Il porcile sovrano
E’ qui, in un presagio di morte, che compaiono i porci.
Ed è qui che appare il volto sovrano di Pierre Clementi, disertore da ogni potere, che mangia farfalle dopo aver ucciso il padre, e uccide serpi su rosse distese di vulcano. E’ il suono barbaro del suo itinerario nel deserto, luminescente di un tempo ulteriore, muto come il gesto di una pura esposizione.
E’ il suo suono, un suono eccedente di senso, la sottotraccia dell’afasia che ha colpito il borghese – bloccato e stupito – Jean-Pierre Leaud, colui che dice, Non ho opinioni. La parabola del giovane borghese ossesso (Sto bene come sto adesso, è la prerogativa dell’ossesso) si traccia in filigrana rispetto a quella del sovrano che ha guardato in faccia la divinità rimanendone fulminato. Il giovane borghese non diserta: sa bene che non può sfuggire alla sorte. Tutto ciò che può fare è consegnarsi al nulla della più infima abiezione – copulare con i porci (ma l’unico modo per parlare di Dio, diceva Bataille, è pensare che sia un porco). Il giovane borghese copula con i porci, si dà in pasto a porci, perché non ha altro modo per figurarsi lo splendore della sovranità. Quasi fosse l’ultimo uomo. Colui che deve tramontare, perché ha consapevolezza del niente che è. Il figlio dei grossi e grassi borghesi di Grosz e Brecht non può che anelare la propria soppressione. Julian aspetta. E non c’è nulla ch’egli aspetti. Lui ama, e non c’è chi ami. Non può risolvere nulla nominando, non c’è nulla da nominare, può solo sprofondare nella propria ossessione nientificante, che non può nominare, la sua ossessione è la sua dannazione, e la sua muta dannazione è l’unica salvazione. L’ossessione del porcile è una grazia che sia pure come una peste mi ha colpito. Gli incubi sono la cosa più sincera della sua vita, l’unico modo per affrontare la realtà.
“Il terrore sull’orlo della fossa è divino e io mi immergo nel terrore di cui sono figlio” (Georges Bataille, ancora).
Il disertore parricida è catturato e messo a morte, consegnato ai cani per essere sbranato. Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, e tremo di gioia. La sovrana, ateologica, estrema preghiera, come di un Gilles de Rais.
Il figlio borghese, invece – che non ha davanti a sé il fuoco del vulcano, ma il ‘focolare ardente’ di grandi borghesi i quali senza soluzioni di continuità sono trapassati dal nazismo al culto del progresso tecnologico – si consegna volontariamente alla morte, sbranato dai porci, durante la sua ultima cena. Una parodia del Dioniso Zagreo a cui non può che consentire, come supremo gesto etico tra quelli che il fato gli ha riservato. La sua viltà è stata una grazia, diranno di lui i contadini, i testimoni della Storia. Ha rinunciato alla spensieratezza, il Moloch edificato dai suoi padri.
Poi torniamo a casa. Apro il Castoro su Pasolini. L’autore, Petraglia, intellettuale organico d’antan, sputa sul film, dice che è un film disperato, che il suo autore ha rinunciato all’impegno, a un’analisi scientifica della realtà. Io, allora, non posso che sputare su Petraglia.
ricordi le ultime parole di Accattone quando ‘è in vista’ della morte ? mo stobbene…tutto il cinema di pierpaolo è una incessante interrogazione sul rapporto che lega la morte allo ‘star bene’. La sovranità introduce una interruzione, un corto circuito. Un bagliore di luce rispetto alla coazione a tornare alla quiete dell’inorganico di cui parla Freud in Jenseits des Lustprinzips. Tutta la società borghese è animata dall’aspirazione a dis/animarsi riducendosi alla quiete del’inorganico, il cinema di pierpaolo è la messa in opera di questa messa funebre infinita. Soltanto la singolarità si stacca dal tutto della coazione a ripetere, ma se ne stacca, paradossalmente ‘e’ conseguentemente con l’autosoppressione.