui spezza il linguaggio e il quadro concettuale che ne sono stati veicolo. È quindi decisamente da aspettarsi l’esilio ebraico senza linguaggio religioso. È inevitabile che, dopo l’esperienza del cristianesimo costantiniano, il rifiuto dell’ebraismo costantiniano vada cercato nella sua forma più pura e coerente fra gli ebrei di coscienza laici solidali con il popolo palestinese.
Per alcuni, simili esuli sono un esempio di abbandono della difficile strada del potere e del linguaggio che tale strada potrebbe far proprio al di là della oppressione. Ma l’esperienza, di nuovo confermata dall’intifada di Al Aqsa, dice che operare dall’interno non significa altro che cercare di non passare il limite sulla quantità di oppressione, sulla percentuale di terra e libertà perdute dai palestinesi, sul grado in cui la militarizzazione della vita ebraica sarà tollerata.
A questo punto della nostra storia, solo i profeti possono indicare la via in avanti. Il loro potere è limitato, certo, e il ciclo di violenza, almeno per il prevedibile futuro, continuerà. In questo ciclo altri palestinesi, e qualche ebreo, moriranno. Queste morti saranno accompagnate dal differimento della libertà per un popolo e dalla distruzione di una lunga e intensa storia di sofferenza e lotta. I profeti non hanno il potere di offrire quella libertà o salvare quella storia, solo di testimoniare della possibilità di un’altra strada, che unisca palestinesi ed ebrei in un legame portatore di vita anziché di morte.

*

* Marc H. Ellis è nato nel 1952 a Miami Beach, Florida. È docente di studi ebraici e americani e direttore del Centro studi ebraici e americani presso la Bailor University di Waco, Texas. È autore di numerosi libri, fra i quali: Unholy Alliance. Religion and Atrocity in Our Time, Fortress Press, Minneapolis 1999; O Jerusalem. The Contested Future of the Jewish Covenant, Fortress Press, Minneapolis 1999; Practicing Exile. The Religious Odyssey of an American Jew, Fortress Press, Minneapolis 2002; Israel and Palestine: Out of the Ashes. The Search for Jewish Identity in the Twenty-First Century, Pluto Press, London-Sterling, Va., 2002; e Toward a Jewish Theology of Liberation: the Challenge of the Twenty-First Century, 3a ed. ampliata, Baylor University Press, Waco, Tex., 2004. Collabora a vari periodici americani e internazionali, fra cui “International Herald Tribune”, “European Judaism”, “Ha’aretz”, “Jordan Times”, “Christian Century” e “Journal of Palestine Studies”. Il suo saggio che qui pubblichiamo è tradotto da Massimo Parizzi.

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