Cronache pavesiane
A scena aperta
di Effeffe
Non meraviglia affatto che nello stato delle cose, ma dovremmo dire le piazze, i torinesi abbiano trovato proprio qui il loro posto naturale. Quando per risolvere il problema dei pensionati che a Torino sono una parte non trascurabile della città, si decise, con un’idea a dir poco geniale , di sostituire le lamiere di recinzione con strutture a grata. Pare che gli anziani complicassero, a causa della loro innata curiosità il lavoro dei cantieristi, sporgendosi da ogni fessura disponibile tra le lamiere. Chissà se però l’ideatore della soluzione si sarebbe immaginato che da quando nelle grandi piazze di Torino e prima su tutte piazza San Carlo, sterrata, sprofondata, divelta, insomma in pieni lavori, proprio tra i cantieri sarebbe emigrato lo spettacolo naturale della città.
Se infatti per un parco, o una foresta, la messinscena è costituita dal sibilo del vento tra il fogliame, dal crepitio dell’erba calpestata o dal colpo d’acceleratore di una macchina improbabile all’orizzonte, la scena aperta di una città sono i flussi di pendolari alla stazione, gli incroci vivi del centro e i punti nevralgici della “polis” dove le traiettorie degli autobus, o lo stridere dei freni dei tram, compone quell’armonia sovrana della metropoli. E questo lo aveva capito Walter Benjamin, con le sue promenades, certe visioni futuriste di folla e movimento tra la folla immortalate dai pittori Balla o Boccioni e ancora Philip Glass con il suo omaggio alle nuvole di New York, che cavalcano il cielo dei vetri dei grattacieli sulle note di un minimalismo accecante . Quel che accade passeggiando tra i portici della piazza San Carlo – il torinese soffre di agorafobia ed è per questo che percorre le grandi piazze tenendosi lungo il suo perimetro- è la realizzazione del concetto stesso di scena aperta. Centinaia di persone in veste di spettatori solitari più che di massa, ovvero su segmenti di tempo e spazio a loro congeniali: una pausa caffè, un giro per compere o per servizi, sul lato destro della piazza piuttosto che quello immediatamente alle spalle, verso Porta Nuova. Lo spettacolo è continuo e la partitura interpretata oltre che dagli arnesi e macchine presenti sui cantieri, si arricchisce dei gesti e movimenti degli operai, dell’esibizione della forza o della concertazione dei compiti. Quando dalla profondità delle fondamenta, su cui spiccano colonne romane di origine ignota – uno spettatore chiede ad un altro se sono vestigia di un ponte o di mura- giungono voci e a stento se ne indovinano gli idiomi . Basterebbe del resto osservare le maestranze per capire da dove provengano i nuovi migranti e come un tempo ottimi massoni furono quelli di Carrara ora sono di Danzica o rumeni. Sono voci distinte, frasi rade e urlate, soprattutto al crepuscolo come protette dal silenzio di quartieri senza macchine, alla maniera di quelle dei calciatori in uno stadio a porte chiuse. Chissà cosa dicano, o facciano.
E per ogni spettatore che se ne va ce n’è un altro che sopraggiunge come in una metafora. Torino che è la città in cui l’insulto peggiore consiste nel dire a qualcuno: “né me tu l’è propre un bugia nen” uno che si muove lento, proprio perchè il torinese è tradizionalmente lento, vede se stessa cambiare, e anche in fretta. Da città del lavoro operaio in lavoro della e sulla città e si vede trasformata attraverso lo sguardo degli altri nella speranza di trasformarsi a sua volta attraverso i suoi abitanti. Quei gesti reiterati tra la polvere del cantiere e quella del tempo diventano così un’ultima icona di cui, a lavori ultimati resterà solamente il ricordo. Il lavoro come il rumore di fondo di un tempo – a barriera di Milano il cuore della Grandi Motori che pulsava con forza titanica scandiva il tempo degli abitanti come altrove facevano i campanili- che vuole un altro presente. E sfodera un canto di gesti e meccanica quasi a ricordare ai nuovi spettatori, certamente operai d’altri tempi, cosa fossero quei tempi, di catena di montaggio e giovinezza, e che lo spettacolo che sta per cominciare ridesterà il suo pubblico da quello ormai finito.
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Il cantiere è un miracolo, Francesco. In qualunque città e per qualunque età.
“Anche noi abbiamo colpa”, non s’arrendeva Angelo: “Abbiamo fatto di tutto, ma stupidaggini: collette, manifesti, scioperi… E adesso? Fermi: come quelli che pedalano sui rulli. Ci vuol altro per andare avanti. Bisogna far sperare la gente, e subito… Saremo bravi, saremo cambiati, ma novanta volte su cento siamo ancora gente che fa sogni borghesi. I sogni sono tutti borghesi…”
[Giovanni Arpino, “Una Nuvola d’ira”, 1962]
a gamba tesa, francesco, a gamba tesa, alla Romeo Benetti
effeffe
@Gianni
della parola cantiere mi piace l’idea che si canti
a effeeffe
nn io, mai letto arpino, purtroppo?
a james biond
continuando a scavare in questa città sfasciata (torino), spero si arrivi dall’altra parte a riveder le stelle