Parigi è un labirinto
di Vincent Raynaud
(Pubblico in ritardo questo pezzo di Vincent Raynaud scritto a caldo nei primi giorni degli scontri parigini. Me ne scuso anche con l’autore, ma sono stato a zigozago per l’Italia. AB)
Da qualche giorno, un sacco di gente, amici e non (tutti italiani però), mi fa più o meno la stessa domanda: cosa sta succendendo nel tuo paese? Devo dire che all’inizio non ero molto informato: sentivo delle cose alla radio, scorgevo una foto su un quotidiano, tutto qua. E non mi sembrava granché: non è la prima volta e non sarà l’ultima che succede qualcosa nelle periferie, purtroppo c’è poco da stupirsi.
Poi ci ho pensato un po’, e mi sono venute in mente le cose che più o meno tutti avranno pensato, immagino. Che quelli che bruciano le macchine dei motivi li hanno, ma che la violenza non risolve niente.Che non si migliorano le cose mandando una polizia razzista e per di più incoraggiata dal ministro di tutela a piacchiare duro. Che il disastro era sotto i nostri occhi da tanto, e non volevamo vederlo. E via discorrendo: roba da tuttologo, discorsi che scorrono a fiumi sui giornali e in televisione. Buoni sentimenti che non cambiano niente. Tanto, questa storia finirà, e torneremo come prima. Una bella paura, davvero.
Proprio in questo periodo, rileggevo “Il cantante di tango”, un libro dello scrittore argentino Tomás Eloy Martínez (non so se tradotto in Italia), che si svolge durante gli eventi della fine del 2001 a Buenos Aires. Una vera e proria rivolta popolare, con cinque presidenti in deici giorni, morti per strada, l’esercito daperttutto, il caos nelle banche, ecc. Certo, il paragone sarebbe esagerato. Eppure. Forse non siamo finiti anche noi in questo labirinto terribile che è diventata la società attuale? E come scriveva Borges, non siamo proprio noi che lo stiamo disegnando giorno dopo giorno, questo labirinto, piuttosto che lui ad aspettare noi? Noi cittadini e loro politici? E adesso, come ne usciamo?
Si capisce: non sono riuscito neanch’io a dire qualcosa di intelligente sull’argomento. Non potevo non perdermi per strada.
Vincent mi hai tradito a Bolzano. Vergogna! ;-)
Non conosco l’autore, ma queste poche frasi, che intelligenti lo sono, innescano tutta una serie di riflessioni.
1) In Borges l’immagine del labirinto ha una portata metafisica, con Calvino, nel passaggio tra gli anni ’70 e ’80, il labirinto acquista una portata più ristretta: sociologica.
Calvino in sostanza dice (vedi il saggio “Sotto questa pietra”): non ha più senso fare l’intellettuale impegnato; non saprei più dire dove va la società, né saprei consiglire agli altri cosa fare; c’è troppa sproporzione tra quello che so e la complessità crescente del reale (leggi: sociale).
2) L’affermazione di Calvino è profondamente onesta. L’esito de suo ragionamento, lo scetticismo. Ossia l’immagine del labirinto.
3) Scrive Raynaud: “non siamo proprio noi a disegnarlo giorno per giorno?”
Si, senz’altro. Ma sarebbe meglio dire: noi lasciamo (passivamente) che si disegni, in questo costante divagare dell’attenzione che è ormai l’opinione pubblica, fondata sull’industria dell’informazione-spettacolo.
4) Noi lasciamo che la nostra mente divaghi, da un problema d’attualità all’altro, in pochi giorni diventiamo specialisti di tsunami e infezioni di polli, reti pedofile e giovani incendiari delle periferie, e poi dimentichiamo, dimantichiamo tutto, per specializzarci in altro. E non lasciamo neppure come Pollicino una piccola traccia dietro ai nostri passi, per riprendere il cammino autonomamente.
5) L’immagine del “nostro” labirinto attuale non è un percorso tortuoso senza via d’uscita (apparente). E’ una mappa a macchia di leopardo, con zone cancellate e incomunicabili. Non solo, ma è una mappa costantemente rinnovata, che dà l’idea di includere sempre più dettagli della realtà, ma sempre alcune parti si cancellano, sempre alcuni vuoti rimangono vuoti, e sempre più incolmabili. In effetti, cosi è difficil capire.
6) Ma non tutti sono onesti in questo labirinto. Ad alcuni fa comodo questo scetticismo della ragione. Ad alcuni fanno comodo le amnesie ricorrenti e i correnti polveroni mdiatici. Alcuni si muovono perfettamente nei labirinti. Servizi segreti, mafie varie, poteri finanziari, multinazionali. E tutti questi non sono soggetti di “fiction”. Esistono davvero, con nome e cognome.
7) E’ impossibile tracciare nel grande viavai delle nostre società, le traiettorie che hanno maggior peso? Non è facile. Alcuni lo fanno. Studiosi, giornalisti, militanti di associazioni o gruppuscoli della sinistra. A margine dei grandi polveroni, tessono il loro filo. Dovremmo dare molta importanza a persone come loro, al loro lavoro.
8) Dire cose intelligenti sugli incendiari? Si potrebbero dare delle indicazioni bibliografiche. Esistono studi approfonditi sul sistema di discriminazione francese. Leggetevi intanto qualcuno di questi libri. Poi ne parliamo. Poi parlimo degli incendiari. Se fanno bene o male. Se sono pazzarelloni o delinquenti. Certo. Bisogna avere la pazienza di non “risolvere” il problema nel “tempo” della notizia. Quando le macchine bruciate in periferia tornano al loro numero normale, nessuno ne parla più. Ossia nessuno ci pensa più. E la mappa che stavamo costruendo per colmare il divario dal “nostro” centro ai loro “sobborghi”, è di nuovo lasciata a metà, qualcos’altro ci viene dato da pensare. I terroristi ceceni, gli uomini-bomba in iraq, i clandestini a lampedusa, i polli in romania, ecc.
6) Ma non tutti sono onesti in questo labirinto.
Nessuno è onesto in questo labirinto.
Tutti colpevoli, tutti assolti.
Dobbiamo invece possedere dei criteri per graduare le responsabilità. Non è importante essere onesti o non esserlo. E’ importante capire, tra i disonesti (la maggioranza), noi pure, chi fa più danno. Si misurano e giudicano le azioni, non le anime. E non tutte le azioni hanno lo stesso peso.
No Andrea, nessuno è onesto in questo grande labirinto. Malafede ed autoinganni sono il mio pane quotidiano. In verità, certe “sensibilità” qui ostentate cominciano pure a darmi sui nervi, in realtà avrei una gran voglia di spaccare e distruggere anch’io, invece di dissipare (essenzialmente da “ricattato”) le mie giornate per il funzionamento della “grande macchina” – la stessa che altri si dilettano a prendere a calci, anche se ci mangiano dentro e se ne avvalgono “in toto”. Ma vediamo un po’: il mio essere “rotellina” consiste nel rendere possibili importanti flussi di informazione tra sistemi informatici (istituzionali) eternamente mal funzionanti per l’accumulo di negligenze e cretinerie ad ogni livello, aggravate da quegli scaltri sfaccendati, millantatori e scaricabarile (gli “scrocconi” di certi modelli sociologici) che ti ritrovi a concentrazione pressoché costante in ogni ambito della società. Così, dopo una laurea sudata, che in certi bei momenti mi aveva fatto sentire quasi uno scienziato, mi ritrovo ora, dopo una decina d’anni di “impegno leale” (leggi ingenuo) semplicemente “sfruttato”, semplicemente deprivato del mio tempo, per uno stipendio del tutto ordinario, assai minore di quello che certi miei vecchi compagnoni, che anzi si compiacciono del proprio romantico ribellismo/menefreghismo sociale, rubacchiano in qualche diverso angolo del carozzone. Nella sua essenza, un lavoro di merda, iperspecializzato, che ti invade il cervello con una massa di luridi, perché per ogni altro fine insignificanti, dettagli che non vorresti mai conoscere, e che invece ti reclamano una estenuante vigilanza sull’accumulo e smaltimento della complessità e del “rumore”, e persino, da parte tua, delle sofisticate soluzioni, spesso spericolate e creative ma che, essendo dedicate a rattoppare cose imbastite male ed evolute peggio, non possono in nessun modo evadere dalla loro orbita fognesca (fogna informativa, puzza di meno, questo è vero, ma l’essenza è la stessa). Così, il mio essere coglione, è consistito nel non aver captato prima il generale “si salvi chi può” dal lavoro “vero”, cioè quello operativo, troppo prossimo alla realtà dei fatti ed ai suoi vincoli inflessibili, un errore, o un ritardo, fatale. Ora che, negli spazi che decido di riscattare dalla mia condizione servile – accollandomi qualche rischio – studio retrospettivamente la faccenda, mi accorgo di molte cose, delle radici sociali e addirittura storiche della mia coglioneria (con il milieu familiare intriso di quell’ingenua “etica del lavoro” che soltanto ora sta cominciando finalmente a evaporare, rendendomi via via più simile all’ “artista”) – di come essa fosse quindi, probabilmente, inevitabile (è straordinario constatare, confrontando le traiettorie con alcuni compagni di liceo, come piccolissime differenze “attitudinali”, per lo più un portato di famiglia, possano determinare percorsi sociali straordinariamente diversi). Ma il fatto è che sono ancora sostanzialmente integro, carico di rabbia ed energia (ma con “capitali” sociali e simbolici pericolosamente disorganici) e quindi non proprio dove questa carica finirà per convogliarsi, e magari virare in violenza, potrei forse prendere esempio da qualche noir di Franz. Immagino che si tratti della stessa carica da piccolo borghese frustrato (che ormai “sa troppe cose” per contentarsi del suo posticino nello schema generale delle cose, “non date ai servi un’educazione da padroni!” ammoniva il buon Nietzsche) che ha dato alimento al nazismo. Ma forse la mia è soltanto una rappresentazione di comodo.
L’innocenza forse non è il metro di misura ideale.
Nessuno è innocente.
Dà fastidio chi esibisce troppo la propria innocenza (“vera” o presunta) e giudica solo in base a quella.
Tuttavia non siamo tutti colpevoli allo stesso modo.
Penso sia indispensabile distinguere, e nel farlo penso anche sia necessario cercare di relativizzare la propria condizione personale, i propri interessi, gli inevitabili rancori, le rivendicazioni.
Con questo non voglio affatto dire che io lo faccio, né che lo faccio sempre. Non è questo il punto. Non sto parlando di me, o perlomeno non solo.
sei lucidissimo caro wowoka, e fa male leggerti
quanto a me posso dirti che io sono uno di quelli che consapevolmente ha fatto di tutto per non finire in quel tipo di “lavoro vero” che dici, anche se il lavoro che sono riuscito a fare, l’insegnante, dovrebbe farne parte, in quanto rimane un lavoro molto “difficile”; ma non so per quanto ancora sia un lavoro “vero”, forse già non lo è più, ma per ragioni che non dipendono semplicemente dalla categoria ma dall’intera società
ma il quadro che tu presenti è il motivo stesso per cui “il capitalismo ha torto”; io provengo da una famiglia borghese, anche se la mia storia personale ha aspetti dickensiani assai duri; ho comunque usufruito di alcuni privilegi importanti per fare i miei studi, laurearmi fuori corso; ma questo non mi impedisce di vedere le ingiustizie di scala planetaria e di sentire come una parte importante della vita che la società mi apparecchia (tempi di lavoro e tempi di godimento) va contro alcune mie esigenze elementari, a partire da quella fondamentale di fare un lavoro che abbia senso
viviamo ormai in un mondo folle: coloro che hanno un lavoro duro e ben pagato considerano privilegiati coloro che hanno un lavoro umano e poco pagato; coloro che non hanno lavoro considerano privilegiati coloro che hanno il lavoro, che considerano dei mangiapane a ufo i disoccupati, se gli capita come in francia di avere un “decente” sussidio di disoccupazione; quelli a tempo determinato considerano dei mascalzoni quelli a tempo indeterminato; quelli che dopo lunghe ricerche, travagli, lotte, trovano un lavoro in qualche settore “dinamico”, se ne pentono subito perché l’intera loro esistenza viene risucchiata dentro il vortice lavorativo; prima di parlare di “etica” del lavoro, dovremmo capire che mostro è diventato il “lavoro” (quando c’è….)
Di una cosa mi sono convinta. Sul tema del post occorre tornare, ma per approfondire (concordo con Andrea Inglese), per avere dati ed elementi di valutazione diversi da quelli che circolano sui giornali quando un argomento è di stretta attualità.
A me interessa, anche per ragioni professionali, il tema dei modelli “educativi”, dunque la questione dell’“assimilazione”.
L’“assimilazione” alla francese ha mostrato tutti i suoi limiti; rischia addirittura di trascinare con sé valori emblematici e importanti come quello della laicità della scuola.
Ma davvero il modello multiculturale anglosassone e americano “funziona” meglio? Ci sono dati che permettono confronti su basi certe?
A luglio gli attentati di Londra e la biografia dei giovani attentatori (kamikaze) – immigrati di seconda generazione, nati in Gran Bretagna, “scolarizzati” in Gran Bretagna, e perfino con relativo “successo” – avevano fatto gridare al fallimento del modello multiculturale inglese.
Motivi di preoccupazione emergono periodicamente – nelle pagine di cronaca dei giornali – dalla crisi del modello multiculturale “avanzato” olandese.
Toni Negri (letto sul blog di Georgia) sostiene che è fuorviante soffermarsi sui modelli di “integrazione”.
Io penso che, in attesa di un’improbabile rivoluzione, e senza trascurare il dato economico, chi si occupa di scuola dovrebbe cercare di saperne di più.
non so.
mi sembra che chi si lamenti del mondo del lavoro – come fa wovoka – non abbia ben chiaro a se stesso cosa è il lavoro nel tempo e nello spazio.
nei secoli dell’umanità e nei paesi del terzo mondo.
cosa ti aspetti wovoka dal lavoro? come lo vedi il lavoro dei camerieri, di chi fa un lavoro manuale? come dovremmo lavorare, tutti?
forse sono domandi banali, ma le risposte non le conosco.
@fabrizio: quello che ho espresso a me non sembrava esattamente un lamento, semmai una imprecazione – ma non mi lagnerò di alcuna interpretazione perché nemmeno io ne comprendo appieno le valenze, come pure il rapporto tra esagerazione ed autenticità in esso contenuti: questa ha tutta l’aria di essere una questione di saggezza, e io non pretendo affatto d’averne. Diciamo che si tratta di una esplicitazione problematica, che vagamente immagino mi possa servire d’appoggio per qualche sviluppo anti-retorico, volto a sollecitare delle rappresentazioni un poco più crude ed antropologicamente autentiche anche per le dinamiche del campo culturale, e che ho proposto qui – diciamo così – ad un “pubblico adulto” per vedermela sezionata, disarticolata o comunque neutralizzata, meglio di quanto possa fare io stesso.
Del lavoro non so più cosa pensare, lo vedi. La mia “etica” (irriflessa) non era certo quella del capitalismo protestante alla Weber, ma una sopravvivenza di quella del vecchio villaggio rurale, dove il lavoro è una serissima necessità condivisa da tutti, e sapervi far fronte lealmente un elemento fondamentale di onore e di virilità, ovvero qualcosa che è diventato ora ignominiosamente ingenuo – semplicemente “stupido”. Quanto ai camerieri, semplicemente mi imbarazzano, tutte le mie reazioni viscerali sono da ceto basso, e mi cadono a pennello tutte le descrizioni di Bourdieu nella “Distinzione”, p.es.:
Per chi dubitasse del fatto che il fatto di “sapersi far servire”, come si dice nei discorsi borghesi, costituisce una componente dell’arte di vivere borghese, basta ricordare quegli operai, o quei modesti impiegati, che, entrati per qualche importante circostanza in un ristorante elegante, si mettono a chiacchierare con il maitre o con i camerieri – che “si accorgono subito con chi hanno a che fare” – quasi per annullare simbolicamente il rapporto di servizio, e scongiurare il disagio in cui esso li mette.
Wowo, penso che confrontare sistemi valoriali personali con altri decisamenti incompatibili, è un’operazione inevitabilmente deludente.
La difficoltà di condivisione dei propri sistemi valoriali, etici, è uno dei drammi attuali.
Aspettando che cio’ avvenga, non ci resta che appagarci della nostra idealità, sapendo che se non possiamo avere cio’ che desideriamo, potremmo sempre optare per l’opzione di desiderare cio’ che possediamo.
Ma io non sono deluso! Capire bene come è che sei finito attaccato alla catena mi da semmai una certa ebbrezza dionisiaca! La partita non è mica finita … :-)
ah, beh allora avanti con la rivoluzione
Farò tali cose
(ancora non so quali)
ma saranno
Il terrore del mondo
Gianni,
infatti si’, mi vergogno. Giovedi’ è stata una giornata difficile. La sera mi sono messo sul divano, e ho lasciato la televisione ripulirmi il cervello (mi vergogno ancora).
Sara’ sicuramente per un’altra volta!
Andrea,
ho letto i tuoi pezzi su Parigi, tutto appassionante, davvero, e devo dire che in confronto cio’ che ho scritto io è banale. E’ strano, forse è una realtà troppo vicina (ho vissuto a Parigi per 15 anni, fino al 30 giugno scorso), ma non riesco a parlarne con la dovuta distanza. Invece, sull’Italia, se comincio non mi fermo più. Altra banalità: è piu’ facile analizzare dal di fuori…
(Si’, è sicuramente cosi’: lasciamo fare, poi ci chiediamo come mai sia successo.)
An afterword. Quel mio testo singolare, ha continuato a ramificarsi nella mia mente in maniera sorprendente, gemmando questioni su questioni, sino ad esaurirsi in una sorta di saturazione – come se il modello necessario a fissare la questione entro termini stabili e definitivi fosse semplicemente troppo ingombrante rispetto ai limiti rappresentativi della mia coscienza. Così, una volta distanziatomi da esso, ho avuto l’impressione retrospettiva di avere assistito all’autoproduzione – relativamente autonoma – di una sorta di retorica: un sentimento complesso, ma ben riconoscibile, trovava espressione articolandosi nelle evidenze a disposizione, escogitando a tale scopo una struttura di “discorso” capace di rappresentarlo. Curiosamente, le successive valutazioni, o “riscalature” rispetto alla mia usuale “visione del mondo”, delle diverse evidenze utilizzate, si sono sì dimostrate capaci di alterare il sentimento originario, magari neutralizzando la rabbia o il desiderio distruttivo che vi era stato incanalato, ma non la struttura logica, la tautologia retorica che, se pure tende a sfaldarsi nella memoria al declinare dell’attenzione e con il passare del tempo, si rinsalda puntualmente ad ogni rilettura. Da qui un effetto curioso ed assolutamente ripetibile: quando il ricordo del discorso sfuma emerge la vaga impressione di avere articolato una sorta di “enormità” (o di “bestemmia”: censori sociali “incorporati” al lavoro?) – impressione che però risvanisce quando la rilettura riesce a ricreare, seppure in una sorta di “rimessa in opera” attenuata, il contesto originario. Davvero interessante, ed un po’ sconvolgente. L’impossibilità di fissare la questione in un quadro stabile, il singolare lavorio della mente che mi è stato possibile percepire, mi riporta alla memoria una formulazione di Lacan che mi aveva affascinato fin dal primo incontro:
Non si tratta piuttosto di una frustrazione che sarebbe inerente al discorso stesso del soggetto? Il soggetto non si impegna in una perdita sempre più grande di questo essere da parte di se stesso, di cui, a forza di quadri sinceri che non di meno ne lasciano incoerente l’idea, di rettifiche che non giungono a liberarne l’essenza, di modi di essere e di difese che non impediscono di far vacillare la sua statua, di costrizioni narcisistiche che concorrono ad animarlo, finisce per riconoscere che questo essere non è mai stato che una sua opera nell’immaginazione e che questa opera delude in lui ogni certezza. In questo sforzo che egli compie per ricostruirla per un altro, egli ritrova l’alienazione fondamentale che gliela ha fatta costruire come un’altra .. Questo ego ..è la frustrazione per essenza.
E con questo, direi che ho davvero finito.
vincent, non mi è sembrato banale quanto scrivi, perché l’immagine del labirinto coglie benissimo il proliferare di argomenti e controargomenti, nella stampa francese e non solo di questi giorni…, e non tutti questi argomenti sono in malafede…
ma per me questi eventi hanno funzionato come un nodo, tirando il quale emergevano a poco a poco fili sempre più estesi e lontani, che andavano in altre direzioni dal quadro rigido delle periferie in fiamme e dei ragazzi con le molotov
e ora questi fili mi stanno portando sulle relazioni francia-africa, sul revisionismo, sul neocoloniamismo francese in parte clandestino, fuori tema, insomma. Eppure sento che le cose importanti da dire stanno quasi TUTTE FUORI dal quadro degli incendi, degli scontri di queste settimane.
Quello che poi dici è stranamente vero: su certe questioni francesi mi sembra di avere la giusta distanza, per entrarci senza troppi “détours”, e non mi riesce invece di fare la stessa cosa per l’Italia…