Omaggio agli incendiari
di
traduzione di Andrea Raos
[Una giovane terrorista, accompagnata del poliziotto che ha organizzato la sua fuga dalla Germania, si ritrova a Lisbona per il tempo di un amore, prima di abbandonare per sempre l’Europa. Nel frattempo scrive una storia, di cui questo è l’ultimo capitolo. a.r.]
Non senza irritazione, Konrad Etzelkind puntò ancora una volta lo sguardo su una finestra del secondo piano, dove brillava una lampada. Il resto del ministero dell’Informazione era immerso nelle tenebre. Durante il giorno, l’edificio in calcare grigio aveva l’aria decrepita, ma con il tramonto acquistava una sua nera maestà, come se desiderasse rivaleggiare con la rudezza, con l’austera potenza architettonica degli Archivi Frankhauser. Il paragone si fermava lì : una somiglianza provvisoria, notturna, delle facciate. Gli Archivi sorgevano in un altro quartiere, distante più di ottocento metri, e le loro mura non erano state concepite per accogliere un fenomeno effimero come poteva essere, su una più vasta scala storica, la socialdemocrazia. Gli Archivi appartengono a un mondo diverso, con valori diversi, si ricordò Konrad Etzelkind; appartengono alle arnie, si obbligò a formulare. Le loro sale sotterranee, blindate, a prova di qualunque cataclisma, si estendevano fino alle fondamenta del ministero. Fino a qui, pensò. Qui… Sentiva sotto i piedi il prato scricchiolante, i fili d’erba assetati, la terra polverosa, ancora calda dopo l’arsura estiva della giornata. In ogni caso, ne era certo, nessuna galleria sotterranea serpeggiava, nelle viscere della città, con l’obiettivo di collegare il gigantesco universo degli Archivi Frankhauser e quello, insignificante, dei socialdemocratici. Se gli Archivi si trovavano in contatto con altri edifici, era con quelli che accoglievano le arnie; punto e basta.
La lampada brillava, tradiva una presenza sgradita, non conforme al piano di occupazione e agli orari. Disturbatori, da eliminare. Stando alle indicazioni consegnate alla polizia, la parte amministrativa del ministero si svuotava a fine pomeriggio, e le squadre di pulizia avevano lasciato gli uffici prima che facesse notte. Le porte erano allora chiuse da un collettivo esterno di serveglianza. Non c’era quindi alcun motivo per cui una stanza di questa facciata fosse illuminata a un’ora simile. Nessuno si sarebbe permesso di intraprendere una passeggiata turistica a un’ora simile. Nessuno, tranne i membri del gabinetto, che ci vivevano, dato che i loro appartamenti sovrastavano il bel cortile interno del ministero. Konrad Etzelkind si innervosì. Questa notte era stata scelta perché senza luna, e soprattutto perché i socialdemocratici sarebbero stati fuori casa sino alle prime ore del mattino. In effetti, il loro banchetto settimanale doveva continuare sino a tardi; il programma delle festività prevedeva una cerimonia commemorativa del comitato Frankhauser, seguita da una solenne consegna di decorazioni.
I socialdemocratici? ironizzò Etzelkind. Ebbene, se lo meritano di venire domati. Da qualche tempo, adottano atteggiamenti devianti, manifestano velleità di indipendenza. Collaborano troppo mollemente con noi. Ma cosa credono? Di disporre davvero del potere? Se la meritano una strigliata, ripeté. Una doccia fredda per rimettere il pollame al suo posto. Meritano che gli si mozzi la cresta. E gliela si mozzerà.
Attraversò la recinzione nel punto in cui il filo di ferro era stato troncato e risalì nella macchina che lo aspettava all’angolo del marciapiede. L’autista gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Verifichiamo il dispositivo e andiamo, disse Konrad Etzelkind. Tanto peggio per gli energumeni che fanno gli straordinari al secondo piano.»
L’automobile si mise in moto senza il minimo scossone, scivolò in silenzio, lentamente, come una barca su un canale, in direzione di via Berthold-Frankhauser. I camion con il materiale avevano parcheggiato sotto i castagni, lontano dai lampioni. Qualcuno aveva forzato il portale di entrata del parco, i battenti pendevano, spalancati, di fianco alla colonnina d’allarme in apparenza intatta, ma in realtà neutralizzata. Tutto era in ordine. Nessuno in vista, né sul marciapiede, né sui prati. La strada era calma come non mai. Superarono i camion dai fari spenti, costeggiarono il giardino, le siepi folte, le cancellate a punte larghe, un muro color sabbia, attraversarono di nuovo via Berthold-Frankhauser. La città era deserta come se fosse stato decretato il coprifuoco.
Su ordine del loro capo, due poliziotti sgusciarono sino al trasformatore del viale, per tagliare l’alimentazione elettrica del quartiere e avvitare a fondo le pompe di distribuzione del gas. D’improvviso, l’oscurità regnò sulle strade che circondavano il ministero. Due o trecento metri dopo l’illuminazione riprendeva, già incongrua e lontana.
«Toh! Un guasto nel settore!» commentò Konrad Etzelkind con un sorriso sardonico, e uscì dalla macchina. Si immerse nella siepe, scostò i rami, calpestò le prime zolle d’erba e alzò la testa. Non distoglieva lo sguardo dalla finestra del secondo piano che ora si confondeva con le altre nel bistro tiepido, spesso, della notte. Sulla destra, sentiva i camion infilarsi sotto i platani, l’eco soffocata dei motori a basso regime. Qualche ombra correva attraverso le masse di fiori ed i prati, senza sprecare energie per zigzagare o per saltare da un albero all’altro.
Di lì a meno di un minuto la squadra degli esploratori sarebbe penetrata al pianoterra dalla porta delle cucine, non protetta da una sirena.
Al piano, la famosa finestra si aprì, e qualcuno si sporse, verosimilmente per tentare di capire il motivo del guasto, o per valutarne l’entità. Etzelkind prese la mira e premette il grilletto. Il rumore, un sospiro, era percepibile solo a breve distanza. Un sospiro, o il gemito breve che emette, a volte, chi si agita nel sonno. L’uomo si sporgeva sempre; il proiettile volò verso di lui e lo colpì all’altezza giusta, perforandogli la gola e la base del cranio. Siccome il cadavere, senza gesticolare né gemere, si era afflosciato sul parapetto, una seconda forma apparve nel rettangolo più tenebroso dell’apertura; un uomo di corporatura media. Etzelkind lo vide avvicinarsi al suo compagno, afferrarlo per le spalle, tentare di spostarlo, esitare. Non si voltava verso l’interno della stanza, non gridava aiuto, segno che nessun terzo ladrone sarebbe venuto a prestargli man forte. Etzelkind lo lascò esitare ancora una frazione di secondo, poi lo prese di mira; di nuovo quel sospiro, di felicità o di sonno contrastato, e l’uomo sprofondò a sua volta, torace esploso, si rovesciò all’indietro, sparì.
Sulla facciata, un membro del distaccamento di copertura aveva cominciato a dipingere le iscrizioni con una mistura che avrebbe dovuto resistere al calore dell’incendio. Le firme sarebbero state leggibili, o ricostruibili, se necessario, al momento dell’inchiesta.
Compagnia mantenuta Inge Albrecht. Verena Goergens. Gruppo d’assalto Onore di Verena Goergens. Gruppo d’attacco Memoria di Katalina Raspe. Gruppo d’assalto ricostituito Onore di Siegfried Schulz.
Konrad Etzelkind aggirò i vasi di pittura e scrollò due poliziotti che non strappavano abbastanza in fretta la porta a griglia dell’entrata principale. Si era previsto di evacuare da lì una parte di ciò che si sarebbe rubato nel corso della spedizione. Infine, la griglia cedette. Fratturarono insieme la serratura con l’aiuto della loro chiave d’emergenza, demolirono la colonnina d’allarme che non aveva fatto in tempo a scattare, poi si intrufolarono nell’atrio vuoto. All’estremità opposta dell’edificio, nell’ala Jörg Frankhauser, si ripercuotevano gli echi di un’attività in cui precauzioni e consegne di silenzio erano degenerate. Si sentivano passare i carretti di carburante, esclamazioni di trionfo lacerarono la notte, stupide e vane. Konrad Etzelkind inviò immediatamente una staffetta con la missione di calmare le truppe. Poi salì al secondo piano.
La stanza che era stata illuminata poco prima si segnalava all’attenzione per via di una porta socchiusa, una fessura grigia che divideva lo spazio nerastro del corridoio. Etzelkind scostò il pannello ed entrò. Si trattava di un ufficio abbastanza sobrio, benché il mobilio fosse morbido e provvisto di cuscini di velluto, come si conviene a natiche socialdemocratiche. Un luogo anonimo, informale, di incontri, senza destinazione particolare. In piena notte, due semisovversivi della socialdemocrazia si erano piazzati qui, per adempiere ad una bisogna che gli alveari condannavano; per ignoranza, per ingenuità più che per impudenza, non avevano nemmeno tirato le tende. Avevano udito delle voci, o registrato la loro conversazione, e nel momento in cui la lampadina si era spenta avevano mugugnato una frase di dispetto, poi si erano diretti verso la finestra. Qualcosa li aveva allora fulminati. Giacevano ora su un ghiaietto di dimensioni e colori inconcepibili. Dove si trovava questo ghiaietto? Al centro o alla periferia della morte? E peraltro, cosa importava? Erano rannicchiati, ciascuno a suo modo. Le loro spoglie si sarebbero ben presto degradate e fuse nelle fiamme. Konrad Etzelkind afferrò per le ascelle quello che pendeva sul bordo della finestra come una marionetta, e lo gettò di fianco al suo compagno. Dopodiché, chiuse la finestra.
Sul tavolo, c’era un registratore, con un nastro inserito tra le pinze del meccanismo e altri rotoli, altri cilindri, aperti e posati in disordine, un po’ dovunque attorno al coperchio in legno verniciato. Ecco cos’è, pensò Etzelkind. Rotoli, sui quali erano incise voci, e che venivano piazzati poi in un meccanismo inverso, che riproduceva l’incisione nell’altro senso, restituendo le vibrazioni la cui impronta era stata conservata nella cera. L’idea di un’impronta sonora non era più difficile da capire di quella di un’impronta luminosa fissata su sali d’argento, ma la logica di Etzelkind non ammetteva il processo di restituzione del suono. Era come se una fotografia, per esempio, avesse potuto essere eccitata in un certo modo per ricreare la scena originale, nello spazio e nel tempo; come se la fotografia di una candela potesse illuminare. A dir poco assurdo.
Ma insomma, si lamentò il poliziotto. La sua missione non consisteva nel risolvere, in quell’ufficio silenzioso, enigmi tecnici che lo superavano. Cessò di esaminare l’oggetto e esplorò i muri. L’armadio conteneva una piccola serie di cilindri di cera, ma non si trattava della collezione del consigliere Markus Rückert. L’assenza di catenaccio, di blindatura, lo intrigava. Rivelava la disinvoltura attuale, l’irresponsabilità flagrante del ministero dell’Informazione. I socialdemocratici neppure si sognavano di dissimulare, non erano neppure coscienti della loro colpa. La loro colpa, sì; qualunque manifestazione creativa, qualunque traccia di intelligenza doveva essere depositata, in forma imperitura, scritta, agli Archivi Frankhauser, in modo da poter essere consultata, un mese, cinque secoli o trentamila anni più tardi, da poter essere sceverata, soppesata, analizzata, da coloro che desiderassero conoscere la verità sull’uomo del Rinascimento o stabilire un ritratto fedele della nuova era storica. Da qualche settimana, qualche mese, questa macchina e questi rotoli erano apparsi. Utilizzandoli, costituendo per loro stessi una collezione di voci che non veniva instradata verso gli Archivi Frankhauser, i socialdemocratici attentavano a uno dei fondamenti culturali del Rinascimento. E poi ancora, completò Etzelkind. Le arnie ritenevano che la registrazione delle voci non parla all’intelligenza come un testo; si tratta di un documento effimero, che va comunque trascritto per essere studiato. E poi ancora, aggiunse : arrogandosi il diritto di avere archivi privati, incontrollati e incontrollabili, la socialdemocrazia ha dimenticato che non è altro che un valletto belloccio delle arnie. E poi ancora : della lezione di stasera, il valletto se ne ricorderà almeno fino alla fine del secolo.
E sorrise, un’impercettibile modifica alla giuntura delle sue labbra chiuse da stalker : l’azione, di giorno come di notte, gli piaceva.
Dall’altra parte del corridoio, le squadre demolivano con abilità qualunque catenaccio, resistenza o serratura. Non scambiavano parola, per contro l’aria crepitava sotto il tumulto delle rotture, delle frizioni, degli scoppi. Etzelkind mormorò un ordine e tre ombre lo incrociarono, si introdussero nel piccolo ufficio, al fine di sfigurare i cadaveri e mascherare la firma troppo visibile dei proiettili. L’apparecchio e i rotoli, loro, sarebbero ripartiti con i camion; altre ombre si incaricarono di portarli giù.
Il ministero accoglieva ad un tempo i locali amministrativi e le abitazioni ufficiali. La parte ufficiale dell’edificio dava sul parco. Su questa facciata, ala dopo ala, si succedevano delle stanze confortevoli, senz’anima, propizie all’assopirsi dopo pranzo, alle avventure di segreteria e al ricevimento in ghingheri dei visitatori. Dedicandosi alla seconda metà dell’edificio, in cui il pubblico non era ammesso, i poliziotti scoprirono delle stanze dal carattere ben diverso, orientate per la maggior parte verso un elegante cortile interno, con fontane e arcate : un mondo la cui ricchezza era insospettabile dalla strada, cosa che ora la rendeva ancora più sconvolgente. Saloni ricchi, ovattati, vellutati, decorati da ritratti della famiglia Frankhauser, biblioteche, anfiteatri privati, gonfi di drappeggi e di vanità, appartamenti in cui talvolta si doveva mettere a morte qualche ciambellano, fra gli ori e i guardaroba, nelle tenebre dal profumo di rosa, di legni preziosi, boudoir, camere, dove talvolta si doveva ridurre al silenzio qualche concubina di cui la polizia aveva sempre ignorato l’identità e di cui la polizia avrebbe ormai per sempre ignorato l’identità, qualche amante segreta che si doveva, sui tappeti di lana morbida, fra i tavolini scolpiti, i capezzali di piuma fine, le seggiole di cuoio martellato, ridurre al silenzio, poi smembrare, sfigurare in tutta fretta, fra i cuscini ricamati e gli acquamanili infranti, in fondo a stanze da bagno oscure e vaste, in cui si sarebbe potuto, senza i punti di riferimento del marmo e dell’oro, smarrirsi.
Ma tutto ciò non appassionava Konrad Etzelkind, perché lui cercava, da qualche parte nel dedalo, il luogo in cui fossero in fila, per scaffali interi, i misteriosi e colpevoli cilindri di cera. I rotoli della collezione che, unico fra tutti i socialdemocratici, il consigliere del ministro aveva pensato di accumulare. I rotoli della collezione Markus Rückert (soprannominato «Gräulicher Dreck» nei libelli della comune Elise Dellwo, soprannome che si trasformava in «Grelak-drk» nel cuore degli scritti in codice del distaccamento Infernus Johannes)…
Si mise a frugare nelle biblioteche dei saloni, rovesciando i mobili, strappando le assi, facendo volare verso il pavimento in legno, nei fumoir e nei tenebrosi gabinetti di lavoro, i volumi dal forte odore di polvere, lanciando attraverso la notte i fascicoli, i quaderni dalla copertina nera, i manoscritti graffettati, i dossier chiudi da cordoni elastici. Una lava bollente, l’acida rivolta di Elise Dellwo, le grida pamphlettistiche della sovversione colavano da ogni gesto distruttore di Konrad Etzelkind, lo nutrivano, intanto che cercava invano, e con violenza crescente, i cilindri pirati, giustificavano molto a proposito lo scasso ed il tumulto dello scasso. «E noi non rinnegavamo alcuna granata abbagliante e continuavamo», urlava il commando Ulrike Siepmann, il più devastatore fra gli eteronimi della comune Elise Dellwo, «a piazzare sul loro cammino macchine infernali, e persistevamo ad accarezzare col lanciafiamme la loro opulenza centrista, e a strappare la scorza dura di questa scena in cui sfilavano, e a dare addosso a tutte queste ombre lardose che troneggiavano al potere per mille anni, che schiacciavano per mille anni, sotto la loro pancetta ben nutrita, lo spirito di scoperta e di rivoluzione, prostituendo per mille anni l’ideologia del Rinascimento, e continuavamo ad avere come progetto di smascherarli, di graffiarli, di far sbiadire sino al nulla i loro sbiaditissimi tratti, di squartarli a solchi larghi, di distruggere a cenere le loro fortezze di vernice molle, contavamo di raspare via ogni loro menzogna, affinché non potessero più ridacchiare immodesti sotto le loro corone di cartone, desideravamo che si incendiassero, che fiammeggiassero, che si spegnessero.» E si fracassavano le rilegature, scoppiavano le copertine, si sparpagliavano i fogli che non rischiarava nemmeno la torcia della squadra, perché a Konrad Etzelkind non importava della luce; le sue rétine esercitate vedevano bene, malgrado la densità dell’ombra, adocchiavano bene, passando, i titoli. Le loro pretese, pensò, di rivaleggiare d’un tratto per ardore culturale con le arnie, di modellare, qua e là, pietose, piccole repliche degli Archivi Frankhauser. Invece di accontentarsi della loro corona di cartone, si indignò.
E di nuovo Ulrike Siepmann; invece di accontentarsi dei vantaggi che ha trasmesso loro la famiglia Frankhauser, «i pantaloni di drappo grigio, le scarpe principesche, il sorriso da piazzista, le guance flaccide, la lingua vispa e salace, il ciangottio poroso ma di grande fluidità, le calze di seta grezza, il sopracciglio da conquistatore, il seno proteso alla medaglia, la retorica macchiettata di sublime, la biancheria intima offerta da una cooperativa lussuosa, le mani alfabetizzate ma inadatte al duro lavoro della letteratura, le trippe mantenute da bravi medici, il cappello di castoro alla moda del secolo scorso, la figura grassottella con distinzione, la cravatta blu d’inverno, azzurra a primavera, il gancio sulla nuca, argentato e solido, là dove si attacca il filo del marionettista. »
Finalmente, giunse alla collezione Markus Rückert. Il tempo era volato; il ministero era stato interamente investito, i testimoni erano stati eliminati, l’odore dei bidoni di carburante, che di lì a poco sarebbero stati rovesciati, saliva dal pianoterra, pesante e sgradevole. Le squadre si ritiravano una dopo l’altra, curve sotto le casse di documenti o trasportando, in sacchi, le teste di questo o quel cadavere la cui presenza tra le rovine all’alba avrebbe complicato il compito degli investigatori : anche leccata tutta una notte dalle fiamme, una testa importuna può dire molte cose. I cadaveri meno chiacchieroni giacevano sul tappeto, ma sfigurati, per precauzione.
La collezione non aveva nulla di imponente, ma rappresentava ore e ore d’ascolto, giorni, settimane forse. I cilindri si somigliavano tutti, in misura scoraggiante. Per la maggior parte erano protetti dalla polvere all’interno di astucci in cartoncino rigido, bianco e nero, sui quali vagavano iscrizioni a matita. Nel quadro privilegiato di questo appartamento, una tale sobrietà aveva delle arie di ipocrisia sdegnosa e suprema rispetto al mondo reale del Rinascimento. I poliziotti lo capivano e, senza voler coscientemente essere i simboli oscuri dell’uomo semplice, laborioso, disciplinato, dell’uomo spartano e produttivo del Rinascimento, ammonticchiavano questo bottino con una brutalità istintiva, vendicatrice, esasperata, di cui non avevano fatto mostra nei confronti dei libri. Etzelkind li richiamò all’ordine. Aiutava a riempire le casse, decifrando di tanto in tanto un’etichetta che, un istante dopo, si ritrovava nascosta sotto un’altra bracciata di imballaggi.
Viste le circostanze, nessuna selezione era possibile. Le indicazioni a matita si riferivano ad àmbiti tipicamente socialdemocratici e futili, ma si sarebbe dovuto verificare, ascoltando i rotoli uno a uno, se Markus Rückert non aveva in qualche modo mascherato i titoli. Considerazioni sullo spirito delle leggi e l’eredità dei Frankhauser, lesse il poliziotto. Discorso di Franz Frings sulla concorrenza. Werner Frankhauser ed il problema dei giardini nelle comunità urbane. Risposta di Julius Freisler ai suoi detrattori. Berthold Frankhauser : la società e noi, lesse Konrad Etzelkind. Strana invenzione, rifletté. Le voci restavano mute nelle loro buste, restavano inerti, illeggibili, sospette, non sarebbero esistite di nuovo a meno che i servizi speciali degli Archivi non le trasferissero su un supporto, più naturale, di carta. Strana, ridicola invenzione… I Frankhauser ed il rifiuto del parentalismo, lesse.
Il giorno prima, era capitata una disgrazia al collettivo artigianale che aveva messo a punto l’incisione sonora e la riproduzione delle vibrazioni ipnotizzate nella cera. Appena prima di essere spezzettato ed evaporato, il collettivo aveva dovuto enumerare, con grande dovizia di dettagli, i collettivi di tecnici che erano stati a conoscenza dei loro lavori; aveva dovuto altresì confessare il numero di apparecchi che aveva costruito (in realtà, non più di quattro paia), come anche il nome degli acquirenti. È solo allora che era accaduta la disgrazia; benché incatenati a dei barili di esplosivo, gli artigiani avevano voluto giocare con dei fiammiferi a frammentazione…
Willy Frankhauser : Sempre più avanti verso l’uguaglianza fra gli uomini, lesse. Un dilemma, lesse : governare al centro, o ricentrare il governo. All’improvviso, sussultò; aveva chiuso la mano su un cilindro la cui etichetta era vergine. Subito, come se il gesto andasse da sé, lo mise nella tasca dell’impermeabile. Davanti a lui, l’ultima squadra scompariva con il suo fardello; gli alloggi devastati odoravano di petrolio, segatura metallica, stoffa.
Sul resto della collezione Markus Rückert, su tutto ciò che non era stato portato altrove, per mancanza di spazio, per mancanza di tempo, su decine di voci fissate, congelate, versò il contenuto del bidone che un ausiliario gli aveva appena portato. Innaffiava con cura, affinché nulla sfuggisse, di lì a poco, alle lingue golose, gialle, picchiettate d’oro, bordate di bianco, striate d’arancio, avide, pallide, un sommesso brontolio, folleggianti, d’un tratto cremisi, riunite, d’un tratto azzurre, venate di sole, venate di stelle, crepitanti, sorde, scherzose, schiumanti, d’un tratto scarlatte, insaziabili. Le istruzioni delle arnie l’avevano lasciato libero di scegliersi uno stile, di firmare o no l’attentato; a condizione che distruggesse ciò che, della collezione Markus Rückert, non avesse preso la strada degli Archivi Frankhauser. Poteva agire come voleva. Non si tratteneva dal farlo.
Restituì la latta all’ausiliario e si scostò. Senza fretta, l’orecchio teso, cominciò a scendere le scale del secondo piano. Più nessuno si aggirava per gli appartamenti massacrati, tranne la quindicina di abbandonati a cui la squadra di rifinitura aveva lacerato la maschera. Eccomi, pensò, come il valletto di Morog-Ahn alla fine del giorno.
Tastava nella tasca l’unico rotolo che sarebbe sopravvissuto all’operazione : una voce assente, per sempre indecifrabile, che avrebbe contemplato a casa sua in segreto, prima dell’aurora, di cui avrebbe osservato le scanalature incomprensibili, le sculture imbronciate, di cui avrebbe letto, privato di qualunque realtà, il messaggio; di cui avrebbe immaginato, nella solitudine e la follia, il lamento od il riso, a lui rivolti; una voce amica, non socialdemocratica, alla quale avrebbe attribuito un nome.
Un nome? Uno di quelli, forse, che avrebbe ben presto scoperto la pattuglia della polizia, che si sarebbe precipitata sul luogo dell’incendio, che sconcertata avrebbe percepito, attraverso le cascate di fumo, attraverso le torce divoratrici, sulle facciate, avrebbe distinto delle sigle ben leggibili, che non lasciavano aleggiare alcun dubbio sull’origine sovversiva dell’atto criminale. Verena Goergens. Inge Albrecht. Katalina Raspe. Siegfried Schulz.
Fuori, i camion strusciavano la ghiaia dei viali, pocedevano in direzione della via Berthold-Frankhauser, si allontanavano. La notte era prossima a finire; fra due minuti, nel bel mezzo della città addormentata, il ministero dell’Informazione si sarebbe incendiato.
La polizia aveva evacuato la costruzione. Si udiva parlottare l’ultimo gruppo, quello che era incaricato di lanciare stracci infiammati in fondo ai corridoi.
In quel momento, l’ultimo paio di macchine sonore ancora intatte viaggiava, ben sprofondato nel suo bozzolo di protezione. Il furgone che lo trasportava avrebbe ben presto varcato il portale di un deposito, avrebbe costeggiato una strada tracciata col filo spinato, avrebbe tagliato di sbieco il territorio di una caserma, avrebbe preso una via deserta, anche lei resa ermetica ed impenetrabile dal filo spinato, sarebbe avanzato, si sarebbe presentato alla porta delle arnie, si sarebbe lasciato inghiottire, sarebbe svanito.
Konrad Etzelkind sentiva sotto le falangi l’angolo netto, un po’ rugoso, formato dall’imballaggio di cartone. Poteva gettare l’oggetto dietro di sé e non pensarci più, abbandonare il pianerottolo del primo piano, raggiungere l’atrio, fare un segno di incoraggiamento agli incendiari, correre sul prato e risalire in macchina. Ma sapeva che avrebbe conservato in tasca il rotolo strano, e questa certezza lo rendeva pensieroso : un tale latrocinio, benché veniale, tradiva l’etica della polizia.
È per questo che, malgrado il fetore stordente della benzina, malgrado l’imminenza delle fiamme, si attardò sui gradini superiori della scalinata.
Se riuscisse a fuggire in tempo dalla costruzione, nota un testo anonimo, repertoriato negli Archivi Frankhauser con il numero di catalogo Setter WOLLF 1016, se mai riuscisse a precipitarsi giù dallo scalone di rappresentanza e ad attraversare la fornace inattraversabile dell’atrio, sarebbe, alle prime luci dell’alba, seduto nella solitudine e la follia : al centro della cellula quasi monacale che nella caserma gli garantiva, come a tutti gli ufficiali di alto rango, la tranquillità ed il silenzio, gli garantiva, come a tutti gli stalker della sua razza ambigua, la solitudine e la follia. Resterebbe immobile, meditativo di fronte a questo discorso dai rilievi che ormai più nessun orecchio umano avrebbe più potuto vincere o comprendere, resterebbe immobile e meditativo, pietrificato nella posizione di una mantide di fronte ad una perla. Sul tavolo sarebbe caduto l’astuccio vergine di qualunque iscrizione, che autorizzava dunque ad ornare di meriti meravigliosi, di valori cantanti ma inaccessibili, le creste e le valli bulinate nella cera; afferrerebbe una matita, annerirebbe l’etichetta con qualche parola sorta dalla sua propria notte.
Fuori, la caserma si agiterebbe, svegliata di soprassalto dall’annuncio a malapena credibile di una catastrofe occorsa al ministero dell’Informazione; il cielo, di già, si schiarirebbe. Sul tavolo di nuovo cadrebbe l’astuccio bianco e nero, che prometterebbe, all’ipotetico, all’improbabile ascoltatore, la voce di Katalina Raspe, che prometterebbe una rivelazione di Katalina Raspe sulla sua morte, sulla morte della società, sulla morte della polizia, sulle arnie. Non essendo di servizio quel giorno, non si occuperebbe del tramestio di là della porta; resterebbe immobile, sognante.
Sul tavolo, le sue mani riposerebbero, mal liberate dalla sporcizia che impregnava il bidone; le sue unghie manterrebbero, come poco prima aveva visto che la macchina doveva mantenerlo, il cilindro un po’ brunastro, dal profumo di petrolio, forse dovuto alle emanazioni del sabotaggio, forse dovuto a una qualità naturale dei suoi elementi chimici. Lentamente, farebbe girare il cilindro su sé stesso, osservando le venature taciturne, imbronciate; immaginerebbe, ricreata per miracolo intorno a lui, la voce scomparsa di Katalina Raspe, che direbbe : «In via dell’Arsenale, le forche abbondano.»
O che racconterebbe :
«In aprile, il laccio si stringeva attorno ai santuari della banda. Il Sichersheitgruppe aveva riempito le strade di trappole destinate a catturare e finire il suo nemico terrorista. Le sezioni mobili di intervento moltiplicavano gli arresti e gli assalti contro i nidi di guerriglieri. Si sentiva la pioggia gorgogliare nei sottosuoli dei servizi di ricerca. La luce inondava il tavolo bianco. Lui sfogliava delle schede segnaletiche non aggiornate, delle foto scattate durate manifestazioni antiamericane. D’improvviso, era rimasto di sasso. Invece della studentessa di lettere Ingrid Vogel, una lupa lo squadrava, lui, Wellekind. Senza commenti, aveva considerato la fotografia, mentre un lampo ruvido, indecente, gli lacerava i nervi, faceva a pezzi la sua fedeltà al mondo, appiccava il fuoco, dall’infanzia alla vecchiaia, alla sua vita.»
O che esclamerebbe :
«Ti vedi già seduto davanti ai tuoi telefoni e alla tua lavagna a muro, e giubilante, circondato da tutti i tuoi sporchi amici poliziotti del Sichersheitgruppe? Ma guarda un po’! Sembri dimenticare che anche noi siamo stati cacciatori. E la preda se la faceva nelle mutande, no? Sì o no?»
Pazienterebbe ancora; al di sopra della caserma, le nubi si caricherebbero di rosso e le colonne di fumo, fluttuanti sul ministero sinistrato, si imporporerebbero. Soffierebbe sui solchi minuscoli, per evacuarne i grani di polvere e restituire, alle inflessioni della sua interlocutrice, tutta la loro purezza. Per ore, in seguito, trascriverebbe, frase a frase, questa conversazione con una morta.
Le sue mani, la carta, la cera.
Se mai riuscisse a ritardare di qualche secondo il gesto impaziente degli incendiari, a ricordare loro che al di là dei gradini gravidi di benzina il loro capo si gingillava, al limite dei saloni devastati, se mai potesse raggiungere il prato prima dell’istante in cui l’universo d’improvviso esploderebbe, si deformerebbe, si torcerebbe ringhiando, se mai riuscisse a prevenire, di un soffio, gli incendiari, potrebbe mettersi al suo tavolo da lavoro, come prostrato, come addormentato. Esaminerebbe con attenzione le sue falangi nere, il foglio grigiastro, il rotolo inerte e giallo. Il cielo, fuori, sarebbe diverso. E dopo aver trascritto, dunque, frase a frase, questo dialogo con una morta, passerebbe una qualunque fiamma sulla superficie della cera per, malgrado il suo imponderabile tradimento, non disobbedire alle arnie.
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Eravamo giovani allora, aveva scritto Ingrid su un foglio di carta da lettere che era caduto per terra e che non aveva raccolto, perché non le interessava, e che ora giaceva chissà dove tra il letto e il comodino, nell’ombra traversata senza sosta dalle luci della strada, e nel calore che appesantivano gli odori dei mobili d’albergo e dei tendaggi, e gli odori dell’umidità dei corpi, di lenzuolo umido, di sperma, e nei mille rumori notturni di conversazioni vocianti sui marciapiedi, di televisioni vociferanti e vocianti, di motori, e per batterci contro
Aveva gli occhi spalancati e respirava, attenta al proprio respiro, cercando di percepire il proprio respiro cammuffato e disturbato dai rumori della città e dal crepitio dell’acqua dietro il tramezzo, cercando di non pensare ad altro che al proprio respiro.
E questo, una verità elementare la cui grossolanità non sfuggirà a nessuno : niente di meglio di una bella doccia per isolarsi dal mondo e riflettere.
Kurt si era nascosto sotto la doccia e rifletteva, ma, per abitudine, aveva fatto in modo di rifugiarsi da qualche parte che non fosse in sé stesso, più in profondità sotto il getto o forse in disparte, in una sfera immateriale in cui la sua ironia restava intatta, in cui il suo divorante cinismo non aveva subito alcun danno, in una sfera in cui per natura lo smarrimento perdeva forze; stava da qualche parte dietro l’acqua, o all’interno del fiotto scrosciante, e ascoltava l’acqua ricadere ai suoi piedi e percepiva la pozza d’acqua pulita, irta di crateri mobili, si abbandonava tutto al rito della doccia prolungata, e al tempo stesso, da un osservatorio sfasato, paradossale e strettamente filosofale, esaminava l’essere ormai torturato, il poliziotto ormai assalito dai dubbi, il bulldog innamorato e preda della follia che scivolava sotto la protezione di questa pioggia tiepida e così effettuava un torbido ritorno ai liquidi puri, primordiali; l’esaminava e si trovava d’accordo con lui, non ammetteva più la prospettiva dei baratri che avrebbero dovuto separarlo da Ingrid. All’interno della sua passione per Ingrid, che già l’aveva condotto all’illegalità e al pericolo, aveva varcato un nuovo cerchio in direzione del centro indistinto in cui tutto si consuma, seguendo un cammino di cui poteva definire le tappe, l’attrazione folgorante, l’amore condiviso, poi la passione epica a causa della quale aveva concepito questo spaventoso piano, quindici o vent’anni di abissi e dieci o quindicimila chilometri di abissi, poi questo stato caotico in cui odio e felicità frenetici si allacciavano di fronte all’orrore della caduta; e infine questo nuovo paesaggio; aveva visto e valutato la demenza che si celava in Ingrid, l’aveva contemplata da vicino quando combatteva con tutte le forze per non lasciar trasparire la sua disperazione, e invece, come ne aveva carezzato per un attimo l’eventualità, di ritirarsi verso un cerchio più ragionevole, invece di abbandonare Ingrid alla sua sorte e di preoccuparsi di salvare la propria, invece di ordire in tutta fretta e a sua grande vergogna un sordido piano da cui sarebbe emerso senza macchia, di nuovo poliziotto modello alla testa del Sichersheitgruppe, intanto che Waltraud Stoll sarebbe stata gettata ai lupi e ai bulldog al primo scalo della sua nave di perdizione, o una qualunque altra sordida variante di questa sordidezza, aveva deciso alla fine di strapparsi a tutte le pesantezze solenni sulle quali si era costruita la sua vita, e di rompere con il sistema di cautele e di perfidia a cui si abbeveravano da un lato la certezza della sua immortalità personale, unica filosofia che permette di giungere senza ostacoli alla morte, e d’altra parte la sua intima percezione delle leggi fraudolente, ipocrite, che governavano la società; aveva risolto di smantellare le derisorie linee d’orgoglio che ordinavano la sua esistenza e di sprofondare, con Ingrid, sino in fondo al cerchio pirata della passione, il cerchio – senza dubbio – finale, in cui audacia, vigliaccheria e vertigine da teste calde si confondevano, e in cui il senso stesso della tragedia e della desolazione, della pace felice, della furia, del riso, fatalista o no, si dissolveva e si sbriciolava, perché era un cerchio che precedeva la morte, che chiamava la morte da ogni poro o meglio, a causa della vicinanza estrema del nulla, indifferente tanto alla morte quanto alla vita, indifferente al passato, al presente e al futuro, tanto indifferente al tessuto dello spazio e del tempo quando può esserlo un lasciarsi andare sognante nel mezzo delle fiamme.
e per batterci contro la schifezza umana, contro l’assurdità del mondo, contro tutte le armate non rosse, contro il ventre insolentemente sazio dell’America, contro il ventre insolentemente sazio dell’Europa, contro la cattiveria umana, contro il capo dei capi, contro il denaro totalitario, contro tutte le guerre non di liberazione, contro la democrazia totalitaria, contro il maiale occidentale, contro la buona coscienza, contro la stupidità, contro la vasta prostituzione socialdemocratica, contro l’ignavia, contro gli affamatori del terzo mondo, contro
Si era insaponato e sciacquato ma non interrompeva né la canzone, né la danza dell’acqua che scorreva e continuava, come una macchina da dimostrazione troppo ben regolata, ad aspergersi, secondo un ordine immutabile, un po’ spalle cima della nuca ascelle petto sesso (raccogliendo una parte di questo, con tutti gli organi annessi e connessi, nell’incavo della mano e fabbricando così, con un gesto da ritardato mentale, una vasca in cui gorgogliava un’acqua oscena), un po’ gambe e natiche; l’acqua scorreva, edificava un qui e ora privato in cui poteva muoversi, tagliato fuori da qualsiasi realtà dolorosa; la nuca, le ascelle (anche lì la mano, destra o sinistra, costruiva un abbozzo di vasca), il petto; un ciclo completo ricominciava; sulle cosce, i peli biondi prendevano toni d’alga scura; si vestiva d’acqua, così come quelli che subiscono un incidente stradale, o i bonzi contestatori, espulsi dal destino ai margini del mondo, si vestono di fuoco, per loro massima gloria, incomprensibile a chi non sia fenice. Al piano superiore, qualcuno aveva fatto scorrere la tenda di vinile e manipolava i rubinetti stridenti. L’installazione vetusta si risentiva di questa agitazione; il raffreddamento degli umori del getto riportò Kurt ad una sfera meno astratta. Sotto la luce cruda della stanza da bagno, si vide all’improvviso riprodurre per l’ennesima volta il suo gesto da esibizionista, si vide fantasticare su Ingrid e provare ancora il calore irradiante dell’amore, e, siccome assaporava di nuovo la soddisfazione virile, e del tutto risibile, e del tutto indicibile, della turgescenza ricompensata, esitò per qualche secondo supplementare, mentre l’acqua diventava bollente, e poi flebilmente tiepida.
Si asciugò, di fronte allo specchio su cui non si era condensato vapore, spense ed entrò in camera.
contro la stampa corrotta, contro gli sfruttatori del terzo mondo, contro gli schiavisti, contro i trafficanti di carne umana, contro le Chiese dovunque esse siano, contro gli operai troppo zelanti, contro le aquile imperialiste, contro gli schiavi contenti di esserlo, contro i massacratori dello spirito, contro i ricchi, contro tutte le guerre non rosse, contro il complesso industrial-militare, contro il re del pollo, contro l’ex-SS riciclato, contro
«Vuoi che scenda alla reception per chiedere che ci sveglino presto? Alle sette? In modo che possiamo approfittare della mattinata? dissi.
– Certo, sì» approvò lei, su un tono quasi leggero che ci sosprese entrambi e ci fece quasi sorridere, «Approfittiamo della nostra ultima mattinata».
Tutte le lampade erano spente, ma la camera era rischiarata dai riflessi provenienti dalla strada e somigliava a uno scenario espressionista, nelle scene notturne in cui le stanze sono bagnate dall’inevitabile luce lunare. Un lampione vicino tremava e sfrigolava, aggiungendo, alla luminosità contrastata che filtrava dai tendaggi, una nota nervosa, snervante. Malgrado l’ora tarda, voci forti risuonavano, inframezzate alle sirene, i clamori e le fucilate di uno sceneggiato poliziesco. L’aria stava diventando piacevole; dopo il crepuscolo, una brezza che soffiava dall’estuario l’aveva ripulita dalla sua febbre.
Katalina Raspe cambiò posizione sul cuscino, ripiegò verso l’alto una gamba, e mi avvicinai al suo corpo nudo continuando ad asciugarmi, e l’avvolsi con uno sguardo che doveva essere da bulldog sbruffone. Etzelkin aveva uno sguardo molto più sicuro del mio, aveva occhio penetrante da stalker, capace di penetrare il sole o il buio, iride grigia da hunter, pupilla precisa da beater. Ma Katalina disse : Hai gli stessi occhi dei tuoi antenati barbari delle steppe. E io : Hai gli stessi occhi dei tuoi discendenti barbari delle città in rovina.
contro i piccolo-borghesi danarosi, contro i magnati della stampa, contro la divisione del lavoro, contro il re degli aerei da guerra, contro il regime di privazione sensoriale, contro gli ex-approvigionatori di campi nazisti, contro i computer del BKA, contro l’egemonia del grigiore adiposo, contro il nuovo fascismo, contro i fantocci al guinzaglio, contro gli ideologi al guinzaglio, contro i sindacati al guinzaglio, contro i padroni al guinzaglio, contro i parlamentari eletti da sonnambuli, contro
Gocce brillavano sul torace muscoloso di Konrad Etzelkind, sul suo volto di giustiziere nomade che aveva vagabondato, generazione dopo generazione, nel segreto ondulato delle steppe d’Asia o d’Europa, che aveva circolato come a casa sua da oriente a occidente e aveva braccato, con sdegno impavido e senza limiti, le prede asiatiche o europee che i suoi capi, anch’essi mossi da millenaria ferocia, gli indicavano. Lei sentì su di sé, attorno a sé, altre gocce, l’umidità delle lenzuola, le macchie fredde e sporche, il suodre persistente, fatto di paura, di sesso, di angoscia immensa, trattenuta, e di passione.
«Faccio una doccia, disse lei.
– È a malapena tiepida» la avvertì lui.
Durante l’ultima giornata appena trascorsa, non avevano più parlato né di partenza, né di navi olandesi, né di porti indonesiani o vietnamiti o cinesi, né del silenzio infinito dell’esilio, ritenendo come di comune accordo che questa eventualità fosse esclusa, si fosse esclusa da sé in quanto mostro inaccettabile, e ritenendo che da qui al sabato fatale (data dell’imbarco di Waltraud Stoll, con la sua gamma completa di documenti falsi e una parte del tesoro di guerra della guerriglia, e data del ritorno di Kurt Wellenkind a Bonn) avrebbero scoperto un’alternativa brillante, salvatrice. Avevano parlato poco del reale; in compenso avevavo discusso molto a proposito di Einige Einzelheiten über die Seele der Fälscher, opera di Ingrid che lei non avrebbe mai avuto l’occasione di scrivere, virtualità pura che tanta diffidenza aveva suscitato nell’animo calcolatore di Kurt. Poco a poco il poliziotto si era convinto che il quadro sofisticato dell’imaginario di Ingrid non avrebbe autorizzato alcuna trasposizione meccanica nel mondo contemporaneo; le analogie non avrebbero funzionato, o sarebbero state distolte dal loro fine al momento dei commenti critici; i testi di Ingrid (o di Gudrun Schubert, o di Elise Dellwo, o di Katalina Raspe, o di Sabine Hausper) non avrebbero edificato, come aveva temuto di primo acchito, un infantile sistema di allegorie; avrebbero descritto un mondo parallelo da cui il decrittatore, accanito o no, non avrebbe saputo estrarre che dati universali e poco istruttivi : l’opacità dello Stato, la sua violenza illimitata, il suo ruolo di paravento per attività inconcepibili, la solitudine tragica di chi cerchi la verità, la mediocrità congenita delle marionette al potere, il mutismo dei loro manipolatori. Nessuna scia avrebbe permesso di risalire, a partire da lì, sino a una fonte sospetta, tantomeno criminale.
E : Potresti persino pubblicarlo senza rischi, ammise lui. E lei : Non preoccuparti, mio bulldog, non scriverò che l’infima percentuale illeggibile del’iceberg e, ad ogni modo, non lo finirò mai. E lui : Niente ti impedisce di finirlo dentro la tua bella testolina, per il momento. E lei : È che tuttora non so se lo condannerò al rogo, anche lui. Gli incendiari getteranno o no una torcia nella benzina, intanto che lui si abbandona come un imbecille di fronte al saccheggio? Avrà il tempo di tornare tra i bulldog per trascrivere, sotto mia dettatura, un libello che ridurrà in cenere seduta stante qualunque società umana? E lui : Bisognerebbe che tu ti decidessi, il tempo passa, mia così-affascinante. E lei : Tema : Trasformato in torcia vivente, può l’incendiario cessare di essere incendiario?
E :
contro gli imbecilli felici, contro il mascheramento della verità storica, contro il colonialismo, contro il neocolonalismo, contro la divisione tra il giorno e la notte, contro la fatuità dei chierici, contro l’internazionale della polizia, contro l’economia di mercato, contro la libertà di non pensare, contro la morte
Mi chinai su di lei, Katalina Raspe, la baciai, sulla fronte, la radice dei capelli, sul petto, il cominciamento dei seni, sul ventre, la curva armoniosa dell’inguine.
«Aspetta», disse. «Devo fare la doccia prima di addormentarmi del tutto.
– Tema, proposi : Se dobbiamo morire un giorno, perché dormiamo?»
Etzelkind amava le belle donne e, se si presta fede alla memoria sempre vanitosa di un uomo di trent’anni, non ricordava di aver tenuto tra le braccia una ragazza dal fisico banale, una ragazza semplicemente sana e come tante altre. Baciò la radice dei capelli di Adelhaid Mohnhaupt, il cominciamento dei seni di Astrid Luther, l’incavo dell’inguine di Silke Poensgen.
«In effetti, perché dormire? replicò lei. Ascolta, e se andassimo a passeggiare? Sono sicura che ci sono ancora dei tram che portano alle spiagge sulla costa. E poi ci sono sempre i tassì. Se andassimo in spiaggia, eh? Per quest’ultima notte? suggerì.
– Ottima idea, mi entusiasmai io.
– Ascolta, mio bulldog, mio caro bulldog, fece lei. E se andassimo ad annegarci?»
Aveva un piede attorcigliato nel lenzuolo e, invece di sottolineare questo suggerimento decisivo con uno sguardo supplichevole o frenetico, si drizzò a metà e si dedicò a liberare la caviglia dalla coperta che la imprigionava.
Sedei sul letto. A causa del contatto del lampione, la penombra fremeva, si modificava ad ogni istante. Lasciai errare la mano sul polpaccio che non era riuscito, in così pochi giorni, ad abbronzarsi.
«Tema : Può il suicidio salvare l’individuo dall’annegamento?» dissi, approvando con tutto il cuore il suo progetto.
Eravamo giovani allora e, per lottare contro l’imperdonabile assurdità del mondo, AVEVAMO DELLE ARMI.
[tratto da Lisbonne dernière marge, Paris, Minuit, 1990.
Vd. anche
https://www.nazioneindiana.com/2005/10/02/einige-einzelheiten-uber-die-seele-der-falscher/]
Ho letto il pezzo, mi sembra straordinario. Però mi risulta difficile mettere insieme il puzzle. Non c’è niente in vista? Niente libri in italiano di Volodine?
P.S.: Apprezzo moltissimo il tuo coraggio, Andrea. Postare pezzi lunghi, che costringono al copia-incolla e alla lettura su carta, rischiare la totale mancanza di riscontri…
Sì, sono “anche” queste le cose che mi piacciono di NI (vecchia e nuova).
Coraggio o incoscienza, cara Emma, punti di vista… Comunque grazie.
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Nelle tre righe di presentazione di questo capitolo non so se sono stato chiaro, quindi provo a riformulare : lui, poliziotto, in teoria dovrebbe arrestare la terrorista; invece se ne innamora, e scappano insieme a Lisbona; li’ la ragazza, mentre aspetta una partenza che non avverrà mai, scrive Einige Einzelheiten über die Seele der Fälscher (Alcuni dettagli sull’anima dei falsari), di cui “Omaggio agli incendiari” è l’ultimo capitolo (ho tradotto l’indice nel link alla fine del pezzo). In questo romanzo nel romanzo, lei inventa identità e destini alternativi per le sue storia d’amore e lotta politica che, “nella realtà”, sono senza futuro.
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Parlando di romanzo francese (o di romanzo in generale), a costo di ritrovarmi da solo (o da solo con te, che mi andrebbe comunque benissimo) a me sembra mille volte più utile e proficuo leggere e discutere Volodine che non accapigliarsi su, per dire, Houellebecq. Ho sentito dire che a gennaio uscirà (per Fandango) il suo primo libro in italiano (“Assolo di viola” – “Alto solo” in originale). In quell’occasione, cerchero’ di fare più casino possibile su NI, hai visto mai che.
Grazie ancora,
Bravo, Andrea. Emma ha ragione. Ho stampato il pezzo, lo leggerò con calma. Buona domenica.
Bellissimo.