Il lume dei diritti
di Andrea Inglese
“AAAAAAAARRRGH! GOOOOOOL! NOOOOOAAH! Era finito il primo tempo.
Sotto ventate di fuliggine, le squadre andavano verso gli spogliatoi. La lunetta del calcio d’angolo sparita, raschiata via, l’erba carbonizzata. La porta divelta, frantumi di palo e di portiere ovunque(1). Nel bar tutti prendevano appunti, gridavano, si abbracciavano commossi, versavano distrattamente birra nelle scodelle di arachidi salate. Nel bar, tra uomini, si discuteva con furia. E si facevano esempi. Molti esempi. In continuazione.
Qualcuno disse: “Dobbiamo capire!”
Qualcun’altro disse: “Avete capito? Dobbiamo capire!”
Uno, infine, salì sul tavolo, barcollando dall’emozione. Teneva i pugni stretti di fronte al viso, e piangeva, e rideva, e piangeva. “Finalmente, di nuovo, in GUERRA!”. E tutti dondolavano la testa, si agitavano sulle sedie, traboccanti di sentimenti, di letizia e di terrore, di beatitudine e nausea. “Dev’essere proprio questo il gusto”, pensai, e mi liberai di un grumo di saliva nel fazzoletto.
Non si era mai abbastanza in guerra, era sempre stata come una lunga attesa, un indugio, un’anticamera alla guerra. Tante partite poco amichevoli. I giochi sempre più duri, fallosi. Non si capiva mai. Non si capiva mai se fosse già cominciata, da quanto continuava, e quando ci sarebbe stato il fischio finale. Ma nel frattempo esultavamo, seppure nel dolore: qualcosa di nuovo cominciava, qualcosa di peggio.
E cominciammo a parlare. Parlavamo tutti, per gruppi, senza turnazione precisa, ma democraticamente, scambiandoci i tribuni, mescolando gli argomenti, tirando a sorte le soluzioni. E si usavano le carte, la morra, le enciclopedie tascabili, i fascicoletti di geopolitica, con le figure a colori, i disegni rotondi, baldanzosi.
Lo schermo continuava a trasmettere immagini. Era una vera poesia. Mai viste così tante, assieme, accavallate, che si entravano dentro, l’una nell’altra, sfondandosi, spappolandosi, per poi subito ricomporsi, gonfie e statuarie.
Si vedevano nuvole. Nuvole di continuo. In movimento. Come vanno loro. Che sembrano timide. Che pare sbandino. E invece vanno avanti. Riempiono ogni angolo. Assorbono la luce. La macinano. Nuvole dense, in una variazione cromatica sottile, ma continua, ciclica. Grigio ferro, antracite, grigio piombo, nero pece, acciaio, blu notte. Come rigonfiamenti giganteschi d’ovatta, sporchi, anchilosati, che s’alzano e ricadono. Invece hanno un loro sistema le nuvole. Lo capivo a poco a poco. Un loro micidiale, serrato, sistema. Al cui confronto le onde appaiono sussulti improvvisati e casuali. Sussulti di retroguardia: Le nuvole no.
Mi parlava soprattutto uno, sollevando il tessuto del discorso con foga, impennando le subordinate, spingendo le opinioni chiave verso la pausa del respiro, con gli esempi squillanti, a punteggiare le catene dei sillogismi, a fare da coda, da chiusa, ma per rilanciare subito dopo, con perifrasi a sesto acuto, che piovevano precise su esortazioni, ordini, preghiere. E c’erano i battimani, e quelli che scandivano il tempo con le nocche sul bordo del tavolo, e quelli con la punta del piede pestata a terra, in levare. E io lo seguivo, il mio interlocutore, sentendo che il suo discorso si sollevava, ampio e articolato, si slanciava verso l’alto. “SADDAM HA TORTURATO!”, riuscì a scandire, in un intervallo silenzioso e guadagnandosi l’ammirazione di molti.
Alcuni presero la chitarra. Le coppie che si tenevano per il bavero, e si urlavano contro, ricaddero a sedere come automi spenti, senza carica. Partirono le note, e le voci seguirono, limpide, quasi adolescenziali:
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sì dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?(2)
Il mio interlocutore disse: “MANCANZA DI LIBERTÀ”. E fu così che svenni. Forse per l’altezza a cui mi avevano spinto i suoi concetti, l’aria fredda di lassù, oltre i ghiacciai, e la stanchezza dell’intelletto. Scese il buio su tutto.
Mi risollevò una mano scheletrica, tremante. Un artiglio. Ero ancora in alto. Molto in alto. Tra le cime. In quella luce ed aria tersa che sgombrano la mente da ogni pensiero. Che infondono la calma. Che inteneriscono il cuore. Mi tirava verso di sé una suorina vecchia, con un volto ossuto e devastato dalle rughe. Gli occhi limpidi. Era Madre Teresa. “Vieni, stella” mi disse. La seguii. La mia mano nel suo artiglio. Camminava senza guardare davanti a sé, con gli occhi rivolti a terra, come a rigirarsi dentro un pensiero grave. Sembrava cadere ad ogni passo, e invece riusciva a storcermi quasi il polso, tanta era la sua forza.
Eravamo in un paesaggio aperto, africano, luminoso. Con l’orizzonte remotissimo e nitido, da dare le vertigini. Per terra, ogni tanto, scorgevo qualche povero e consunto oggetto domestico. E macerie, a piccoli mucchietti. E capre stese per terra, con le pance aperte scoppiate. Le interiora a nutrire mosche. Ma di tanto in tanto, comparivano anticamere lussuose, sale d’albergo ben arredate o bagni di discoteche, con specchi a parete, piastrelle blu e rubinetti all’antica.
Passammo accanto a due personaggi inquietanti. Mi fermai. Madre Teresa fece per continuare, assorta. Ma rimasi immobile. Si volse allora a guardare lo stesso spettacolo che stavo guardando io. Un uomo stava spingendo nell’ano di un ragazzino un oggetto di plastica oblungo. Il ragazzino era sporco, e indossava solo una maglietta di cotone. Era messo a carponi per terra, con il collo in tensione, gli occhi chiusi, strizzati. L’uomo era in maniche di camicia, chinato su di lui. Un quarantenne. Aveva una borsetta di tela ai suoi piedi, la chiusura a lampo semiaperta. S’intravedevano degli oggetti. Forse dei giocattoli.
“Madre è un maniaco. Bisogna fermarlo!” gridai.
“No, non è un maniaco. È un impiegato. Collauda su bambini e ragazzini materiale erotico, che poi viene venduto nelle catene dei sexy-shop, o per corrispondenza.”
“Ma è schifoso.”
“Certo che lo è. Vedi questo ragazzino? Guardalo bene, non ha più di undici anni. È povero e non ha famiglia. Viene da Bogotà. Per guadagnarsi da vivere fa questo mestiere.”
“Non possiamo fare qualcosa per lui?”
“Non disperare. Non dobbiamo disperare. Osserva bene la sua testa, le membra del suo corpo… Cosa noti?”
In effetti. C’era qualcosa di cui mi rendevo conto solo ora. Qualcosa di strano. Di incantevole. Un alone luminoso e multicolore sembrava inviluppare tutto il suo corpo, concentrandosi particolarmente intorno alla testa, che pareva aureolata, circonfusa da un plasma scintillante.
“Lo vedi adesso?” mi chiese Madre Teresa.
“Si certo, Madre. Come è bello! Cos’è?”
“È UN DIRITTO UMANO.”
“Cosa?”
“Ognuno di noi ne nasce provvisto: E non di uno solo. Esistono famiglie, anzi specie variatissime di diritti umani.”
“E questo di che specie è?”
“Bisogna saperli distinguere. Innanzitutto ci sono i fondamentali, detti anche ‘radicali’. Il diritto alla vita, alla libertà di opinione e di culto. Poi ci sono i ‘composti’, che costituiscono come gli armonici di una singola nota. Essi si dispongono a grappolo intorno ai fondamentali e a seconda delle circostanze acquistano maggiore visibilità, maggiore enfasi. Quelle modulazioni di rosa intorno al radicale oro, che vedi nel ragazzino, corrispondono al diritto ad un’infanzia felice. Oddio, ormai sono vecchia, e finisco per confondermi. Forse corrisponde al diritto allo studio… Comunque hai capito, no?!”
“Impressionante.”
Proseguimmo, io stordito e la mia guida come galvanizzata, a testa sempre bassa, con passo energico.
Ci furono i garage. Gli scantinati. Gli sgabuzzini. Le celle. Le latrine. Con le loro attrezzature solide, semplici, ma che durano anni. Quello seduto e i due intorno. Quello che non fa nulla, e i due indaffarati. Non si fermavano neppure al nostro passaggio. A meno che non fosse il momento della pausa. Del lavarsi le mani, del cambiarsi la camicia o del togliersi il grembiule. E del porre sulla piastra elettrica la caffettiera. Allora Madre Teresa ne approfittava. Faceva un passo verso la persona seduta. Si piazzava alle sue spalle. E con estrema cautela, come si fa nella stanza di un bambino che dorme, mi indicava la testa e mi bisbigliava qualcosa. Imparavo a poco a poco a distinguere gli aloni, le loro onde interne, cromatiche e pulsanti. Pochissimi erano gli aloni uniformi, ovunque fasce multicolori, zebrature, sfondi cangianti. A volte macchie forti, altre volte gradazioni quasi impercettibili. E Madre Teresa, con fare didattico, allungava l’indice e sussurrava: “L’orlo azzurrino è il diritto al giusto processo, la banda blu, più intensa, è un fondamentale: l’habeas corpus”.
Poi Madre Teresa si distraeva. I suoi occhi si facevano più sognanti. Quando mi riavevo, dall’ennesimo conato di vomito, mi tirava verso di sé. “Non ti ricordano qualcosa queste figure estenuate? Pensaci bene. Con il capo reclinato, le membra perennemente tremolanti?”. La guardavo ottuso. “Ma sì, sì… la Maestà di Simone Martini, a Siena.” E venimmo così a parlare di Duccio e di Simone Martini, del contrasto tra Firenze e Siena. Della grande sintesi di Giotto e Duccio tra stile gotico e stile bizantino. E delle semplificazioni del Panovsky. Ma la nausea non mi abbandonava più. Iniziavo a diventare scorbutico. Guardavo fisso a terra, per non sollevare gli occhi su di un nuovo sfacelo. Capivo adesso l’andatura della vecchia. E il suo sguardo si era ormai allenato a captare non le carni devastate, ma i contorni scintillanti. Alla fine glielo dissi. “Madre, il paese dei DIRITTI UMANI mi sta esasperando. Che ci faccio qui?” La vecchia mi scrutò meravigliata e severa.
“Attento, non c’è mondo più fiducioso di questo. Più spensierato. Ognuno qui nasce con il suo DIRITTO UMANO, anzi con la sua famiglia di diritti. E qualsiasi cosa gli accada, come angeli custodi essi sono presenti in lui. Come delle insegne, dei gonfaloni eterni, indivisibili e intangibili. Non capisci? Questo davvero conta. Non l’uomo imperfetto, vulnerabile, che sopporta infinite sevizie con scandalosa passività. Sopra questi corpi disfatti, buttati a terra come stracci, si staglia incorrotto il lume dei diritti. Distingui lo sfondo e la figura. Il nocciolo perdura, la polpa è caduca. Il DIRITTO UMANO non conosce sera, non conosce bosco nel quale smarrirsi, maschera che lo possa dissimulare. È un rogo che non conosce quiete né cenere.”
“Io voglio telefonare a casa.”
“Qui siamo fiduciosi.”
“A casa!”
“Non confondere preda e ombra. Il DIRITTO UMANO esiste, questo ci rende felici, riappacificati.”
Le diedi un pugno. Ma non guardando il suo DIRITTO UMANO. Altrimenti l’avrei mancata. No. Centrai il naso. Il caduco. La buccia. E qualcosa accadde, finalmente. Qualcosa di diverso.
Buio.
Buio di non so quanto.
Buio che volevo continuasse.
Invece.
Il buio imperfetto della strada. Anzi, la luminaria della strada. Ma la strega fuori dai piedi. L’aria pesante, quella del rasoterra, delle pianure fetide. Salivo gli scalini, diretto al grande centro commerciale. Gente comune in un senso e nell’altro. Un gruppo di giovani circondati da molti poliziotti in tenuta speciale. “Sono i giovani che pasticciano i cartelloni pubblicitari”, mi dice uno. E aggiunge solenne: “Gli antipub” (3). Qualche giovane grida, da dentro il cerchio dei poliziotti. Questi ultimi sono alti e forti. Delle montagne di carne allenata. E hanno attrezzi che pendono dalla cinta o che stringono in mano. I ragazzi hanno buffi cappelli in testa, sciarpe molto vistose, scarpe conciate, zainetti sulle spalle. Non si capisce che intenzione abbiano gli uni e gli altri. I ragazzi sono pochi, i poliziotti tanti. Questi hanno posteggiato lungo il marciapiede i loro pulmini. Qualcuno si è fermato a guardare. Si sente un grido più forte, ma non viene dal gruppo di ragazzi. Presso un lampione, c’è un tipo seduto a terra, quasi nascosto dalla massa dei sei o sette poliziotti, in piedi, che gli stanno addosso.
La situazione è confusa: le figure si muovono, ma a scatti e di poco. Poi un grido ancora più forte e una grande agitazione. L’uomo seduto si è buttato in avanti. Si vede solo ora il suo volto. Ha i capelli ricci ed avrà almeno quarant’anni. Scalcia e si getta a testa bassa contro i poliziotti. In gruppo gli saltano addosso e lo tempestano di colpi finché lo buttano a terra bocconi. Gli salgono sopra con i piedi e le ginocchia, tirandogli le braccia all’indietro e poi le gambe, come per incaprettarlo. Sembra che lo vogliano rompere, disarticolare. Sono efficaci. Un giovane si china poco distante, per recuperare la scarpa dell’uomo immobilizzato. Gli si lanciano contro due o tre poliziotti. Lo prendono a manganellate. Quello getta la scarpa, indietreggia, poi comincia a fuggire. Scivola per terra, ma i poliziotti non lo mollano. Piovono ancora colpi su di lui. Si rialza, salta tra due macchine posteggiate, ma viene riacciuffato subito e nuovamente colpito. L’africano che guarda lo spettacolo di fianco a me osserva: “Gli avranno spezzato i polsi.” Si riferisce a quello incaprettato, di cui si vedono solo i calcagni tirati a toccare il dorso delle mani. E sopra, premendo su sui arti come su leve di un macchinario inceppato, una mezza dozzina di giganti. Mi spingo avanti. Con passo regolare raggiungo il gruppo dell’incaprettato. Mi chino per rintracciare le membra del suppliziato. Scorgo finalmente la testa. La guancia a destra a terra, quella sinistra sotto uno stivale. Niente, neppure l’ombra. Strizzo gli occhi. Mi concentro. Niente di niente. Nessun alone, nessun aureola. Non lo vedo io lo spettro del diritto, ma neppure i poliziotti che gli sono sopra (4). C’è, o meglio, ci dovrebbe essere. Tutti ne siamo più o meno avvisati. Ma è invisibile. Forse appositamente si nasconde. Ci mette alla prova.
Note
1.La partita potrebbe essere quella funesta giocata a Nassyria. Forse, solo allora, ci si accorse che non erano amichevoli gli incontri tra il nostro esercito e il popolo iracheno.
2.Il patriottismo italico cova come brace sotto la cenere.
3.Fenomeno di contestazione nato in Francia e particolarmente presente a Parigi.
4.Possiamo fare la stessa constatazione nel caso di Carlo Giuliani, quando il carabiniere gli sparò in faccia. Si giustificarono sostenendo che il passamontagna impediva l’adeguata irradiazione del diritto alla vita. La maggior parte, però, dei massacrati dalla polizia alla scuola Diaz, nella caserma di Bolzaneto, e per le strade di Genova il giorno seguente l’assassinio di Giuliani, avevano il volto e il cranio scoperto.
(Pubblicato su Vertigine, n°6, 2005)
immagine di Heli Rekula
Però, bravo andinglè.
Che dire Andrea? Questa “visionario” e allucinato racconto è incredibile… il viaggio con la strega in mezzo ai diritti tipo aure new age è geniale, un capovolgimento totale dello spirito del sacro che affonda le radici nel male, l’etica che distoglie gli occhi e non può che guardare a terra per andare oltre. Mi tornano alla mente i versi di Rizzante:
“che cos’è il dolore
se non mancanza d’immaginazione?
e la storia?
idem
ripetiamolo vi prego,
come se fossimo della stessa stoffa
di uomini sconfitti alla fine di un assedio,
e non una delegazione di troiani da operetta
ansiosi di toccare i muscoli di achille”
Applaudo forte (all’invezione e alla tensione stilistica)!
A quando un libro di racconti?
Ciao,
Alessandro Broggi
riesce a riproporre lo stesso grade di noia delle poesie. ma quando chiudete visto che vi leggono in 10/15. – ah! potete dire ad inglese che qualcun altro si scrive senza apostrofo. anche l’altra volto glielo ho dovuto dire!…
“riesce a riproporre lo stesso grade (grado!) di noia delle poesie. ma quando chiudete (virgola!) visto che vi leggono in 10/15 (punto interrogativo!). – ah! potete dire ad inglese (“a” inglese!) che qualcun altro si scrive senza apostrofo (“senz’apostrofo”!). anche l’altra volto (volta!) glielo ho (gliel’ho!) dovuto dire!…”
SERRETTI! GRAVEMENTE INSUFFICIENTE! :-)
Emma, ti contesto solo l'”a” inglese. La “d” eufonica, anche se non seguita dalla stessa vocale, per quanto in disuso non è errata. E’ una questione di gusto personale. Di certo “Inglese” si scrive con la maiuscola!
La grave insufficienza comunque resta.
Firmato: uno dei 22 scrittori di NI (che, essendo i lettori 10/15, fa di noi una piramide rovesciata)
;-)
Puemette dix kanze para lu piciu
dedicated to I Iglesh
Tenet la spuma al labro et nun est sfogu
de febre ou maladie de l’intestina guera
me pare toto fumo e niente focu
nun est augiel parce que l’est trop a tera
ma poi rileggo il cummentario ardito
e dico me seria k’el Serret spera
que su questo nostro ed adorato sito
li pici sieno diezi o quinze ‘n locu?
(visto che i mille e plus so’ inteligenti)
effeffe (uno dei ventidue scrittori di NI)
ps
Bellissimo racconto Andrea, solo il corollario l’avrei omesso. Perchè mettere pali a tanta massa d’acqua e rivoli, correnti…
@ Gianni Biondillo
Avrei voluto precisare che trattasi di sottigliezza, poi ho lasciato perdere.
In effetti sulla “d” ho un dibattito in corso. Ovviamente io sono per l’abolizione: la “d” mi lega i denti e mi tira il collo. :-)
Sulle maiuscole non sono intervenuta di proposito.
(“Perché la Rete è la Rete!” :-)
Sul racconto la penso, più o meno, come effeffe.
Molto interessante, ma le note no. Le avverto come sovraccarico (ideologico e didascalico).
io sono per la d eufonica. Vecchia scuola. anzi sQuola.
oh maestro effeeffe ma che bella che è kuesta sua scrittura ‘brida. L’est vraiment tout affait bellissimà. Moi je voglio vous imiter. Bien sur. Really, I get it!
lello
Andre,
a me pure mi piace assi il racconto, a qualcun’altro (con l’apostrofo per solidarietà) no. Vedo. Ma sono gli stessi che trovano Piperno divertente. Lascia stare. da che ‘diverterà’ poi il buon Piperno. Mistero. Illuminaci tu EffeEffe!
Grande Lello, combattiamo una guerra giusta: “d” eufoniche per tutti!!!!
(ad esempio: “a esempio” fa schifo!)
;-) G.B.
Anche “ad esempio” fa schifo :-)
no no io trovo *ad esempio* addirittura sexy!!
lv
PS: quella poesia di Rizzante è una meraviglia di poesia! O no?
W Lello!
Quella poesia di Rizzante è una meraviglia, sì. Tutto il libro Lettere d’amore e altre rovine è una meraviglia…
Pardon! Constàto che siete in diciassette. La disgrazia. – Scusate: in diciassette: la disgrazia. – Scusate di nuovo. In diciassette: la disgrazia.
Serretti! Pure in matematica stai messo male? :-)
eppure ho conosciuto uno straordinario libraio a Parigi collo stesso cognome e con il nome geniale Michelangelo.
effeffe
puemett para lelo Voz et l’eufenism
Add à la dà lo cuerpo ed âme à arte
sine la baraquer l’idèe d’une barricade
de prupagandia ed idèe com de parte
ah ah ah edh edh hymne à la bousculade
@ Emma
“Stai messo male”?!… Che lingua è?
Bisogna fare attenzione: “essere” e “stare” sono due verbi molto differenti e non intercambiabili.
A tutti gli indiani: impartisco lezioni di lingua italiana gratis. Ditelo anche ad Inglese.
imparto, Serretti, imparto non impartisco, al massimo impartetti
e poi, agratis (in una parola, perbacco). Comunque sia e se tornassimo al testo dell’Inglese? Torno a ripetere che è una scrittura felice per una “situazione”infelice e questo a me piace molto. Come Bella Ciao. Canzone dal testo infelice, perchè pur trattasi di addio, di morte, di sepoltura, su un’aria felice, quasi da musette.
effeffe
Serretti, “stai messo male” è italiano da forum, da blog, da chat, prima ancora che “colloquiale”.
Se tu scrivi tutto un commento senza maiuscole (e ci sono punti fermi, e ci sono nomi propri di persona), come fai a vietarmi di scrivere “Stai messo male”?
Nel “rivedere” il tuo commento ho lasciato di proposito le minuscole “scolasticamente” sbagliate, e ho anche spiegato il perché.
Poi – a dirla tutta – STAI mi sembrava meno definitivo di SEI.
Ma se insisti…
serretti per me ormai è troppo tardi
ma qualcuno a cui impararlo vedrai che lo trovi
sulle note, prendo atto: le togliero’ a furor di popolo
@ inglese
ironia fulminante. come sempre.
@ emma
in lingua italiana ti sfido dove e quando vuoi. però voglio un arbitro che non s’inventi le regole come fai tu cazzara.
Serretti, hai vinto: “SEI”.
Serretti, “SEI” anche un aspirante poeta,vero?
Come già ebbi modo di dirti, a te non la si fa.
Scusa Serretti, ma sei proprio Serretti?
E se sei Serretti, stai parlando con me?
Mah.
Cmq ti faccio notare che qui è pieno di Emme :-)