NEUROPA: viaggio per intervalla insaniae
di Daniele Poccia
“I migliori medici o i migliori scrivani che ci sono al mondo non riusciranno a trascriverlo in bella copia dal confuso abbozzo della sua follia: è un pazzo misto, con molti intervalli di lucidità.”
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte
“La grande comica è sempre stata una specie di encomium moriae, di elogio della pazzia.”
Ernst Cassirer, Saggio sull’Uomo
1. Che cosa può cercare di svelarci sull’Uomo, sulla Storia, una opera di finzione che faccia della stultitia un vero e proprio principio formale? In che modo la coscienza scissa dello squilibrato può fungere da asse intorno al quale costruire una narrazione? Domande che sembra lecito evocare in merito a Neuropa di Gianluca Gigliozzi, questo poema epicomico in prosa che affronta l’ambizioso tentativo di inscenare sub specie insaniae un’autentica indagine genealogica sulle radici della nostra civiltà europea.
Mi sia concesso, a scopo introduttivo, prendere una piccola deviazione per parlare di un altro testo che trova il proprio punto d’appoggio nel dominio delle patologie della psiche.
Zelig è uno strano ometto che possiede la stupefacente capacità di assumere le fattezze e i comportamenti di tutte le persone che lo circondano, di identificarsi con loro trasformandosi. In quel film (1983, W. Allen) si giocava abilmente con questa semplice trama, ibridando filmati di repertorio, interviste finte a personaggi reali ( Susan Sontag, Saul Bellow) e scene di fiction, grazie alla possibilità del testo filmico di accogliere materiali di diversa provenienza e farli coesistere lungo una sola linea narrativa. La patologia tutta moderna di cui è affetto Zelig si presenta non solo come “metafora dell’uomo di massa scisso tra conformismo e perdita d’identità”, ma anche come un dispositivo formale in grado di far cortocircuitare l’uniformità testuale, la coerenza e l’omogeneità linguistica di un opera: caratteri tradizionalmente ritenuti essenziali nella produzione letteraria o cinematografica.
Chiaramente, dopo aver mostrato come l’ipotesi di una follia mutante e camaleontica sia in qualche modo un presupposto alla base di entrambe le opere, ci si accorge come ogni ulteriore tentativo di comparazione sia davvero infruttuoso. Ma da questo accostamento posso ricavare un’indicazione utile: Neuropa che a tutta prima si presenta come un romanzo storico ( ma lo stesso autore ci ammonisce a non considerarlo tale) ci colpisce invece per il suo potere di suscitare inquietudine, di indurre il lettore in uno spaesamento esemplare, con l’intensità caratteristica di una certa tradizione ‘dis-topica’, che si può far risalire alla penna feroce e implacabile di Jonathan Swift e ai suoi Viaggi di Gulliver. Il romanzo storico si nutre dell’ambizione illusoria di ritrarre con la massima fedeltà un tempo trascorso, un luogo esistito, degli uomini realmente vissuti.
Al contrario questa diversa direttrice, il cui itinerario, nella storia della letteratura, segue un percorso sorprendente che si potrebbe ricostruire passando dal Don Chisciotte alla fantascienza novecentesca più critica e consapevole di discendenza wellsiana, si caratterizza per la sua capacità di stravolgere, piegare il dato storico e realistico da cui prende le mosse, alle esigenze della creazione artistica, con un effetto estraniante, di distanziamento che appare però tutt’altro che gratuito, ma animato da una precisa intenzionalità etica e (de)costruttiva. Cogliere l’estraneo nel familiare, rivelare il lato non immediatamente visibile degli eventi storici che sono alle nostre spalle e ci costituiscono, o del problematico presente in cui si conduce la nostra esistenza: è questo l’intento implicito di una serie di opere ascrivibili a questa “tradizione” alternativa, di natali pre-ottocenteschi, qualificata da una forte carica ironica e spesso noncurante della verosimiglianza del proprio discorso. La derealizzazione della bruta fattualità si accompagna in questo contesto a un’esigenza veritativa, che cerca nell’alterità (sia essa la dimensione psicopatologica, o il mondo fuori misura dei lillipuziani) un pungolo critico da rivolgere contro il proprio presente.
Con questa lunga premessa mi interessava circoscrivere l’ambito in cui collocare la mia lettura del romanzo di Gianluca Gigliozzi, una lettura che intende innanzitutto mettere a fuoco una serie di motivi e tematiche storico-filosofici. Tutta una serie di questioni che quest’opera solleva dovranno venir trascurate, data la complessità e la pluralità dei richiami in essa contenuti.. Non prenderò in esame la particolare attenzione rivolta- in funzione comica e grottesca- alle basse funzioni corporali, con la complementare preferenza dei dettagli descrittivi legati all’olfatto e al gusto, piuttosto che al senso della vista, egemone nella cultura occidentale. Non mi soffermerò, infine, sul tema politico, tra l’altro articolato in modo sottile ma esplicito, di una critica all’esprit revolutionnaire del 1789, e dunque delle sue propaggini in seno al XX secolo.
L’incipit del libro è folgorante nella sua capacità di coniugare rovesciamento ironico con l’eco precisa delle idee fondamentali che erano all’ordine del giorno nell’epoca di ambientazione del romanzo (XVII e XVIII sec., rapsodicamente alternati). Senza mediazione o prologo alcuno le prime frasi e i primi capitoletti mostrano- ma più corretto sarebbe dire fanno avvenire- questa sorta di nuova autofondazione dell’IO (o meglio di IO, un personaggio che porta il nome della questione che ogni romanzo, e non solo, è costretto inevitabilmente a interrogare), che mi ha fatto pensare subito ad una versione parodistica dell’ego cogito cartesiano. Parafrasando il prologo del vangelo giovanneo viene tirata in ballo un ulteriore questione, che si intreccia nel suo significato con la mia prima considerazione, a suggerirmi un rilievo importante: le parole che aprono Neuropa sembrano mettere in scena una sorta di nuovo ‘Inizio’. Il Secondo, dopo quello cristiano (il principio della Storia, e del vettore escatologico che la percorre sotto pelle…), da annotare nella carta d’identità del nostro occidente europeo. E dunque, è forse possibile cogliere nel corpo a corpo che IO- nel suo solipsistico delirio onnicomprensivo- è costretto a sostenere contro l’autorità religiosa e la sua cosmologia geocentrica, nello sgomento degli Altri di fronte alla passione di IO per il Dentro e l’Invisibile, una rappresentazione di quel processo di revisione generale dei valori e dei parametri del mondo umano, che la nascita e lo sviluppo della Modernità hanno avuto come presupposto imprescindibile.
In uno spazio narrativo astratto, avvolgente, e in qualche modo stilizzato, si realizza, sotto l’effetto di una lente caricaturale e buffonesca, lo scontro che nel XVII secolo si è svolto tra il nuovo spirito moderno e le scorie di un passato ormai in procinto di venir superato, ma recalcitrante al suo pensionamento. Autentico nodo gordiano di questo mutamento fu infatti l’avvento “dell’astronomia copernicana che, rimuovendo la terra dal centro del mondo e collocandola tra i pianeti, minò le fondamenta stesse dell’ordine cosmico tradizionale, con la sua struttura gerarchica e l’opposizione qualitativa tra regno celeste, sede dell’essere immutabile, e quello terrestre o sublunare, regno del mutamento e della corruzione”(Alexander Koiré, Dal mondo chiuso all’universo infinito). La drammaticità della crisi innescata dal collasso del vecchio finalismo antropocentrico e del corrispondente sistema del mondo tolemaico, ancorati all’autorità di Aristotele e insieme della Bibbia ( per es:Ecclesiaste: 1, 4-5; Giosuè: 10, 12), fu espressa forse nel modo più penetrante dalle celebri parole di B. Pascal (“Vedo quegli spaventosi spazi che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono qui piuttosto che altrove”, Pensieri, 194).
Il tormentato inventore della machine à calculer non a caso è presente in Neuropa, dove sono citati i suoi ipsissima verba (“Soltanto la Grazia può fare di un uomo un santo?” Pensieri, 508) insieme a quelli di pochi altri (W. Shakespeare, e P. Weiss): come gemme incastonate nella roccia che ci indicano un tema centrale, il cui riverbero si fa sentire per l’intero romanzo. Uno dei modi in cui l’uomo del XVII secolo ha fronteggiato il venir meno della sua dimora cosmica tradizionale è stato senza dubbio quel ritorno “in interiore homine” che è alla base del soggettivismo cartesiano, e della coeva nascita della scienza sperimentale (strettamente legata con il primo). La pascaliana dottrina della grazia e la rispettiva concezione della fede sono anch’esse una risposta al crollo dell’antico sistema delle idee, e nel contempo rappresentano un contraccolpo reattivo ai fermenti innovativi del nuovo evo moderno.
Ho fatto riferimento a soli pochi episodi, ma si potrebbe condurre una ricognizione completa lungo il romanzo, andando a scovare tutti gli elementi riconducibili alla sintomatologia tipica di questa svolta epocale.
Sia chiaro, IO si presenterebbe, seguendo la suddetta premessa, come un riflesso ghignante del cogito. Il suo alter ego abusivo che, lungi dall’essere, come l’originale, il centro di una qualche certezza metafisica, si lascia impegnare in un impressionante tour de force trasformativo, in un gioco di trasmutazioni di identità che frantumano la solidità (presunta) e la sicurezza inconcussa (faticosamente acquisita) del nuovo fondamento cartesiano. La Finzione (letteraria) ci fa forse intravedere ciò che nelle pacifiche ricostruzioni storiografiche è taciuto. Dietro l’IO e la sua compagna di viaggi “La Ragione” (strumentale, scientifica, la cui genesi è situabile precisamente nei due secoli che fanno sfondo all’azione), fa capolino il volto deformato della malattia mentale: come la faccia in ombra di un Giano Bifronte- nella religione romana il dio degli inizi, dei passaggi, delle soglie – di cui ancora facciamo fatica a sostenere lo sguardo duplice, ancipite.
2. Nella Seconda Parte, in cui IO fa spettacolo della debordante ricchezza figurativa della sua patologia, si dà inizio, con la complicità del DIVINO (il Marchese De Sade), internato assieme al protagonista nell’ospizio per matti di Charenton, al resoconto “teatralizzato” delle avventure di un frate Domenicano, nella Spagna in declino alla fine del XVII secolo.
Questi viene battezzato da IO con il suo stesso nome, cioè con quello che in realtà è un pronome, dunque un sostituto, un sembiante “fittizio”, una traduzione moderna di quel Verbo iniziale e creatore che apre la tradizione cristiana. Questo racconto però non cessa di interrompersi, di fratturarsi ogni volta di nuovo al suo interno, lasciando spazio a innesti speculativi e digressioni eteroclite, a incredibili gigantomachie (si veda il capitoletto intitolato La REPUBBLICA DEI NOMI) e allucinanti dialoghi tra uomini di scienza (si veda il capitoletto SITUAZIONE DEL GENIO 1692).
Da un lato, dunque, il romanzo prende in carico un progetto di ricostruzione genealogica (alla Foucault, per intenderci) ma dall’altro scampa il pericolo di apparire come la semplice illustrazione di una tesi preformata, mettendo all’opera un efficace dispositivo di depistaggio: si fa Struttura, Forma, in grado di ospitare diversi modelli testuali (epistole, trattatelli sui briganti, cronologie, eccetera), punti di vista alternativi; in grado di modulare il registro in cui di volta in volta si incarna la voce di IO, secondo una specifica attenzione alla polifonia delle idee/personaggi che popolano il testo. Tale caratteristica non sta certo a significare che dal romanzo non venga fuori un giudizio sugli eventi che in esso sono narrati; in molti punti è assai chiaro, come nel caso del Terrore giacobino. Allo stesso tempo, però, non c’è modo di rintracciare un principio valutativo univoco, prevedibile. E ciò succede, a mio avviso, per una ragione ben precisa: non possiamo fare a meno, nel leggerlo, di credere che quanto IO, il mattatore unico di questa storia, ci viene raccontando non sia che il delirio di un uno schizofrenico, il cui valore di verità è quanto meno discutibile. Si viene precipitati così in una sorta di sospensione, di epoché scettica, che ci prepara a una “partecipazione disincantata” con quanto viene allestito sulla ribalta. Levato il sipario, le idee capitali che hanno scandito il passato dell’Europa ci scorrono davanti, e una ad una vengono vagliate, sezionate e rovesciate. Su questa passerella un’Epoca storica si fa teatro, si inscena la danza delle anime perdute, di quelle condannate (Robespierre), ma anche di quelle redente (Newton, per esempio, la nostra cultura lo annovera orgogliosamente tra i suoi progenitori). Gli spettri, i fantasmi che tornano periodicamente a visitarci nel nostro presente (come dire: de te fabula narratur), si agitano furiosamente, si sovrappongono, si allontano dalla loro reale figura storica, per assumere un’apparenza fantasmatica e surreale. Quella “capacità di accogliere gli altri generi” come condizione affinché si conquisti “ciò che solo il romanzo può scoprire”- e qui mi appello all’autorità di Milan Kundera, al suo scritto L’arte del romanzo– funziona esemplarmente in Neuropa.
La natura proteiforme del protagonista è riflessa nell’architettura formale del testo, in quella “macro-struttura” che soltanto legittima una così complessa e frastagliata morfologia di problematiche e di riferimenti alla cultura e alla situazione storica dell’Europa. La forma dell’arte non imbriglia, non opprime il turgore della vita, che in essa trova dimora e viene a linguaggio; il flusso irredimibile e intestimoniabile dell’insania è accolto nella scrittura, grazie a uno stile dal ritmo battente, sussultorio, e in pari tempo organico nell’articolazione dell’azione. Non ci sono prolissi resoconti psicologici, così come alla descrizione minuziosa e pedante è preferita l’accumulazione e l’intensificazione dei dettagli (un esempio in cui sulla scena c’è il DIVINO:“uno ritorna al bianco sprofondo─l’altro ritorna al nero abisso, in cui sono caduti tutti i suoi giorni e gironi, prigioni e sciagure, torture e furie, occhi, e uncini e chiavistelli─dietro pareti e sbarre e ferri, a sognare corpi tesi al bene proprio, corpi liberi godenti”). Questa scelta stilistica si dimostra particolarmente efficace, dal momento che induce il lettore in uno stato di sospensione costante, lo ferma in un’attesa che si scioglie piacevolmente nelle conclusioni epigrammatiche e spesso sentenziose dei capitoletti.
3. Dopo aver messo in rilievo alcune questioni, a mio parere cardinali, intendo concludere con un’ulteriore osservazione. Se si accetta l’assunto, alla base della mia proposta ermeneutica, per cui lo status di IO è quello di una concrezione storico-ideale fatta persona, incarnata, si può arrischiare una lettura di Neuropa come un atipico Bildungsroman. Ecco allora che esso non ci mostra, secondo quello che sarebbe stato un modello compositivo più conservatore, ciò che avviene sul più vasto teatro della Storia attraverso il percorso intimo di una singola coscienza. Ma è lo stesso Soggetto Moderno a divenire l’attore sulla scena, a scendere dall’empireo delle forma astratte solidificandosi nei panni di una personalità concreta, sia pure dissociata. Non a caso proprio alla fine il protagonista ricorderà il suo nome, sciogliendo l’incognito che in tutta la storia grava su di lui, e non a caso solo allora, rinsavendo, comincerà una vita normale, dando luogo a uno stuolo di discendenti (presentati sinteticamente nella genealogia conclusiva) i cui destini appaiono come embricati alle sorti stesse dell’Europa a venire. La lenta evoluzione e la progressiva acquisizione di consapevolezza che il protagonista del romanzo di formazione tradizionale compie, il più delle volte nel chiuso del suo foro interiore, è qui però del tutto assente, se non addirittura capovolta nel suo significato: la guarigione coincide forse con l’oblio in cui lo spirito europeo seppellirà la sua sorella malnata, la follia. La prospettiva di crescita che balenava nel romanzo di tradizione borghese e ottocentesca, da cui Neuropa prende esplicitamente le distanze, è ormai venuta definitivamente meno.
Occorre adesso far presente ( come del resto è già stato fatto da altri lettori) la singolare ‘somiglianza’ strutturale- la scansione triadica, ma simultaneamente aperta e imprevedibile al suo interno- e tematica con quello che a buon diritto è stato considerato il grande romanzo di formazione della nostra Modernità, la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Si tratta di una vicinanza parziale, naturalmente, ma ciò non impedisce di sottolineare un fatto assai interessante. Nel 1807, quando il maestro del pensiero dialettico apponeva le ultime parole a sigillo del suo capolavoro filosofico, Napoleone Bonaparte, figura estrema di quella parabola moderna che è al centro dell’opera che ho finora analizzato, riportava la sua vittoria definitiva sulla Prussia orientale. Non sembra arbitrario notare come anche in quel contesto si esprimeva un giudizio critico sulla Francia rivoluzionaria, e sulla fase del Terrore, letto appunto come culmine di una concezione astratta della libertà. A tale proposito, per avere un’impressione immediata di quanto si sta qui dicendo, si leggano nel GLOSSARIO di Neuropa le voci TERRORE e LIBERTA’: rispettivamente “macchinario semimessianico che taglia teste di oggi e salva corpi di domani” e “Mutevole astrazione della mente umana utilizzata per concepire, in modo più corporeo della mutevole SPERANZA, un livello di vita più decente di quello in cui si sta affondando al momento”.
Nel tentativo di abbracciare l’intero percorso di formazione della Modernità, per esibire le “storture e le opacità del presente”, Gigliozzi ci offre la possibilità di gettare un’occhiata nel fondo del fiume che ha condotto fino a noi: fa questo, però, con la forza etica e lo scrupolo un po’ dispettoso di un illuminista dei nostri tempi.
In “La libido, simboli e trasformazioni” di C.G.Jung, il primo capitolo (dopo l’introduzione) si intitola “Sulle due forme del pensare”: “[..] Abbiamo quindi due forme di pensare: il pensare regolato e il sognare o fantasticare. Il primo lavora per la comunicazione, con elementi linguistici, ed è faticoso e spossante. Il secondo invece lavora senza sforzo – per così dire, spontaneamente – con le reminiscenze. Il primo crea nuove acquisizioni, adattamenti, imita la realtà e cerca di agire su di essa. Il secondo si allontana invece dalla realtà, libera i desideri soggettivi, ed è del tutto improduttivo per quanto riguarda l’adattamento.”
Io spero che Nazione Indiana non stia scivolando, pian piano, in un clone di Vibrisse, ovvero che la sua anima “letteraria” non diventi totalizzante, rinnegando il tentativo di porsi (faticosamente) al crocevia di saperi e linguaggi differenti. Vedo infatti un prevalere pressoché incontrastato (con l’eccezione, forse, di Tashtego) del “pensiero associativo”, particolarmente impressionante in Magda, ma dominante anche in Georgia, per non parlare degli indiani “veri”, che sono quasi sempre dei letterati. Mi sembra quindi che si configuri una totale sproporzione nella composizione dei saperi, che fa implodere il discorso su se stesso: ci si compiace dell’intrico, della ricchezza dei riferimenti culturali e della sensibilità di sentimento, ma si rimane sempre lì, al punto di partenza: altri materiali verranno proposti, altre chiacchiere seguiranno, ma nessun nuovo sapere si consoliderà, perché il gioco si configura in termini di erudizione e sentimentalismi che non portano ad alcuna “selezione”, ma semplicemente all’accumulo e all’oblio (si veda la celebrazione totalmente acritica, e quindi inutile, di Deleuze).
Infine il pretesto:
>”Che cosa può cercare di svelarci sull’Uomo, sulla Storia, una opera di finzione che faccia della stultitia un vero e proprio principio formale?”
Io penso che questo “saggio” – quasi paradigmatico – sveli già abbastanza, tanto di sé quanto dell’opera, mentre Uomo e Storia mi sembrano decisamente “out of scope”.
Su questo articolo, con cui mi si rende felice perchè rientra tra “mappazzi” saggistici molto Pulp che tanto prediligo, potremmo stendere dei trattati, riflessioni, viranti tra l’ epistemologia delle scienze umane, le arti in genere e la declinazione di tutto questo presso il sociale e il politico, come Andrea ha fatto molto bene anche nel precedente pezzo sulle periferie francesi.
Il grande padre Sigmund, ha lasciato a tutti noi il compito di superarne l’acutezza e la limitatezza, pertanto, tutta la psicologia sociale ed evolutiva successiva, mi riferisco a Wilfred Bion, Winnicot, John Bowlby, Melanie Klein, aprono enormi orizzonti ermeneutici sulla comprensione umana.
Le aperture anche nello stile di vita personale mi hanno permesso di innescare sinergie su qualsiasi fronte, impedendo la specializzazione di cui ho orrore, ma permettendo scambi e arricchimenti su ogni fronte, allenando la mente a letture esistenziali di tipo “sintomale”.
Potrei quindi esemplificare l’individuo dalla stupidità naturale refrattario all’intelligenza arficiale.
Vorrei orientarmi verso comprensioni e descrizioni dei disagi emotivi in modi meno ghettizanti e patologici quali oggi sono delineati nel senso comune.
Wowo, è come se mi avessi portato qui http://www.turisanda.it/viaggi/pdf/sogno/134_143_dubai.pdf
o qui http://www.globalgeografia.com/album/tonga.htm
OT: ieri sera ho portato mia figlia di 7 anni a vedere “la tigre e la neve”.
Trovo il lirismo poetico di Benigni, benchè mutuante retoricamente la figura nota del Pierrot, piuttosto che quella di Charlot, veramente universale, un linguaggio adatto a tutti coloro siano in grado di cogliere manifestazioni di sensibilità.
Totalalmente esente da concettualismi o da metadialoghi, si riduce al puro semplice sentire giocoso mirante la comprensione anche di un bimbo.
credo che questo sia un grande valore comune a pochissimi artisti.
Aspe’ Wowo, per capire bene cosa vuoi dire con
“ci si compiace dell’intrico, della ricchezza dei riferimenti culturali e della sensibilità di sentimento, ma si rimane sempre lì, al punto di partenza”
Praticamente bisognerebbe essere più cattivi, fare critica, vivisezionare ecc ecc, un po’ come quando Andrea Inglese aveva criticato un certo discorso autoassolventesi sulle merci? (è solo un esempio per capirci).
Cioè insomma bisogna fare più “legna” (è un modo di dire delle mie parti, insomma andarci giù più duro, ecco).
Ho interpretato troppo grossolanamente Wowo?
mi dispiace mettere qui un OT e me ne scuso.
Ho già messo in bacheca ma siccome è poco frequentata mi ermetto di postarlo anche qui:
per quelli di milano e roma
Domani lunedì 14 e martedì 15 sit-in per protestare contro l’uso a falluja del fosforo bianco.
Lunedì 14 novembre ore 16.00
Sit – in presso Ambasciata Usa a Roma
via Veneto
Martedì 15 novembre ore 18.00
Sit – in di fronte al Consolato Usa a Milano
via Durati – L.go Stati Uniti d’America –
[…]
Per ulteriori adesioni: stampa@unponteper.it; castagnini@arci.it
——
L’appello dei promotori per intero lo potete leggere nel mioblog
caro wowoka il discorso che fai mi sta molto a cuore, anzi è per me fondamentale, sopratutto in un contesto come questo; ma se hai seguito NI dovresti già saperlo, visto che molti pezzi miei o che posto vanno nella direzione da te auspicata; detto questo NI è un blog sopratutto di scrittori, ed ha quindi un’attenzione verso il fatto letterario che è legittima
(nel caso specifico, l’analisi di Poccia si riferisce ad un importante romanzo di esordio, come da noi se ne contano sulle dita di una mano, di un autore troppo poco conosciuto, Gigliozzi appunto, che è per altro pubblicato per una coraggiosa ma piccola casa editrice; cosa vuol dire questo? Che come ha ben detto Barbieri in suo post, NI non vuole essere un blog di “attualità letteraria” come i miserabili o lipperatura, ecc. Quando qui si fa attualità letteraria, c’è sempre un motivo forte. Poi magari uno puo’ dissentire, pensare che il romanzo di Gigliozzi non sia importante, ecc. Ma non puo’ ignorare il significato del gesto)
Avrei molto altro da aggiungere, sul discorso scrittore-letterato saperi-pseudosaperi, ecc. Una sola cosa, in un articolo del ’71 sulla funzione degli intellettuali (tieni presente la data), Fortini scrive: cosa s’intende che l’intellettuale deve rivolgere le sue energie alla “prassi”? Volantinare davanti alle fabbriche? Picchiarsi con i questurini? Scrivere un libro, o un articolo, questo è “prassi”. (Per ora non esplicito oltre, senno’ non finisco più…)
E su questo io vedo un enorme equivoco, quasi onnipresente nei lettori (e forse non solo…) Da un lato, ci sono quelli che si scandalizzano quando uno parla di politica estera statunitense, ateismo militante, quarto oggiaro, centri di detenzione per immigrati, analisi dei media, ecc., e urlano “come vi permettete voi, che non siene tecnocrati, specialisti plurititolati, di esprimere un’opinione, un punto di vista sulla “realtà”? Avanti, a ritornte ad occuparvi di “letteratura”, che è la sola cosa di cui potete dirvi, al limite, esperti”. E chi dice questo è già fottuto, ma nella vita… E’ già servo senza saperlo… L’altra attitudine, è quella di chi dice: parole, parole, parole… Sono discorsi che non servono a nulla; qui c’è bisogno di altro… (e lasciano ovviamente nell’indeterminato il piano alternativo per la salvezza del pianeta…)
detto questo: NI ha pubblicato ultimamente frammenti di Debord, che solo a leggerli seriamente dovrebbero sconvolgere l’intera visione “ingenua” del mondo in cui viviamo… (infatti su Debord, come sulle analisi delle nuove forme di produzione capitalistiche – vedi Pantaleo – silenzio tombale… un silenzio che potrebbe avere anche qualcosa di buono…) poi ben due articoli che, in momenti diversi, hanno spinto molti commentatori a discutere di un tema assolutamente fuori moda: le classi sociali… Un abbozzo di analisi della situazione francese e del rifiuto dell’immigrato africano, che ha subito scatenato reazioni difensive… ecc. ecc.
infine “la celebrazione acritica e quindi completamente inutile di Deleuze” e qui scusa c’è la pura e semplice cazzata: 1° ti sei proiettato nel futuro?
2° presentare in Italia per la prima volta una lunga intervista a Deleuze, sottotitolata è inutile?
3° la gente che fa NI, lavora anche, mangia, fa l’amore, dorme, e quindi non sempre ha tempo di fare pure il pezzo su Deleuze, quello di commemorazione “critica”; in Italia, dove c’è stato un periodo di isteria Deleuziana, adesso tutto tace, Deleuze è ritornato sulle scrivanie dei filosofi-filosofi, e da li non si muove… Forse è meglio farlo incontrare anche a dei non-specialisti, o no?
La gente che legge NI mangia, fa l’amore, dorme, ma soprattutto lavora anche lei e pure troppo – per quanto mi riguarda – in quello che si potrebbe chiamare “il mare dell’inessenzialità”, quello che mette l’acqua alla gola mentre spinge alla deriva; forse anche per questo non è sempre facile seguire il filo rosso – ma proprio rosso – che tiene uniti la maggior parte dei pezzi pubblicati e che tu, Andrea, metti bene in evidenza nel tuo commento. Pantaleo, per esempio, io l’ho stampato da giorni e, dal momento che non ho intenzione di dedicarvi un’attenzione estemporanea, ancora non sono riuscito a leggerlo; a quanta gente accadrà la stessa cosa? E quanti altri sono costretti, come in libreria, a “selezionare” i post da leggere con attenzione perché sono fisicamente, umanamente impossibilitati ad approfondire ogni cosa e ogni sapere? Io a volte mi chiedo dove trovino il tempo, la concentrazione e la profondità tutti coloro che, con ammirevoli tenacia e costanza, procedono di discussione in discussione, sempre presenti, sempre o quasi intelligenti, e mi domando: ma cosa fanno questi, per mangiare? Quando lavorano? E quando dormono? E quando fanno l’amore? E che cosa si aspettano?
Comunque, la riflessione di Wowoka, voglio credere, è tutt’altro che improvvisata e altrettanto poco riducibile al post sotto la quale è stata scritta. Se non altro perché sono d’accordo, in linea di principio, con quanto dice Andrea su “Neuropa” – e anzi, ne approfitto per dire a Gigliozzi, di passaggio, che il romanzo è arrivato: pensiero associativo e privatissimo, questo è vero, ma senza nessun compiacimento né riferimento culturale. Se non altro.
Su Debord ci sono stati interventi molto belli a radio popolare proprio settimana scorsa a cura di Bruna Miorelli.
E’ un argomento veramente molto vasto e forse non si osa intervenire data la consapevolezza dell’approssimazione a riguardo.
Anche a me capita di stampare i pezzi e di leggerli “dopo”. Ma ha detto bene Magda: ci sono argomenti che fanno sembrare ridicoli i commenti di un dilettante.
Avevo composto off-line una risposta per Andrea Barbieri, che vi propongo riservandomi di riflettere con maggior agio sui commenti successivi, che vedo soltanto ora e mi sembrano ricchi di interesse.
@Andrea: sì, intendevo anche qualcosa del genere. Io spero che N.I. vada ad assestarsi su di una “equazione” differente da quella di Vibrisse, sito utile e rispettabile, s’intende, ma che subordina, a mio modesto parere, la dimensione critica a quella promozionale, ponendosi principalmente come luogo di appassionati di letteratura, che ne accettano implicitamente i presupposti e si predispongono quindi in un atteggiamento, diciamo così, abbastanza “caritatevole”.
Per N.I., che ha sempre assunto un profilo più alto (o pretenzioso) io auspico invece un ambiente più “darwiniano” nei confronti delle idee che vengono presentate, anche se è certo difficile colpire le idee (per provare a “validarle”) senza schizzare qualcosa in faccia alle persone che le sostengono. Temo dunque il ripiegamento della dimensione letteraria (e più in generale della cultura umanistica) su se stessa, che si traduce in una nebbia indistinta di “anything goes” e pacche sulle spalle da specialisti-complici. Ci vorrebbero, forse, un numero maggiore di “scienziati” scettici, per ricreare un po’ il clima di certe guerre culturali che secondo me non hanno ancora detto tutto quanto avrebbero potuto. Questo almeno mi è stato suggerito dal testo in questione: esso proietta su di un’opera di narrativa delle valenze conoscitive che si riservano di norma, e persino con maggior pudore, ai grandi capolavori della letteratura. Che una simile celebrazione si operi adesso preventivamente, anche su degli esordienti (vedi il caso di Colombati e Piperno) conferisce, a mio modo di vedere, a tutto il contesto un certo sapore di farsa, di parodia, che non so se sperare che sia consapevole o il contrario. Intendiamoci, non c’è nulla di male nelle promozioni, e posso anche concordare sull’opportunità, in tale contesto, di “spararle grosse” (vedi il modello “non plus ultra” costituito da D’Orrico sul Corriere Magazine) però, come in TV, sarebbe più corretto enfatizzarne l’occorrenza, magari creando una apposita categoria di “promozione letteraria”.
un modo perchè l’associazionismo e i buoni sentimenti non rimangano pixell in archivio, è quello di darsi dei temi dei piani di lavoro indirizzati svolgere domande specifiche.
Si rimane nel vago perchè non c’è un progetto specifico, mi pare, quantomeno non si è focalizzato.
Se voi di NI auspicate che cio’ avvenga, di volta in volta si potrebbero puntare a dei “fuochi” argomentativi su cui tutti gli interventi vertano,
un filo conduttore tematico, ma è solo banale chiacchera da ospite dell’ultima ora eh….
Concedete la libertà a chi si trova obiezioni contrastanti tipo: eccesso di zelo e appossimazione, di fare un po’ come gli pare?
refusi:
virgola dopo temi
si potrebbe anzichè potrebbero
Il pezzo di Pantaleo me lo sono stampato e aspetto la forza per leggerlo.
Magari è brutto, oppure è bellissimo, non so.
Però so di sicuro che qui è fuori target.
Riprendo il “pronunciamento wovoka” per aggiungere un paio di cose.
La prima è che non credo che qui si possa cumulare alcunché, né che questo sia un compito di NI, che casomai è quello di far circolare materiale, di ogni tipo, capace di *aiutare* ognuno di noi ad identificare il mondo in cui viviamo, ivi compreso il mondo culturale letterario editoriale eccetera, ivi compresa l’identificazione della condizione intellettuale per rapporto all’organizzazione sociale/economica in cui ciascuno di noi si muove ed opera.
La messa in comune di documenti, analisi, scritti, fiction, versi dovrebbe servire a appunto a questo, niente di più o di meno.
La seconda notazione riguarda la natura dei materiali postati che attualmente spaziano tra, metti, il saggio di Pantaleo e il miniracconto di quattro righe sul vizio del fumo.
Il saggio di Pantaleo è impegnativo e tecnico, mi pare, forse troppo per la fruizione webbica, anche se nulla vieta di stamparselo e studiarselo con calma – e però non ci si può lamentare della mancanza di commenti, se nel frattempo è slittato fuori di vista sotto la spinta degli altri post sopravvenuti.
Il micro-racconto è troppo inutile, all’estremo opposto, nel senso di troppo fatuo per generare attenzione e interesse.
Tra questi due estremi c’è un po’ di polpa buona e ben misurata sul web, che vuole sintesi e ficcanza, asciuttezza, brevità: credo.
Tra le due l’una: o gli Indiani titolari si auto-limitano e auto-regolano nei post, sparando qui solo quelli adatti a questo luogo, oppure li si lascia alla mercé della competizione darwiniana nel guadagnarsi l’attenzione e i commenti degli adepti.
Ferma restando la possibilità di mettere qui materiali anche tosti, ma non pretendendo che siano trattati allo stesso modo degli altri, più “deboli e leggeri” e commentabili (anche se devo confessare di aver lavorato molto in alcune sequenze di commenti particolarmente dense e a partenza “leggera”).
Quanto ai temi, cioè all’oggetto dei materiali, rimando ad altri la quaestio.
caro Wovoka stavolta concordo, diciamo, su tutto; e anche con le critiche al pezzo di Poccia, che corre i rischi che tu individui; ma la critica militante, su di un esordiente anomalo come Gigliozzi, è difficilissima: perché dovrebbe giocare tutto a raggio corto, sui dintorni letterari, che sappiamo pero’ essere esplosi e frastagliati; ma l’artiglieria pesante messa in campo da Poccia offre comunque delle chiavi valide per entrare in “Neuropa”, che non è un romanzo alla Piperno…
si Magda, anche per me, come ho già detto in altra occasione (Piccola utopia di rete), il non-commentare è spesso un buon segno…
1) tash dice:
“La prima è che non credo che qui si possa cumulare alcunché, né che questo sia un compito di NI, che casomai è quello di far circolare materiale, di ogni tipo, capace di *aiutare* ognuno di noi ad identificare il mondo in cui viviamo, ivi compreso il mondo culturale letterario editoriale eccetera, ivi compresa l’identificazione della condizione intellettuale per rapporto all’organizzazione sociale/economica in cui ciascuno di noi si muove ed opera.
La messa in comune di documenti, analisi, scritti, fiction, versi dovrebbe servire a appunto a questo, niente di più o di meno.”
Parole sante, Tash. Io credo che sia proprio questo. Offrire strumenti e, nello stesso tempo, metterli alla prova. Alla prova degli altri interventi, alla prova del dialogo, delle reazioni, ecc.
2) io sono dell’idea di non limitarsi a “pezzi” formato rete; benissimo fare pezzi del genere, ma non solo; altrimenti anche questo diventa un modo di autofotterci; io credo negli incontri, e a volte gli incontri si realizzano nella forma dell’intralcio, dell’ostacolo, della bieca resistenza; impossibile dire come e a chi servirà il pezzo di Pantaleo (in realtà conosco già chi vi si è gettato sopra goloso e silenzioso…), ad esempio
non stigmatizzavo quindi per nulla i silenzi sotto Debord e quanto ho scritto sotto, dovrebbe essere integrato dalla pudicizia di fronte ad un saggismo altamente straniante o molto tecnico…
da “Piccola utopia di rete”
“Di fronte a racconti puri, a testi poetici, a brani di romanzo, sorge spontaneo un evidente riserbo: il numero di commenti si riduce a poco, a volte a nulla. Un provvidenziale moto inibitorio impedisce non tanto facili reazioni, ma l’espressione di queste. Una pudicizia del lettore di fronte alla percezione che il testo propriamente letterario resiste all’appropriazione. Non si scioglie in idee. Blocca l’impeto alla divagazione. E questo non perché le catene associative scarseggino nella mente delle lettore, ma perché formano aggregati troppo instabili, che una seconda lettura richiederebbe di correggere e orientare diversamente. C’è forte il sentimento di una comprensione “provvisoria”, l’impressione che addirittura sia sfuggito ciò che più conta.
Il contrario accade con lo scritto saggistico, il pezzo d’inchiesta, l’intervento polemico: qui i lettori istintivamente si prestano al gioco, e d’impulso: la struttura formale del testo è d’un balzo scavalcata verso l’oggetto sociale, e le idee che intorno ad esso si affollano.”
@ Wovoka.
” Io spero che N.I. vada ad assestarsi su di una “equazione” differente da quella di Vibrisse, sito utile e rispettabile, s’intende, ma che subordina, a mio modesto parere, la dimensione critica a quella promozionale, ponendosi principalmente come luogo di appassionati di letteratura, che ne accettano implicitamente i presupposti e si predispongono quindi in un atteggiamento, diciamo così, abbastanza “caritatevole”.”
Sei ingiusto nei confronti di vibrisse. E’ vero che predilige la letteratura, ma non è vero che il suo contenuto sia del tipo promozionale. Può succedere che si parli di libri usciti freschi di stampa, come accade anche in NI, ma spesso si aprono dibattiti su temi che attengono la letteratura e il romanzo in particolare.
Sono un lettore di NI, di Lipperatura e di altri blog, tutti differenti l’uno dall’altro, e che seguo con pari interesse, trovando su di un blog qualcosa che manca all’altro, completando così il mio desiderio di conoscenza e di approfondimento.
Su vibrisse posto anche, settimanalmente, alcune mie letture di romanzi, nei limiti delle mie possibilità, ovviamente, e posso assicurare che l’aspetto promozionale è assolutamente assente dalle mie intenzioni. Di solito parlo di testi usciti molti anni fa, e in molti casi dimenticati, sperando di fare cosa utile nel momento in cui si discute dove stia andando il romanzo di oggi. Qualche volta metto in fila romanzi del passato che hanno messo al centro soggetti comuni, come Napoli, ad esempio. Qualche volta scrivo di romanzi di autori maiuscoli perché si torni a ricordare la loro lezione.
Non so quanti di NI mi leggono su vibrisse, ma basta andare sul motore di ricerca, mettere il mio nome e vedere il mio lavoro che, avendo ormai molti titoli, può già dare la visione del mio intento.
Bart
@Andrea Inglese: bene, provo a completare il chiarimento spiegando la mia cazzata su Deleuze. Mi sembra opportuno premettere che la mia critica non era rivolta a N.I. intesa come lavoro (apprezzato, come dimostra il fatto che prediligo operare qui) dei suoi redattori – lavoro sul quale non accampo “pretese” di alcun genere, ma a quella N.I. più estesa che comprende i commentatori già presenti e quelli potenziali. Così è scontato che la proposizione di un’intervista di Deleuze sia un atto in sé positivo, il mio appunto riguarda il “VIVA DELEUZE!” che vedo emergere complessivamente (anche eseguendo un certo zoom-out sui dintorni in rete) che ho trovato acritico in quanto principalmente “affettivo”, come dire, un saluto commemorativo da parte di chi ha Deleuze ben inserito nel proprio background culturale. A me sarebbe piaciuto che la discussione avesse approfondito le ragioni che renderebbero opportuna una maggiore presenza delle idee (quali tengono ancora? è possibile, o opportuna, una “ripulitura” dalle incrostazioni “storiche”?) di Deleuze oggi, opportunità tutta da argomentare. Ragioni che magari lo scagionassero pure dalle accuse di oscurità strumentale che emergono da “Frodi Intellettuali”, tanto per fare un esempio, accuse che per la comunità letteraria non esistono, ma che su quella scientifica una certa impressione l’hanno certo prodotta. Se ci poniamo davvero in un’ottica interdisciplinare, allora bisognerà trovare delle formulazioni più caute, che possano rendere giustizia ai diversi criteri di razionalità operanti in ambiti diversi senza pretendere che esista un punto di vista privilegiato con dei diritti acquisiti. E questo mi sembra particolarmente importante ai fini dell’agganciabilità di una prassi concreta alla riflessione teorica.
@Bart. Mi dispiace che il mio “promozionale” abbia assunto delle connotazioni negative che non erano nelle mie intenzioni. Ho frequentato Vibrisse, l’ho “sondato” a lungo con i miei metodi, e posso dire che la promozione non è certo intesa nell’ottica di “far denaro” ma di amore per la letteratura. Un amore che tende a sfumare su certi aspetti, ad attutire i contrasti, ad abbracciare piuttosto che giudicare. I tuoi interventi là li ho trovati sempre intelligenti ed evidentemente disinteressati, ma includono anche dei presupposti che a me non interessano, come l’opportunità di sostenere la piccola editoria o di incoraggiare gli esordienti, che possono finire per “attutire” un po’ troppo i giudizi, ovviamente per i miei gusti. Quindi “Viva Vibrisse!”, sperare (non pretendere) che Nazione Indiana non ne diventi una replica è semplicemente amore per la bio-diversità.
Carissimo Wovoka, in merito all’attitude di Nazione Indiana rispetto a Deleuze stavo per rispondere quanto detto da Andrea. Tu gli hai risposto ed hai chiarito i miei dubbi. Per quanto riguarda Il nostro Deleuze quello che stiamo organizzando con Andrea è proprio questo. Aprire un campo di discussione attraverso l’opera Abecedaire, per poi tentare un lavoro di approfondimento critico ma non solo. Magari da queste pagine.
In seguito scrivi:
“Ragioni che magari lo scagionassero pure dalle accuse di oscurità strumentale che emergono da “Frodi Intellettuali”, tanto per fare un esempio, accuse che per la comunità letteraria non esistono, ma che su quella scientifica una certa impressione l’hanno certo prodotta”
Conosco bene quel libro di Alan Sokal e Jean Bricmont e per un certo periodo ho studiato una marea di libri sulla questione e del dibattito molto italiano incentrato sul “conflitto delle verità” ovvero la guerra tra analitici e continentali. pubblicato in uno straordinario fascicolo dal sole 24 ore
A questo link del resto
http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/020426e.htm
si può trovare di tutto sulla discussione. Uno sicuramente tra i migliori interpreti di un pensiero che se ne frega dei distinguo, Ian Hacking. A me l’operazione di svelamento dei due non è piaciuta, alla maniera di the great Post modern swindle per parafrasare i sex pistols. L’attacco a Deleuze Guattari, ma bisogna mettere anche Foucault e soprattutto Derrida, mi ricorda quella modalità tutta americana di attacco preventivo. Comunque sia è una storia molto lunga e complessa. Domanda. Vogliamo affrontarla su NI? Riproporla? Oppure semplicemente pubblicare dei testi magari poco conosciuti di Deleuze (e anche altri) per tentare di avere chiavi interpretative della realtà di cui abbiamo un po’ bisogno. Non lo so. Per il momento prepariamo Milano. Ci sarai il ventisei?
effeffe
Wovoka, secondo me la gran parte dei commenti sul “Sillabario” di Deleuze è andata fuori tema.
E la ragione principale del “parlar d’altro” credo stia proprio nell’insufficiente conoscenza di Deleuze (ci metto me stessa per prima).
Probabilmente la tipologia delle reazioni ai pezzi di N.I. è da aggiornare. Non c’è solo il silenzio come possibile riscontro al troppo “difficile”.
C’è anche il parlar d’altro o il cazzeggio.
Forse sei tu il commentatore che ne sa di più di Deleuze.
Magari potresti spiegare (però parla “semplice” :-) le ragioni delle tue riserve.
Vorrei solo dire che Wowoka mi ha letto nel pensiero e anche Emma. Io di deleuze so piochissimo e non lo capisco. Ho letto solo Critica e clinica e Logica della sensazione. Letto ma ripeto non capito, ne sono uscito solo suggestionato. Mi rendo conto che Deleuze è importante, ma anche che è troppo difficile per un non specialista avvicinarsi ai suoi libri. Occorre credo la vostra preziosa mediazione.
io ricordo che c’è il filosofo della piega, quello dello sguardo e quello della soglia.
Non so quale dei tre è Deleuze.
anch’io, nonostante una formazione di filosofo, faccio molta fatica con Deleuze; e non sono un deleuziano, anche se alcun cose che ha scritto le ho capite e mi hanno aperto la mente; rileggendo oggi alcune cose, dopo anni che non lo prendevo in mano, lo trovo incredibilmente ricco e suggestivo; ma per quanto mi riguarda un lavoro di delucidazione su Deleuze è improponibile; la proposta dei Sillabari va invece in un’altra direzione: quello del puro avvicinamento al pensiero di Deleuze tramite una forma più “amichevole”; i sillabari forniscono lampi, anche per qualcuno che non deve per forza avere una frequentazione assidua della filosofia e dello stesso Deleuze;
se poi qualcuno ci si mette, a fare il percorso che propone Wowoka, tanto di cappello
Caro ff, verrei a Milano davvero volentieri se non vivessi così distante ed inchiodato al suolo dalle circostanze. Sulla questione delineatasi attraverso Deleuze, mi piacerebbe che alla fine passasse l’idea di un “doppio registro”: da una parte il rispetto dell’autonomia e delle competenze specifiche, legate alle irriducibili dinamiche dei singoli campi, che sia però compensato da una piena coscienza che, nel momento in cui dal campo si esce, rivolgendosi all’esterno (ovvero verso gente diversamente formata) è necessario uno sforzo aggiuntivo ed un atteggiamento differente, evitando tanto il ricatto delle reciproche ignoranze (lo “studia prima di parlare”) quanto l’atteggiamento paternalistico (quando non addirittura terroristico) di chi si ritenga depositario del punto di vista sui punti di vista (NB: non sto alludendo a nessuno, sia chiaro). La mia conoscenza di Deleuze è elementare, ma anche un modello elementare può risultare più o meno adeguato, ed esso andrà messo costantemente alla prova, per ampliarlo, correggerlo ed articolarlo secondo necessità. Quello che non è affatto scontato è che la costituzione di un simile modello fino al suo massimo dettaglio sia un presupposto necessario a capire il mondo o aver diritto alla parola, in questo occorre essere molto cauti. Dal mio punto di vista, dipanare attraverso Deleuze la differenza tra fascinazione (che non nego) e comprensione (che anch’io non riscontro se non in piccola parte) rappresenterebbe una occasione importante verso molte dimensioni, che trascende di molto la questione dei meriti di Deleuze o del tifo per gli analitici o per i continentali. Così penso che non sarebbe proprio male ripartire da “Imposture Intellettuali”, lavoro che aldilà delle ingenuità e delle grossolanità che inevitabilmente può mostrare da uno specifico punto di vista (noterei però che Foucault ne rimane sostanzialmente illeso) apre (non certo chiude!) una problematica sempre più essenziale, anche per le sue implicazioni in campo politico (d’altra parte Sokal e Bricmont si professano “leftists”). Tra il “linguaggio primario”, il diritto al delirio e al misticismo dell’arte, della poesia e della letteratura, e il sapere che si concretizza in una prassi politica, ci vuole secondo me un passaggio mediato dalla ragione (che non va retoricamente caricaturizzata riducendola a qualche assurda logica formale) quel passaggio critico e faticoso di cui ho l’impressione si preferisca a volte dimenticare la necessità, soprattutto quando lo scontro tra i “memi” si appiattisce sulla dimensione del marketing.
Carissimo Wovoka, condivido molto se non tutto di quanto hai appena detto. Sulla questione analitici continentali ricordo di avere alla fine delle letture e ti assicuro che John Searle (polo analitico) è enigmatico quanto Derrida (polo continentale) optato per delle figure moderate ovvero epistemologi e logici vicini alla tradizione continentale e viceversa. Iacking è uno di questi ma citerei anche Ferraris, e molti altri d’area americana. Le questioni sollevate sono di tristissima attualità. perfino il papa e i suoi ortodossi attaccano il post moderno come padre di tutti i relativismi etici. Per cui da un lato ti ritrovi (anzi non ti ritrovi) con gli ultraortodossi della logica razionale sul modello del Circolo di Vienna (Otto Neurath, il primo Wittgenstein, insomma un po’ come Tashtego, ma il nostro Tash è più luminoso) essenzialmente americani, o con gli ultra relativisti (Pensiero debole, Vattimo, Rorty , insomma un pò come Giulio Mozzi) principalmente francesi. Insomma un gran casino.
Per quanto riguarda Deleuze so che l’antioedipe e mille plateaux sono state le opere per me più difficili e incomprensibili che abbia letto di Deleuze Guattari insieme a Dissemination di Derrida e all’Ulisse di Joyce, (sono a pagina sei da circa ventanni). Dei due ho letto con profonda riconoscenza verso gli autori il Che cos’è la filosofia, e le lezioni di Deleuze su Spinoza e Leibnitz. Il libro con Carmelo Bene, credo il titolo sia superpositions è di una bellezza unica. Il sillabario come dice Andrea è nella sua dimensione dialogica quanto di più elegante e pertinente rispetto alla contemporaneità sia stato scritto o detto. Mi dispiace veramente non incontrarti a Milano.
Comunque ho appena postato un testo di Deleuze sui nouveaux philosophes. Proverò a tradurne qualche estratto in italiano. Il tempo corre ed è difficile stargli dietro.
effeffe
Su quella grande disputa concordo. Ogni scuola ha evidentemente le proprie “degenerazioni” – probabilmente necessarie in un’ottica collettiva (interna alla scuola): stirando fino ai massimi limiti i propri peculiari “principi esplicativi”, questi “estremisti” generano una quantità di materiali sopra i quali menti più “sistematiche” potranno poi esercitare la loro peculiare abilità.
Ciò che mi impressiona è invece la possibilità, per questi ambiti che sono o furono in origine certamente dei “laboratori” vitali e totalmente problematici, di venire mitologizzati, congelandosi in una vulgata senza senso, cinicamente riutilizzata. Cercherò di spiegarmi, gli esempi non mancano.
Se un certo testo ci risulta troppo arduo, c’è sempre la possibilità di leggerlo attraverso occhi intellettuali più acuti, e dei quali ci fidiamo abbastanza. Così, ho letto con estrema attenzione la critica all’Anti-Edipo di Girard. Perché uno comincia a dirsi: “mi manca una sufficiente conoscenza del contesto intellettuale francese in cui tali affermazioni potrebbe assumere quel senso che appare mancante”, oppure, “il mio livello di competenza accademica è su queste cose chiaramente insufficiente”. Beh, Girard è comprensibile, non soffre delle mie limitazioni, guardiamo dunque la cosa attraverso i suoi occhi … copio e incollo un pezzettino:
[..] Qualunque cosa faccia, il critico avrà sempre la peggio. Se si lascia catturare da quegli aspetti dell’opera che gli sembrano più solidi, gli si rinfaccerà di pontificare su un testo che non si prende esso stesso sul serio: a che scopo vivisezionare quel che è solo un “brûlot” scagliato nelle strutture tarlate dell’intellettualità capitalistica. Se invece si permette di ridere, se continua a dire “Questa è davvero buona!”, gli si rimprovera di misconoscere l’unica impresa che abbia ancora qualche valore nella convulsionaria decadenza della nostra epoca. In entrambi i casi, non si avrà del tutto torto: prendere il libro sul serio o prenderlo alla leggera sono due modi di non vedere lo stadio critico cui siamo giunti e il modo in cui L’anti-Edipo vuole inserirsi in questa crisi. Ci si dice che invece d’irrigidirsi contro il movimento bisogna abbandonarvisi. Si deve spingere sempre più lontano l’artificio del pensiero attuale: in queste condizioni tutti i procedimenti appaiono legittimi. Ci si appoggia su questo per sovvertire quello, e su quello per demolire questo. Pensare logicamente contro la logica altrui: ecco quel che è lecito a Deleuze e Guattari; solo che non si può ritorcere contro di essi l’arma della logica, non si può chiedere loro di essere logici fino in fondo perché è la schizofrenia a parlare attraverso la loro bocca, perché sono loro a possedere il “copyright” del vero delirio. Ah, che bella invenzione questa schizoanalisi! La cosa vi consentirà di ridurre al silenzio gli avversari ancor più velocemente di tutte le “resistenze” di cui gli psicoanalisti detengono il segreto e che hanno sempre di scorta nelle loro tasche. Aggravare tutte le perversioni, fare ancora affidamento sull’arbitrarietà delle forme culturali che ci circondano, in un gesto che non dipende né esclusivamente dal delirio, beninteso, né dal gioco, né dall’impegno, ma che partecipa di tutti questi atteggiamenti e d’altri ancora, tanto che diviene impossibile racchiuderlo in qualche definizione critica: ecco l’infinita differenza dello schizofrenico riuscito; essa fa tutt’uno con il programma dell’Anti-Edipo, con la sua strategia.
Ora, se una mente come quella di Girard si impantana in questo modo, cosa devo pensare di chi tratta Edipo e Anti-Edipo con totale confidenza? Posso sospettare che vi sia un poco di simulazione, magari inconscia, o di auto-illusione? Ma in realtà io vi vedo anche un modo terribilmente comodo di darsi una patina intellettuale, senza pagare dazio alcuno.
“dipanare attraverso Deleuze la differenza tra fascinazione e comprensione rappresenterebbe una occasione importante verso molte dimensioni, che trascende di molto la questione dei meriti di Deleuze”
Bene, è argomento focale, ancestrale, la qaestio tra doxa ed epistheme, tra mithos e logos.
mi viene un dubbio esistenziale che m’intrappola dentro l’angosciante sospetto che questa prima suddivisione fondante la cultura occidentale, sia stata la matrice dell’attuale schizofrenia.
gli orientali ne soffrono?
non mi pare, perchè nel loro modo di usare il linguaggio in maniera visiva-simbolica anzichè concettuale-assertiva come noi, forse si sono evitati 2000 anni di discussioni e sofferenze, fremmentazioni e riconciliazioni, aperture e chiusure, sincronie e diacronie, compulsioni e stanzialità.
Chissà se la Cina è vicina.
> forse si sono evitati 2000 anni di discussioni e sofferenze
right or wrong … it’s your country ;-)
Grande, Wovoka
puo’ darsi, ma ritrovo il manicheismo ovunque, anche qui, quindi non credo di averne il monopolio.
l’epochè del giudizio ancora non mi riesce, come non mi riesce camminare sulle acque e controllare le televisioni :-)
Magda, manicheismo o pensiero binario (o tutt’è due)? Anche l’opposizione oriente-occidente vi rientra….E poi anche qui da noi trovi tradizioni non-dualistiche
Sarà che applico a ttto l’ossimoro esistenziale:-)
grazie
I am looking for items or information pertaining to the orphanages in
Havana and/or Matanzas, Cuba, then named casa cuna, and also for the
orphanages in Moya, Gran Canaria.
Please, share the joy of http://www.earth.google.com with me.