Credere negli idranti
A due anni dalla morte di Elliott Smith
di Gianluigi Ricuperati
Elliott Smith non è Wystan Auden, ma se la metà dei bytes occupati nelle redazioni dei giornali per celebrare personaggi mediocri, senza trasparenza né opacità, fossero stati spesi per raccontare ai lettori le opere e i giorni di Elliott Smith, sarebbe stato comunque meno di ciò che meritava. E a lui avrebbe messo paura. Perché Elliott Smith era uno che tremava di rassegnazione all’idea di salire sul palco degli Academy Awards per cantare un suo pezzo candidato all’Oscar, e sembrava pronto per il patibolo, perché ci sono condizioni della mente in cui qualunque cosa è un quadrangolo che punta verso il collo e taglia la testa. La depressione negli esseri umani adulti è soprattutto un misto tra un pianto interiore e una fontanella ghiacciata, rivolta verso qualche spaccato che non vuole parlare. Elliott Smith lo faceva cantare, quello spaccato, e lo inscriveva nei circoli imperfetti (e qualche volta anche perfetti, come in Say Yes, provate ad ascoltarla e vi sentirete come i bimbi cresciuti di un popolo alieno: nell’educazione dei piccoli non è previsto l’ascolto di Yesterday) di canzoni dallo scatto melodico impressionante.
Chi desidera saperne di più sulle canzoni di Elliott Smith può procurarsi i suoi dischi – Elliott Smith, Roman Candle, Either/Or, XO, Figure 8 e l’ultimo incompiuto From a Basement on the Hill, in uscita questo autunno. In più c’è la colonna sonora di Good Will Hunting – dove c’è Miss Misery, un miracolo compositivo in equilibrio tra la prima fase scabra, violenta e acustica e la seconda, più ricca di arrangiamenti complessi, orchestrali, in diretta competizione con i grandi classici del songwriting anglosassone – e in fondo le punte più ambiziose della sua produzione ricordano da vicino gli effetti di una seduta spiritica asimmetrica fra Cole Porter, George Harrison, Nick Drake e il Kurt Cobain unplugged che non ha avuto quasi il tempo di essere. Le canzoni di Elliott Smith rifiutavano di venire al mondo se non contenevano un intreccio armonico degno non solo di essere ricordato, ma addirittura di ricordare i più siderali momenti di fallimento e tenerezza disperata di tutte le creature che le ascoltano. Il merito era anche della voce, la voce intonata fino allo stordimento, la voce che sibilava veloce veloce quei keep safe from yourself commoventi e impastava in modo rabbioso quei ground, quei fallin’ on the ground, quei can’t make a sound.
Elliott Smith, come già si diceva di Landolfi per la lingua italiana, poteva far qualsiasi cosa con l’Ossigeno Sensato che gli usciva dalla bocca. Poteva incidere pezzi a cappella e permettersi di rifare Because dei Beatles con doppie voci più inattaccabili degli originali. Avrebbe potuto registrare una cover filologica e toccante di Pet Sounds, ed è sicuro che non l’ha mai neppure pensato, perché in quel disco c’è un esubero di paesaggi gioiosi. I paesaggi di Elliott Smith erano soprattutto tentativi di mettere insieme l’orrore di un incendio sotto i capelli e la speranza di venir risucchiato via da una di quelle pistole da doccia incastrate nei soffitti per spegnere il fuoco al primo filo di fumo. Voglio immaginare che sia passato da lì, la sua voce amava gli spazi stretti: che il mistero senza forma che sta dietro ogni voce non intaccata possa aver preso le sembianze dell’acqua, anche soltanto una volta, l’ultima, lungo l’attimo in cui vale la pena di credere negli idranti.
smith era un grande, davvero; ben scritto; ora vado ad ascolare…complimenti agli indiani, bel sito
Pitseleh è fantastica, ma tutto Smith è da ascoltare. Io ho avuto modo di conoscerlo meglio grazie anche a “Elliott Smith e il grande nulla” la biografia di Nugent. I suoi pezzi sono struggenti e bellissimi. Un pensiero per lui sarebbe stato gradito ma, nonostante la nomination, troppo poco commerciale. Facciamogli un po’ di pubblicità. Alla sua memoria.