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Niente da nascondere

di Marco Rovelli

cache

Lo sguardo e la distanza. E’ nella distanza che non si ha più niente di nascondere. In prospettiva. Quando uno sguardo si fissa immobile su di te, e ti rimanda il tuo sguardo, ed è come se il tuo sguardo entrasse in corto circuito – allora si è in piena trasparenza, e la casa è come di vetro.
Lo sguardo è fisso, immobile, sulla casa. Una casa di un quartiere residenziale. Una casa senza nome. Lo sguardo della macchina da presa sta in prospettiva sulle mura esterne della casa. L’inquadratura traccia una forma senza nome. (Anche i passaggi di alcune persone sulla strada sono traiettorie oggettili). Lo sguardo – neutro, muto – nella sua fissità si fa subito invasione di campo. Il campo dell’inquadratura è invaso da uno sguardo altro. Mentre passano i secondi non sono più le forme dell’inquadratura a riempire quel campo, è lo sguardo che guarda e che invade, che si appropria e che svela.
Allora? Niente.
Sono le prime parole del film, come una chiosa di questo sguardo invasivo, denudante. Come se lo sguardo fosse una domanda inesauribile, a cui non c’è risposta. C’è solo quell’urgenza, quella sete di svelare, che mette con le spalle al muro.

Lo sguardo traccia forme, costringe a fissare le forme vuote del quotidiano. Lo sguardo, che è foto-grafia. Anche la luce dello sguardo mette a distanza. Le cose appaiono in uno scarto ulteriore, come sottratte alla quotidianità, e mostrate nella loro corporea singolarità. Quasi le cose esondassero, in una distanza d’abbaglio.

A Georges tocca fissarle, quelle forme vuote. Gli tocca, perché lo sguardo senza nome lo ha toccato. Gli è toccato in sorte. Gli arrivano videocassette – oggetti dove lo sguardo è trattenuto, dove è fissato il suo fissarsi – come nel Libro la Parola.
Qualcuno mi guarda. Dunque mi spia. Cosa vuole. Da me.

(In Strade perdute di David Lynch, si cominciava da videocassette che arrivavano a casa. Ma si prendeva immediatamente un’altra direzione: la casa la si penetrava. E di lì, i sentieri cominciavano a biforcarsi. Qui invece la casa la si guarda dal di fuori, e il sentiero è uno, come la via della Verità che la Dea rivelò a Parmenide. Questo non significa che i due film sono opposti: forse Lynch sta a Eraclito come Haneke sta a Parmenide, ma oggi non si crede più che i due filosofi stanno su due rive opposte. Si tende piuttosto a credere che dicano la stessa cosa. La verità del Comune)

Lo sguardo traccia forme, e anche la mano lo segue. E’ sempre una mano sconosciuta. E costringe al riconoscimento. La mano disegna, e quel disegno è scrittura. E’ il geroglifico del vero.
Sono disegni di un bambino con una striscia di sangue. Un bambino, o un gallo. Prima un bambino, poi un gallo. Ambedue insanguinati. Forse sono la stessa cosa. Il disegno è un geroglifico, richiama un’immagine di un bambino in carne e ossa. E’ un’immagine che prende campo, è un ricordo di Georges che torna alla luce, epifania del vero.
Un’altra videocassetta lo guida alla scoperta – allo svelamento. Gli restituisce la memoria della casa d’infanzia. Un altro indizio. Che già ha in sé tutta la verità. Ma che Georges non vuole ancora vedere. Riconoscere.

Che cosa cambia se sei solo? gli dice la madre malata. Non si è mai da soli. E si cammina sempre soli.

Naturalmente è il sogno che vede per primo. Che fa tornare il rimosso. Ho sognato Majid, dice Georges. Un bambino di quand’era bambino. Per il resto, niente di straordinario da raccontare. Tutto funziona. Siamo tutti molto occupati.

Il sogno rivela: Il bambino E’ il gallo.
Majid sgozza un gallo con l’accetta. E l’accetta minaccia Georges. E’ il suo incubo. Il passato che torna. No, non esiste passato. Il passato è sempre presente. L’essere è eterno, così era stato rivelato a Parmenide.

Seguendo lo sguardo dell’Altro che continua a guidare, Georges arriva in avenue Lenine, alla stanza 047 di un caseggiato popolare.
C’è Majid. Ma Georges lo tiene a distanza. E’ l’ultima difesa.
Cosa vuoi da me? Niente.

Niente, niente, niente. Lo sguardo è sguardo sul niente, perché tutto è già da sempre lì, a disposizione, basta mettersi nella giusta distanza.
Cosa si farebbe per non perdere niente, dice Georges.

Un’altra videocassetta svela la sua memoria alla moglie. Era il 17 ottobre 1961. Duecento manifestanti algerini annegarono nella Senna. Tra questi, i due domestici della famiglia di Georges. I genitori di Georges decisero di adottare l’orfano, Majid. Ma Georges non lo voleva, un fratello, un nuovo venuto col quale dovesse dividere le cose. Così si inventò delle cose, e Majid venne cacciato. Che cosa si inventò, Georges non lo dice. E’ stata una tragedia, questo lo riconosce. Ma non si sente responsabile.

E’ il 22 maggio 2004, e Singh è il primo ministro sikh dell’India. Sullo schermo televisivo c’è Barbara Contini, dall’Iraq, che parla di regole d’ingaggio. C’è Abu Ghraib. Ci sono i soldati israeliani che sparano sui palestinesi. Lo stesso valore indiziario. Ciò che vale per Georges vale per l’Occidente intero. Che ricaccia nell’oblio le sue memorie. Che non vede, che non riconosce. Che preferisce dormire. Di più: nella vita di Georges c’è – immediatamente, senza mediazioni, realmente, concretamente – quella dell’Occidente intero.

Lo sguardo dell’ospite ostile continua a turbare i sonni di Georges. Quando il figlio Pierrot non torna a casa la notte, lui va con la polizia da Majid, e gli fa passare, a lui e a suo figlio, una notte in galera. La mattina dopo, Pierrot torna a casa.

Georges si rifugia nell’interieur. Cerca rifugio nel buio più intimo. Nel buio della camera da letto, nello spazio più privato. Ma non ha scampo, perché non può nascondere nulla.
E’ costretto a dire, finalmente. Che si era inventato che Majid sputava sangue. Che disse a Majid che doveva sgozzare un gallo perché papà voleva così. Così il tisico assassino venne portato all’orfanatrofio.

Infine. Majid lo chiama a sé. Nella sua casa di avenue Lenine. Non riuscirai a farmi sentire in colpa, dice Georges, io non sono responsabile. Le minacce, gli risponde Majid, queste le sai fare. E si sgozza. Si sgozza per la seconda volta, perché lui era il gallo, si era già sgozzato tanti anni prima, e tutta la vita, dopo, non fu che un dibattersi acefalo. Adesso Majid si sgozza di nuovo, e non è che la rappresentazione e la ripresentazione di un evento eterno.

Il figlio di Majid: Volevo sapere come ci si sente ad avere un uomo sulla coscienza.
E continua a negare, Né io né mio padre abbiamo fatto quelle videocassette. Non si può che credergli. Lo sguardo, il suo, come quello di Majid, dicono il vero. E’ stato un Altro, dunque.

Lo sguardo torna fisso, immoto. Immobile su passato e futuro. Eterno è lo sguardo immoto.
In campo lungo, la deportazione del bambino, che scalcia e recalcitra nel cortile della casa d’infanzia.
In campo lungo, il presente distante sui gradini della scuola di Pierrot, il vociare confuso dei ragazzi, l’avvenire che contiene il passato, l’avvenire che è la reviviscenza del passato.
Lo sguardo è fisso. Immobile. Eterno.

[Niente da nascondere – (titolo originale “Caché) – Regia di Michael Haneke, 2005]

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38 Commenti

  1. Sono uscita ora dal cinema. Ho visto questo film, prima di entrare in sala Helena mi dice al telefono che avevi scritto un pezzo sul film. Ho percorso il tragitto fino a casa riflettendo e molto curiosa di leggerti perché quando si sono accese le luci era percepibile, quasi si potteva toccare, lo straniamento del pubblico, una sensazione di attesa che rimane sospesa. Ora ritrovo nelle tue parole il mio percepire e ti chiedo: non trovi che il percorso sia molto cerebrale, che Haneke richieda allo spettatore uno sforzo incredibile? In fondo la narrazione sembra mettere veli invece che dis-velare costringendoti ad aspettare un mistero che sembra essere molto più intricato di quanto sia in realtà. Invece è tutto lì, nello sguardo di Geoerges che continua ad affermare che aveva solo sei anni e che lui non è responsabile, dove infatti la responsabilità sembra essere nei genitori/società che decidono di allontanare il “diverso”. Sguardo distaccato, estraneo che Georges ripropone nel suo micromondo famigliare lontano dal figlio, dalla moglie, dal mondo. Rientrare nell’oscurità per non vedere, dormire, straniarsi come il pubblico alla fine del film. Un film che ti rimane aggrappato e non ti molla.
    Un caro saluto.

  2. Ciao Gabriella, felice di risentirti! Sì, credo anch’io che il film richieda uno sforzo fuor di misura allo spettatore. E’ fuor di misura perché lo sguardo (lo spettatore) è costretto a interrogarsi, a tornare su di sè: guardando il muro della casa era come se lo sguardo mi rimbalzasse addosso, e rimbalzasse sotto forma di domanda: domanda che trovava senso solo nella sua apertura, nel suo farsi sguardo: voglio dire, era come se l’invasione di campo creasse un campo al di fuori dello schermo, dalla parte del mio sguardo, quel campo coincidesse col mio sguardo, e mi costringesse ad assumere lo sguardo dell’Altro. E uno sforzo del genere non può che essere sotto il segno dell’incredulità, vorrei dire giocando con le tue parole…
    E’ cerebrale, sì, nella misura in cui viviamo sempre nella dittatura del significato. Ma forse ciò che Haneke chiede allo spettatore è proprio di consegnarsi all’immediatezza della percezione, e di lasciarsi dislocare da essa. Si tratta di capire, come noti tu, che il mistero è tutto lì, che ci si offre davanti senza misteri, insomma che il profondo è nella superficie. A me è accaduto di abbandonarmi a questa superficie – una superficie che si increspa fin da subito in pieghe spazio-temporali (il fwd della cassetta…)- e di lasciarmi trascinare dalla sua deriva.

  3. Sì, sono d’accordo sull’abbandonarsi alla immediatezza della percezione…allora ti chiedo una cosa che mi arrovella da un paio di ore: ma le riprese nella piscina ai fini della narrazione come te le spieghi? sono frequenti e molto lunghe. E l’altra cosa: tu ne sai qualcosa della storia degli Algerini uccisi nella Senna massacrati dalla polizia?

  4. Per fortuna c’è google, mi sono letta tutta la storia del 17 ottobre 1961… occorreva dormire in quel di Parigi per non vedere cosa succedeva!

  5. Devo chidermelo: come vedo la piscina? Come un’altra superficie, ma disposta diversamente, e in una iterazione da un bordo all’altro. Sterilità di questa iterazione, laddove invece l’altra superficie chiama all’apertura – richiamando le ferite. E poi, l’acqua sterile contro l’acqua insanguinata della Senna…

  6. Già, mi hai fatto venire in mente cosa dice l’allenatore al ragazzino: devi virare più in profondità, stai troppo in superficie. Entrare nella profondità per muoversi meglio. Sembra essere la cifra dell’impianto narrativo, immergersi nella Storia per non perdere la propria identità. Grazie Marco: notevoli riflessioni nel cuore della notte.

  7. io avrei da dire molto sul film, pero’ non mi va di farlo su un commento ma scriverei proprio un post.
    Vi faccio degli esempi su come scrivo, inquesto caso era la recensione su 2046:
    http://www.laretedeimovimenti.it/fucina/nomadismi/film2046.

    Invece su haneke, che è geniale psicologo di confine, non bastano le descrizioni dilungate in prosaicità, temo.
    per capirlo va visto anche “la pianista” e altri suoi film.

  8. esempio:

    Cinema:2046
    01/11/2004 11:22

    magda mantecca

    Stagione autunnale,umida , introspettiva…..invito al raccoglimento e all’intimità.

    i 90 minuti di una pellicola possono trasportarci tra i nostri mondi paralleli fantastici o appiattirci nella banalità piu’ assoluta di “Ovunque sei” caro Placido, rimanici!

    Bisogna soffrire davvero per girare dei film esistenzialistici o intimistici.

    Gli italiani maestri nella commedia, si rivelano copie mal riuscite nel trattare di inquietudini e tormenti interiori. Meglio gli originali Wim Wenders e Truffaut.

    Cambiamo sala e spostiamoci nell’immaginario erotico di Wong Kar-Wai. Altro registro interpretativo quello di “2046”: una parola…..un suono….. una data…..un numero di camera d’albergo?…. grande potere dei segni e della loro multiforme semioticità.

    Gli orientali comunicano per simboli non per concetti disorientando i nostri abituali parametri cognitivi.

    Sulla poliedricità ermeneutica si snoda questo film che con la perfezione geometrica della fotografia celebra l’imperfezione dell’amore collocando il sublime sentimento in uno spazio temporale completamente anacronistico,diacronico,assente.

    Il treno verso il futuro, metafora del viaggio esistenziale interiore,sposta le nostre passioni non vissute verso proiezioni future, dove cio’ che non è stato e cio’ che non sarà mai si collega al filo rosso dell’immaginazione, del ricordo,dell’onirico, del fantastico.

    L’istanza temporale del presente è assente,quasi a dirci che l’amore si nutre solo di ricordi e di speranze ed è condannanto a non vivere hic et nunc. L’adesso dell’amore è cio’ che passa, è lo sbattere di corpi copulanti di cui non rimmarà nulla………..nostalgico e anelante.

    Molto Proustiano……………..

    La sola donna amata è quella trasfigurata, ricordata,proiettata, immaginata.

    L’amore come catarsi evocativa dei nostri turbamenti e dei nostri limiti, supera le dimensioni del tempo e ci costringe a misurarci con le nostre finitezze…

    la scrittura del malinconico giornalista attraverso la narrazione del sè, cura,evoca,sublima,da’ respiro ai desideri, agli struggimenti,ai sentimenti inespressi(rimando al testo “autoanalisi per non pazienti” di Duccio Demetrio).

    Le donne? immagini pittoriche di estrema eleganza erotica,muse ieratiche,delirii omnicomprensivi magnificamente rappresentate. Celebrazione della figura femminile in chiave poetica e divina.

    Ringrazio, come donna, il regista Wong Kar-Wai, per l’idea di femminilità che ci regala.

    Magda Mantecca

  9. Jan (ma anche Magda), in effetti ho ritenuto di passare questo scritto a Helena proprio perché non la ‘vedevo’ come una semplice recensione, ma come la traccia di un itinerario dello sguardo autonoma dal film stesso. Un ‘commento’, insomma.

  10. Magda, leggo le tue parole su 2046. A me, che avevo amato In the mood for love, quel film è risultato insopportabile, scontato, banale. Un raffazzonato dormitorio di luoghi comuni, e anche esteticamente di molto inferiore all’altro – e pure da un punto di vista narrativo. (Con questo non giudico te, sia chiaro – lo dico per evitare incidenti sempre prossimi nell’irascibile spazio telematico). In qualche modo l’unico legame col film di Haneke che intravedo è che 2046 ne è l’opposto: nel senso che pratica un’opposta concezione del cinema, e dello sguardo.

  11. Non c’è alcun legame da 2046 e Chachè…era solo per esemplificarVI il fatto che spesso i film sono quelli che ci facciamo noi dopo .-).
    Tutti mi hanno detto che in the mood of love(che non ho visto) è stato decisamente meglio, ma io dopo il film 2046 non avevo nienta da fare e allora ho scritto quello che mi è venuto in mente in modo molto estemporaneo.

    2046 è un film che non è piaciuto affatto agli uomini per esempio come dice bene Natalia Aspesi su Repubblica.
    http://www.cinematografo.it/bdcm/bancadati_scheda.asp?sch=42499

    invece è molto eloquente l’assoluta assenza d’intellettualismo in Haneke, l’animalità, la pulsionalità che lo rende molto freudiano e tremendamente attiguo a Kubrick, Lynch, Greenway, Carpenter, Lars Von Trier forse…ed è questo che rende apparentemente difficile una sua elaborazione. basta spostare la prospettiva.
    Un tossico, un criminale saprebbe bene come commentarlo: con una dose, una risata, una violenza, una bestemmia, uno stupro.
    pochi sono i film, o meglio gli autori, che mi toccano.
    Haneke lo fa sempre….mi sono sentita cosi con tutti i suoi film.

    con Eyes Wide Shut sono rimasta sconvolta per una settimana e, per certi aspetti, lo sono ancora.
    per esempio sull’elaborazione dei contraltari e delle dinamiche di costituzione di società massoniche, sette religiose, forme sommerse e concordate di potere….aspetti che mi sconvolgono e attraggono.
    Come, argomento di attualità, l’osservazione della ‘ndrangheta…tutti questi sono argomenti che con Haneke e gli altri autori citati centrano molto, quasi a collocarsi su una traiettoria “indiziale” ove ogni reperto, impronta, va’ costituendo la trama di modi umani sotterranei di socialità.
    Ricordo anche Martinelli e “piazza delle cinque lune”….
    Collegamenti sommersi dell’indicibile, questo è il legame, l’oscurità della malvagità, i tabu’ umani.
    M’inquieto.

  12. Su 2046 posso solo dire : insopportabile! Lo sguardo di Haneke è lucidissimo, spoglio di ogni manierismo estetico, come una spada entra direttamente e taglia, violento e preciso. Ho visto tutti i suoi film, lo trovo geniale per quello sguardo che Marco ha definito eterno.

  13. Ecco, l’animalità. Era questo che articolavo. La percezione. I film come quelli di Haneke (ma anche Lynch, un po’ meno direi Von Trier – che amo, e di cui ho scritto anche qui mesi fa) – quei film fanno comprendere mediante percetti e non concetti (uso la terminologia deleuziana). Dunque, come dicevo a Gabriella, non hanno nulla di cerebrale. Quello che tracciavo era la traiettoria di uno sguardo, una forma tracciata mediante percetti. I film come 2046 invece (per questo dicevo stanno all’opposto), quelli sì sono film cerebrali – nel senso che sono una successione di simboli e metafore che si offrono all’interpretazione.
    Quanto alla distinzione tra spettatori maschili e femminili, io non ci credo. (del resto la Aspesi distingue critici e signore, non uomini e donne).

  14. Non si puo’ discutere sui gusti estetici, e riscontri emotivi, anche perchè rispondono a modi di sentire individuali.
    Porgersi in maniera apregiudiziale forse ha funzione maieutica superiore, come è probabile che vedendo prima “in the mood of love” avrei le vostre impressioni.
    Ma il senso è lasciare la testimonianza di un momento legato hic et nuc ad un’espediente estetico, in questo caso ad un film.
    Ho delle idee e sensazioni molto dilatate e conteporaneamente molto opprimenti su Cache’…e suscitare questo nel pubblico dovrebbe essere già un grande risultato per l’autore, indipendentemente dalla comprensione del film.

  15. grazie Marco per la citazione della cultura oltre il genere.
    ora, siccome possiamo dire molto, per esempio : Haneke è eminentemente occidentale, e anche molto tedesco, è interessante che sia emerso un parallelo del tutto involontario con un regista orientale….quasi imparagonabile…ecco per esempio potremmmo cercare un parallelismo tra la violenza occidentale, e quella orientale, nota per esempio nei giapponesi…forse sarebbe piu’ esatto accostare Kurosawaa a Haneke.
    Pero’ prima o poi, non so s e in questo commento o altrove, siccome haneke ormai mi ha ingravidato, dovrò partorire una forma di metabolizzaione della sua violenza cosi pregnante e cosi nostra, in fondo.

    dicevo gli argomenti da sviluppare sono davvero molti. a voi cosa preme maggiormente?

  16. Sai Marco, l’utilizzo delle parole è veramente importante. Me ne rendo conto leggendoti. Il termine cerebrale che io ho usato non è corretto per definire la sensazione che ho avuto. Percepire abbisogna di un salto necessario a cui ci siamo disabituati. Pensavo anch’io a Lynch e Von Trier, curioso no?

  17. Eh Magda, il discorso si fa interessante. Per me, cultrice di arti marziali che pratico (aikido e spada), il punto che tocchi è molto importante. Il codice d’onore/etico che permea la violenza giapponese è assente in occidente, mi viene in mente Ghost dog dove il Killer segue un preciso codice samurai non ostante sia al servizio di un delinquente. Lì, la cosa importante è il “servizio”, pagare il debito. La violenza occidentale ha radici mitiche in un omocidio, Caino uccide Abele. Nella genesi del mondo orientale, tutto nasce dal dio che contempla… Non so, sono pensieri random.

  18. violenza occidentale matrice biblica…oppure i andrei piu’ indietro, matrice greca e guarderei al principio di Medea o al principio di Platone….e se non ci fosse stato platone..la nostra violenza , quella di Medea quanto potrebbe essere accostata all’oriente? siamo già in grecia..ci avviciniamo ad Est…bello questo lavoro teoretico a piu’ mani.

  19. Sapete una cosa a cui siamo disabituati e che invece haneke ci fa ricordare?
    La paura….noi non abbiamo piu’ paura, intesa come quel sentimento animale che protegge i viventi dai pericoli, paura come sentimento di avversione per qualcosa che mina la nostra esistenza, la paura come sentimento di sopravvivenza.
    Una volta mostravamo i denti digrignando, oggi li mostriamo per ridere…sarà uguale? un’evoluzione comportamentale? di fatto il mostrare i denti per ridere oggi ha lo scopo di difenderci dal potere per esempio…
    Invece Haneke ci riconduce allo stato di Natura, dove la paura è legittima, e non è ancora evoluta nel suo prodotto di Cultura, L’Angoscia…l’angoscia heideggeriana….
    Se tornando a casa uno slavo ti puntasse un coltello alla gola, forse domani vedresti il mondo in modo diverso, forse piu’ pulsionale, naturale.
    Molto pittoresco.
    Gabriella, non hai sbagliato ad usare “concettuale” è un malapropismo, un lapsus, tu hai dato una connotazione mentale a qualcosa che ormai abbiamo elaborato in questo modo, tu hai interpretato la paura,pulsionale, come angoscia, che è concettuale.
    Perchè l’angoscia è una paura senza oggetto ma solo soggettiva.
    volete incollarmi al pc?

  20. (Torno) Non so, a me pare che in giro ci sia un sacco di paura. Anzi, la paura è il sentimento, la tonalità emotiva che orienta la rappresentazione del mondo dominante. Il punto è che non si è consapevoli di questa ‘fantasia’, troppo spesso, non si è consapevoli del nostro schema percettivo fondamentale. Quel che fa Haneke è di mostrarcelo, e di rovesciarlo.
    Quanto alla violenza, passo, la deriva è fin troppo interessante, e io oggi ho da scrivere altre cose, stacco. (torno sul far della sera… ciao)

  21. Allora, si va a praticare la violenza in forma ritualizzata, in forma disciplinata e la esorcizziamo.
    Pero’ anche in natura esistono comportamenti che ritualizzano i combattimenti, Lorenz potrebbe dirci molto a proposito dei rituali dell’aggressività e sarebbe interessante tracciare dei paralleli legami ancestrali tra homo sapiens e il resto del regno animale.
    Chissà se Haneke è contento che si vada aprlare anche di etologia partendo dal suo film…io penso di si.
    Anche Freud che Haneke cita spesso, era fondamentalmente un darwiniano, un fisiologo, un biologo…..

  22. visto ieri sera, mi è piaciuto molto, forse alla pari di “le temps du loup”, quello precedente, che avevo trovato straordinario;

    credo che la paura sia centrale in Haneke, ed è la nostra paura, in effetti, la paura che qualcosa di imprevisto, violento, animale, sconvolga l’ordine fisso dei nostri quadri (delle nostre inquadrature) di realtà, e sopratutto la paura della perdita di distanza;

    per i francesi (in ogni caso), e anche per noi italiani in misura minore, erano botte nei denti: il massacro di Parigi dell’ottobre 1961: la polizia uccide circa quattrocento nordafricani; la tipologia di rapporto tra la francia borghese e la francia immigrata, l’attitudine della polizia; in pochissime immagini, Haneke mollava fendenti, più di tanti film a tema sull’integrazione…

    cosa mi ha suggerito la scena finale, dei due giovani? solo questo: capacità di avvicinarsi

  23. quando me la sentiro’ scrivero’ il post su questo film, perchè ancora oggi mi ricordo il film del 1994 strange games, mi pare.
    allucinante.incredibilmente VERO.

  24. Il finale, i due ragazzi.
    La mia personale visione, e forse proprio una visione..
    Loro due, il presente che ha ordito tutto per distruggere, distruggere
    il passato (i genitori). Chiudere a letto un passato nefasto, ricominciare
    dai gradini di una scuola.

    p.s. Funny games . Un miracolo di marmo. perfetto

  25. Funny Games è simile ad Arancia Meccanica, e allora la perversione dello spettatore, in questo caso, mia, è di raffrontare i modi dei registi di rappresentare la violenza urbana, e la continua vertigine che si prova verso lo stato di natura dove tutto questo era usuale e accettato.

  26. E’ interessante questo (de)centrarsi sulla scena finale. Apertura e ricominciamento? Chiusura del cerchio e reviviscenza? Forse si tratta di una sospensione dello sguardo – come se lo sguardo ci fosse ributtato in faccia. Come un appello alla prassi.

  27. Ma io la interpreto:”come se niente fosse”.
    tornare alla apparente banalità dei ritmi quotidiani che ora, alla fine, sappiamo racchiudere infinite insidie.

  28. Ma se ‘alla fine’ sai delle cose che non sai all’inizio, allora non è ‘come se niente fosse’. o l’una o l’altra. Tra le ipotesi che prospettavo, ‘come se niente fosse’ corrisponde a chiusura del cerchio e reviviscenza. l’ipotesi invece di una ‘fine’ non identica all’inizio è apertura e ricominciamento. La terza, pensandoci, quella della sospensione, le contiene ambedue (senza tuttavia ‘superarle’)

  29. Kubrik interviene sulla realtà, la rappresenta e la forgia, crea, modifica. Arte.
    Haneke si tiene fuori, non concede spazio all’arte in un mondo che non la merita e forse non la riconoscerebbe. Funny Games sono gli spilli di Arancia Meccanica. Non c’è continuità. C’è frattura. La fine di un mondo il cominciamento di un orrore senz’anima.
    Un annegamento.

    La scuola dei due ragazzi mi ha dato aria. Una vecchia Europa muore. (Potrebbe morire)

    Cosa intendi per “appello alla prassi”?

  30. Marco, la spirale ascendente di consapevolezza: ovvero il punto finale non si sovrappone al punto iniziale ma ne è la prosecuzione.
    Tu devi continuare a vivere come prima con la nuova cosicenzaq inglobata nel tuo sentire, che in se’, come contenitore è insuperabile, puo’ solo nutrirsi, elaborare, digerire, metabolizzare, nuove energie emotive, e riportarle a qualcosa di “utlilizzabile”, quasi fossero strumenti, arnesi di vita.

    Claudio mi piace molto il tuo sguardo incisivo, disincantato e cosi calibrato.
    cos’latro ti piace cinematograficamente?

  31. Magda, capisco il tuo punto. Però – continuo a giocare con le ipotesi che avevo lanciato – producendosi uno scarto (coscienziale), ciò rientra nella seconda delle ipotesi. Insomma, il tuo ‘come se’ è un imperativo molto particolare.
    Claudio, per ‘appello alla prassi’ intendo questo: è come se lo spettatore, preso in quella sospensione, in quel’indecidibile (l’ultima scena la vedo come un ‘campo neutro’ – fatto di singolarità plurali), fosse chiamato a giocare il suo sguardo, ora che è finito il film. Come se il film chiamasse lo spettatore a esercitare uno sguardo nuovo nella sua realtà (esistenziale, sociale). Per questo dicevo che lo sguardo viene ributtato in faccia.

  32. Uno dei film più brutti che abbia mai visto.
    In confronto, l’inquadratura fissa della tomba di Padre Pio su TelePadrePio è paragonabile alla scena dello sbarco di “Salvate il soldato Ryan”.
    All’uscita, netta sensazione di sentirsi come Fantozzi alla 30a proiezione di “La Corazzata Potemkin”.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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