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da Sud n°1
Ri-sentimenti a Napoli
di
Gianfranco Borrelli
Sempre hanno fatto sorridere (non più di tanto) quelli analisi sociologiche che hanno ricondotto Napoli e i napoletani nei percorsi della modernizzazione, dello sviluppo forzato; in realtà, si può con buone ragioni argomentare che il criterio più idoneo a spiegare lo scombino partenopeo è quello classico dell’anatomia della città (da Aristotele a Machiavelli), come a dire: la città è attraversata da conflitti permanenti, da antagonismi irriducibili, da divisioni che normalmente lacerano il corpo naturale della comunità (peraltro così intensamente popolata). Non si tratta in prevalenza di conflitti sociali: piuttosto contrapposizioni di carattere psico-fisico prodotte da razze sovrapposte, comportamenti e linguaggi diversi derivati da etnie molteplici, privilegi di antiche famiglie che si confrontano con nuclei miserabili (per cultura e per averi), prerogative di corpi/corporazioni manifeste o nascoste (massonerie, camorre, etc.), privilegi di professioni e mestieri bene preparati soprattutto nel raggiro dei concittadini: alla radice dei risentimenti sono innanzitutto queste dinamiche.
E in effetti i ri-sentimenti vengono riflessi da una parte della città contro l’altra, da un individuo contro l’altro, con la convinta determinazione di produrre ad ogni costo sopraffazione e danni: e anche le reazioni di resistenza, di difesa, aspirano sempre e comunque ad avvilire e a sfigurare l’altro, considerato nemico. Ecco perché bisogna riscrivere il termine di cui trattiamo in questo modo distinto e slegato: ri-sentimenti; altro che socievolezza comunicativa dei napoletani, piuttosto proiezioni negative, concretamente immaginarie, rivolte in permanenza contro gli altri. Da un lato, il tempo della passività di chi utilizza la chiacchiera per affermare la propria differenza e la distanza: qui il ri-sentimento cova negli animi, cresce nei comportamenti motivati fortemente all’autoconservazione egoistica, vive di lentezze esasperanti. Poi, il ri-sentimento diventa repentinamente tempo dell’eccedenza: esasperazione improvvisa dei conflitti, tentativi dirompenti di innovare una comunità di individui incapaci di autodisciplina. Ecco le rivolte, fortunatamente quasi tutte di breve durata: ma anche la retorica delle rivolte. Da tutto questo deriva pure un’altra constatazione: offrire continuità alla vita comune, riconoscere e sedare i conflitti (anche senza alcuna pretesa di risolverli), in breve operare per la sopravvivenza della comunità diventa la virtù principale attribuita (ed inevitabilmente invidiata) a chi faticosissimamente – e immutabilmente dall’alto – esercita l’arte del governo oppure offre servizi alla città.
I contenuti che motivano questi ri-sentimenti interminabili e distruttivi sembrano irriconoscibili: sono certamente nascosti, comunque di difficile comprensione; eppure, sono sotto gli occhi di tutti, vivono negli umori quotidiani di ogni napoletano, ma solo una voce esterna, geniale e maledetta, agli inizi degli anni settanta poteva rivelarli:
«Io [Pasolini] so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare.
Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Boja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedia che si compiono lentamente; perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto.
La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere e rosa, continua come se nulla fosse successo, a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il rione Traiano) o per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno, quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili».
Ebbene sì, alla radice più profonda dei ri-sentimenti è il senso vissuto della perdita tremenda, quel destino di morte della città che ciascuno attribuisce all’altro, proietta sull’altro: in questo modo sollevando la proprie colpa e ricaricando sulla figura negativa dell’altro. La filosofia classica della città argomentava nascita, sviluppo e morte della comunità; dalla peste al colera, dalle eruzioni ai terremoti, dalla girandola delle invasioni (così Salvemini) alle rivolte: in ogni momento della propria storia i napoletani hanno vissuto e vivono questo destino della perdita (di un’antica armonia?, si chiede La Capria). Destino anche riconosciuto e diffusamente interpretato: grazie alla grande attitudine alla riflessione – naturalistica o metafisica – che qui sempre ha alloggiato, nonostante i teologi ed i filosofi di professione che anche da sempre hanno cercato di rendere privato (e commerciale) un bene che è di tutti.
Ma viene fuori qualche vantaggio da questi ri-sentimenti vissuti e riflessi? Sembra avvenga mai, con qualche eccezione. Ri-sentimenti, sfiducia, diffidenze inducono a vivere nella presenza, con il risultato di nulla poter prefigurare, di convincerti che puoi contare su te e solo su te stesso: certamente per portare in porto un progetto di lavoro dovrai assumere su di te tutte quelle competenze che altrove seguono i percorsi autonomi di una razionale divisione del lavoro tra i soggetti: dovrai quindi farti carico anche dei piccoli concreti passaggi che non ti senti di potere affidare ad altri, aggravando i ritardi della tua esistenza. Inoltre, questi ri-sentimenti contribuiscono a lasciare esposti – senza alcun ritegno – segni e tracce della perdita già vissuta, della comunità già gravemente lacerata: raro è l’atteggiamento di cooperazione, mentre dappertutto e senza sosta dilagano disordine, violenze (generalmente piccole, comunque dolorosissime), disinteresse per la vita degli altri; i ri-sentimenti spingono i singoli alla cura egoistica di sé, anche motivano questa gente bizzarra a leggersi in profondità verso l’interno, ma soprattutto suggeriscono ad accomodarsi con ragionata piacevolezza verso l’esterno, godendo nell’immediato delle splendide bellezze naturali, dell’arte culinaria, dell’estro dei giochi, dell’intelligenza inventiva, tuttavia in ogni momento vivendo le premonizioni dell’evento tragico incombente, vale a dire la morte definitiva, prossima ventura, della città: mentre a ogni angolo di strada l’armonia bellissima di un canzone – antica di secoli, pure da tutti riconosciuta – contemporaneamente ravviva la prospettiva della perdita (passata e futura) e ne addolcisce i contorni oscuri e drammatici.
In fondo, a Napoli, i ri-sentimenti partono dal territorio della perdita e conducono tra piccole e grandi sofferenze alle strade che aprono alla vita finalmente insensata: senza coperture, rimozioni, infingimenti; i ri-sentimenti inducono a diffidare dell’altro, a esercitare con necessitato mestiere la propria solitudine, ma anche ad amare con intensità straordinaria la comunità vissuta come impossibile.
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Preferisco questo pezzo, più articolato, al precedente che sembrava parlare di Napoli tout court mentre invece parlava di una parte limitata di Napoli, quella dei quartieri, già sfruttata letterariamente anche troppe volte (sto leggendo il Meridiano di Rea).
Ma sempre sento qualcosa che manca, anche in questo pezzo. Forse non per colpa dell’autore. Sento la mancanza della politica. Ma forse è la politica che ci ha abbandonato.
Quanto lontane sono certe pagine, anzi molte di quel bel Meridiano. Vien voglia di rileggere l’abate Galiani, non soltanto per la sua totale, splendente inattualità.
Concordo with Temperanza.
Voglio dire che concordo, se ho capito bene, con una certa ripulsa verso l’ennesima lettura “letteraria” di Napoli (e della napoletanità), con le sue suggestioni e anche con le sue intuizioni, ma che risulta, in fin dei conti, sentimentale e auto-assolutoria.
Poi non concordo con la lettura della napoletanità come culto dell’ego, perché la vedo invece come la declinazione partenopea di un’antica malattia di cui soffre tutto il Paese, con gli episodi più acuti che affliggono il suo Sud: il familismo implosivo (FI).
Il FI fa sì che l’individuo non riconosca alcun grado di condivisione, di normativa, che si collochi al di fuori delle mura della Famiglia (propriamente detta, ma anche mafiosa o camorristica).
Questo accade anche molto più a Sud.
È una cultura che satura tutta l’Italia Meridionale, con consistenti elementi anche nel resto del Paese, che minano alle fondamenta, da sempre, la sua cultura etico-politica.
In questo senso, Napoli e il Sud non sono altro che quintessenza italica.
Città, modernità, razionalità e cultura della norma sono una cosa sola.
Senza il senso della condivisione non si da comunità, città, stato e nemmeno lotta di classe.
Cioè, senza condivisione non c’è niente di assimilabile a qualcosa di “sociale”.
Hai capito bene, e io sono d’accordo con quello che dici dopo.
Le questioni da voi sollevate mi sembrano assolutamente pertinenti e in modo generale essenziali ad un discorso nuovo sulle nostre città – Napoli come le altre. Gianfranco Borrelli, fa parte di quegli intellettuali che a Napoli si sono fatti portatori attraverso l’insegnamento e soprattutto direi grazie ad un’azione politica sul territorio di una riflessione differente. Tralascio qui il percorso intellettuale per citare soltanto il prezioso workshop, Archivio della ragion di Stato, che Gianfranco ha creato insieme ad altri e che si è imposto da subito come un vero e proprio laboratorio per gli studenti cui è collegato il seguente sito http://www.filosofia.unina.it/ars/ dove tra l’altro è possibile indagare quel concetto di citoyenneté che traspariva dai vostri scritti. Su una cosa però non sono d’accordo con Temperanza, ovvero sulla trappola del lirismo “partenopeo”. Giuseppe Montesano, Erri De Luca, Morganti, Braucci, Saviano, l’immenso Peppe Lanzetta, giusto per citarne alcuni svolgono sul territorio un’azione che seppur imperneata sul dispositivo letterario agiscono come dei veri e propri anticorpi a quel tipo d sciatteria ed autosufficienza di cui parlavate.
effeffe
@Forlani
Non so, tu fai nomi molto diversi tra loro, l’unico che conosco abbastanza bene da arrischiarmi a dare un giudizio è Erri De Luca e non è un giudizio positivo. Mi disturba molto la sua retorica, qualcuno ha parlato di dannunzianesimo di riporto, è una definizione magari un po’ esasperata ma tenderei a condividerla.
Lanzetta invece lo terrei fuori perché il teatro è un’altra cosa e al teatro non farei le stesse critiche che faccio invece alla scrittura.
Che gli autori che tu citi svolgano un’azione benemerita sul territorio non lo metto in dubbio, ma non mi sembra sufficiente per dire che sono anche riusciti a dirigere sulla città (parlo sempre e solo letterariamente) uno sguardo davvero nuovo. E’ vero che non li conosco abbastanza, ma se mi passi il paradosso, forse me ne sarei accorta se lo avessero fatto. In ogni caso sono ovviamente impressioni molto parziali e personali, ma in fondo la Napoli di cui parlano è la stessa di sempre, forse come materia letteraria Napoli dovrebbe essere messa a maggese per un po’.
Erri De Luca non è un dannunziano di riporto! Giù le mani dai postdannunziani d.o.p., genere Ciccio Pastonchi e, per li rami, Renzino Laurano. Quando De Luca avrà tradotto un libro dei carmi oraziani rispettando la metrica originale ne riparleremo. In quanto a Napoli e la letteratura, perché non provare a raccontare quella città quasi santa in altro modo, con altri mezzi e strumenti? Lo fa Peppe Lanzetta, l’ha fatto e continua a farlo Fausto Cigliano, nessuno eguaglierà più Dieguito (napoletanissimo honoris causa, voglio sperare), lo fa appunto ‘l gràn Forlèn, napoletano em transitu per la Terra Europa, no: con lazzo e frizzo, sìn juicio ni temperança, si con valòr.
@ Silvio
Infatti (d’annunziani post d.o.p. a parte) io di Lanzetta non direi mai quello che ho detto di De Luca e più genericamente dello sfruttamento letterario di Napoli. Lanzetta ha un’energia che azzera qualsiasi critica di questo genere (ma l’ho visto, non letto), forse perché il teatro è più consono alla città di quanto non sia la letteratura. E’ una banalità quella che ho detto, certo, in fondo anche quello di Napoli città teatrale potrebbe essere un cliché, ma in qualche modo è vero.
Mi verrebbe da dire che Napoli è più forte della letteratura e la copre, mentre non è più forte del teatro, con il teatro è in sinergia.
Ma ero tornata soprattutto per dire un’altra cosa. Leggendo il commento di Forlani ho avuto l’impressione che “giustificasse” o almeno rafforzasse l’efficacia letteraria dei nomi che cita in virtù del loro lavoro sul territorio. Se è così non sono d’accordo. Questo intreccio di sociale e letterario io non lo apprezzo proprio. Se uno è un cattivo scrittore e un bravo operatore lo apprezzerò come bravo operatore, come persona per bene, come efficace insegnante, come acuto sociologo. Ma perché dovrei apprezzarlo come bravo scrittore?
E non è un caso se ho apprezzato il pezzo di Borrelli e non quello di Morganti.
Fausto Cigliano. definitely cher Silvio. Pensa che nel suo ultimo disco pubblicato vi appare sarrà chi sa, canzone di mio zio Renato, dandy quanto lo zio di Moresco anarchico.
@ Temperanza. Letteratura e vita è una questione molto delicata e se condivido il tuo giudizio in generale – un bravo scrittore può anche essere un bastardo nella vita, vds Celine- credo però che talvolta le due cose , buona letteratura e bella vita, coincidono (vds Camus, per citarne uno più o meno contmporaneo a Louis Ferdinand). Peppe Lanzetta ha un’attività di romanziere non trascurabile e ti assicuro che la sua scrittura per me fu una vera scoperta. Io non dico che esiste una napoletanità come un valore sicuro di cui i suoi cantori (napoletani bien evidemment) sono i portatori sani. A me il Vesuvio interessa innazitutto perchè un vulcano e Napoli perchè è una Pompei.
effeffe
Questa invece la cantava mio padre a mia madre. Sempre Fausto Cigliano
Si mme suonne ‘int”e suonne che faje,
nun è peccato!…
E si, ‘nzuonno, nu vaso mme daje…
nun è peccato!…
Tu mme guarde cu ll’uocchie ‘e passione,
io te parlo e mme tremmano ‘e mmane…
e si chesto pe’ te nun è bene,
mme saje dicere ‘o bbene ched è?
Si ‘sta vocca desidera ‘e vase…
nun è peccato!
Ma vestímmolo ‘e vita stu suonno
che ‘a freve ce dá…
E tu abbràcciame,
cchiù forte astrìgneme…
pecché ‘ammore ca siente pe’ me,
peccato nun è!…
Fòrlèns, ignoro
el kdvd çelian
que dìchi:
ùrgue titre, dittòrtz y tòt.
(visto 2 anni fa, in forma smagliantissima, con chitarra di liuteria spagnola da svenirci in fronte, come quasi capitò. E lo zio dandy sarebbe il De Angelis che scrisse anche ‘A stiratrice? Se sì, vale tutti i de Luchi de ‘sto monno ‘nfàme).
E ora, dei maestri Di Giacomo e De Leva, la cabaletta ‘E spingule francese. Alla chitarra, ancora il m.o Fausto Cigliano:
Nu juorno mme ne jètte da la casa,
jènno vennenno spíngule francese…
Nu juorno mme ne jètte da la casa,
jènno vennnenno spíngule francese…
Mme chiamma na figliola: “Trase, trase,
quanta spíngule daje pe’ nu turnese?”
Mme chiamma na figliola: “Trase, trase,
quanta spíngule daje pe’ nu turnese?
Quanta spíngule daje pe’ nu turnese?”
Io, che sóngo nu poco veziuso,
sùbbeto mme ‘mmuccaje dint’a ‘sta casa…
“Ah, chi vò’ belli spingule francese!
Ah, chi vò’ belli spingule, ah, chi vò’?!
Ah, chi vò’ belli spingule francese!
Ah, chi vò’ belli spingule ah, chi vò’!?”
Dich’io: “Si tu mme daje tre o quatto vase,
te dóngo tutt”e spíngule francese…
Dich’io: “Si tu mme daje tre o quatto vase,
e dóngo tutt”e spíngule francese…
Pízzeche e vase nun fanno purtóse
e puo’ ghiénchere ‘e spíngule ‘o paese…
Pízzeche e vase nun fanno purtóse
e puo’ ghiénchere ‘e spíngule ‘o paese…
E puó’ ghiénchere ‘e spíngule ‘o paese…
Sentite a me ca, pure ‘nParaviso,
e vase vanno a cinche nu turnese!…
“Ah, Chi vò’ belli spíngule francese!
Ah, Chi vò’ belli spíngule, ah, chi vò’?!
Dicette: “Bellu mio, chist’è ‘o paese,
ca, si te prore ‘o naso, muore acciso!”
Dicette: “Bellu mio, chist’è ‘o paese,
ca, si te prore ‘o naso, muore acciso!”
E i’ rispunnette: “Agge pacienza, scusa…
‘a tengo ‘a ‘nnammurata e sta ô paese…”
E i’ rispunnette: “Agge pacienza, scusa…
‘a tengo ‘a ‘nnammurata e sta ô paese…
E tene ‘a faccia comm”e ffronne ‘e rosa,
e tene ‘a vocca comm’a na cerasa…
Carissimo Silvio
la canzone è a firma di Zio Renato Forlani parole e musica di Roberto Murolo. la trovi facilmente ed è bellissima. u quella che hai appena postato ti racconto un aneddoto. Negli anni settanta la sinistra universitaria napoletana fece un detournement situazioni ed allora faceva cosi’
Nu juorno mme ne jètte dò partite
pecchè vuleve fa à rivoluzione…
Nu juorno mme ne jètte dò partite
pecchè vuleve fa a rivoluzione…
Ricette nu cinese: “Trase, trase,
viene cummè si vò fà a rivoluzione
Ricette nu cinese: “Trase, trase,
viene cummè si vò fà a rivoluzione?
e ie che songo nu poco leniniste
ie me ne iette nu poco chiù a sinistra
spontaneista mò nun song chiù
sò militante a l’esse u
Ottimo Fòrl,
ma che grandezze nei moti rivoluzionari parte nopei e parte napoletani del ’77! Qui al Nord, slòghen manco in metrica e raffazzonati, che io ancora glieli rimprovero, ai reduci spelacchiati e oggi per lo più commercialisti o direttori di filiale all’Unicredit.
Meglio tornare a zi’ Renato e a questo suo altro malnoto capolavoro, anch’esso però incluso nella Napoletana di Murolo jr. (me pàr):
Che só’ ‘e rricchezze,
che sóngo ‘e denare?
Niente pe’ me!
I’ só’ padrone
‘e nu grande tesoro
tutto pe’ me!
Marechiaro, Marechiaro…
Tu, sulo tu,
puó’ fá dicere a stu core:
“Ma che vuó’ cchiù?!”
E’ na musica stu mare
ca nisciunu prufessore
‘ncopp”a carta pò stampá!
Nu cuncierto senza fine
ca si duje se vònno bene,
nun se pònno cchiù scurdá!
Quanno ‘ncielo sponta ‘a luna,
chi è meglio ‘e me!?
Tengo ‘ammore ‘int’a sti bbraccia,
dint”o core na canzone…
tengo ‘a luna e tengo a te!
Dint”o silenzio
st’ammore è nu suonno,
bello a sunná!
Mentre suspirano
e parlano ll’onne
d’eternitá!
@Forlani
Leggerò Peppe Lanzetta, anch’io ho voglia di farmi sorprendere e visto che mi succede di rado spero in bene.
Quanto a Montesano leggo oggi una sua intervista sul Corriere . Nel suo ultimo libro abbandona Napoli come elemento narrativo e dice “Credo che oggi la diversità di Napoli non esista più.” E poi ovviamente continua precisando. Ma se Montesano abbandona letterariamente Napoli vuol dire che quello che ho detto non è campato in aria. Buona letteratura e bella vita (nel senso di ‘buona’, immagino) dice Forlani. Ma la maggior parte dei grandi scrittori non la fece buona, e dunque io ci andrei cauta. A meno che voi non siate tra quelli che si rifiutano di leggere Jünger o in un altro campo Tucci. Per avere un occhio davvero lucido e orizzonti davvero grandi ci vuole una mancanza di pregiudizi che sulle prime può sembrare “cattiva vita”.
Belle le canzoni, naturalmente.
Montesano dice anche che non vede differenze tra Quarto Oggiaro e Scampia. Sbaglia. Per molte ragioni, ma anche per la ragione fondamentale che a Quarto Oggiaro la camorra non c’è.
Per qualche anno, fermamente intenzionato a scoprire i segreti del perfetto equilibrio compositivo della Veduta di Napoli, quella classica, col Pino, andai in cerca di cartoline raffiguranti la città da quel punto, che mi pare sia il Vomero. Ne trovai a bizzeffe, antiche e moderne. Scoprii che i pini utlizzati erano più di uno, che potevano comparire a destra o a sinistra del profilo del Vulcano, che l’immagine non era ripresa sempre dalla medesima altezza, che nel Settecento, metti, fu privilegiato un punto di vista più basso rispetto a quello classico, eccetera. Alla fine trovai quella che mi sembra la Legge geometrica della perfetta Veduta di Napoli, fondata su un rettangolo costituito da una griglia di sei quadrati, tre sopra e tre sotto, che regola le posizioni rispettive degli elementi che la compongono. Appena Napoli parla di sé compare la Veduta, come icona perenne dalla quale la città non riesce a distaccarsi, e sono passati più di due secoli dal fatidico ’98. Anche qui ricompare la Veduta e la sua Armonia Nascosta (Perduta?), le canzoni, la bellezza, ‘o Vesuvio, eccetera. Io adoro tutto questo, ma posso permettermelo, perché non sono napoletano. Se lo fossi probabilmente l’odierei.
Fuori tema e dentro vita
Una volta ne parlai con Goffredo Fofi – noi presentavamo a Torino le prime prove letterarie, romanzetti e lui con Gaetano Colonnese, genio napoletano dell’editoria, la grande recita, libro dedicato ai cantanti posteggiatori. Una sera mio padre mi invitò a seguirlo per un’occasione speciale. Una serie di maestri della canzone napoletana avevano organizzato per mio zio Renato un omaggio. I musicisti, di umili mezzi eseguivano i classici del repertorio e naturalmente delle canzoni di mio zio Renato. Da premettere che a casa mia invece di dire non fare cosi’ sennò arriva il lupo cattivo, l’uomo nero, per le pratiche terroristiche familiari la peggiore ingiunzione era : guarda che poi finisci come zio Renato. Non ha mai lavorato in vita sua o almeno mai da poter giustificare il tenore di vita che sosteneva. Era Renato simpatia di Capri negli anni cinquanta sessanta, grandi amori e visita ogni fine mese ai fratelli e sorelle (dodici) per costruirsi uno stipendio. A quella serata in cui ognuno a fronne è limone, a cappella senza microfono, dedicava un’interpretazione a mio zio c’era perfino chi , vissuto all’estero Francia o Germania, contaminava il repertorio riprendendo arie di Trenet o Brel. A un certo punto gli fu chiesto un discorso. Lui, elegante, ma un pò come Baudelaire, vestito di abiti belli ma lisi, quasi a ricordo dell’antica giovinezza, si alzò e guardando tutti disse: Ci fu un tempo in cui ero abituato a cantare davanti a conti e marchesi. guardate con che chiaviche (racaille)m’aggià truvà. Gli invitati applaudirono, incuranti dell’appena pronunciato insulto e si continuo’ fino a tarda notte. Uno zio indegno, insomma, un pò come lo sono io per i miei nipoti (dieci).
effeffe
zio Sasà
Non tutti sanno (effeffe sì, ovviamente) che il m.o Renato Forlani non sapeva leggere una parte che fosse una – il che lo avvicina a un altro gigante come Mezz Mezzrow, pioniere del jazz che di sé raccontava: “Imparare la musica? State scherzando. Ho imparato il sax al riformatorio” (M. Mezzrow, Really the blues, N. Orleans, 1946: libro amato, fra gli altri, da Henry Miller e Tom Waits)
Francesco, per favore, mi dici chi era tuo zio Renato?