Haroldo, fratello siamesimo
di Augusto De Campos
WHO EVEN DEAD YET HATH HIS MIND ENTIRE («Che, anche se morto, ha la mente intatta»). Pound, transcreando per il suo Canto 47 un verso del Canto 10 dell’Odissea. Haroldo non si è consegnato. Fino all’ultimo momento in cui ho potuto parlare con lui, in ospedale, voleva sapere che cosa c’era di nuovo, parlava di progetti, instancabile. Poi, ormai sotto sedativi, muto, fra i cavi kafkiani che lo legavano alla vita, nell’estremo tentativo di sconfiggere il male, vedevo ancora sul suo viso un’espressione di sfida, come se fosse seccato per la perdita di tempo che gli infliggevano.
«Irmãos siamesmos» era il termine con cui, ai bei tempi, si riferiva a noi due, annullando le differenze naturali, esaltando nella sua parola-valigia la traduzione che avevo fatto dei versi dell’Epitaffio di Corbière: «Nessuno è stato mai tanto uguale, tanto gemello, gemello siamese di se stesso». E aveva ragione. Anche se negli ultimi tempi i nostri cammini poetici divergevano – lui con il suo raffinato neobarocco, affermando e ribadendo che da almeno trent’anni non faceva poesia concreta, irritandosi quando lo chiamavano concretista, io trasferendo ostinatamente a computer le proposte “verbivocovisuali” degli anni cinquanta – avevamo un solido denominatore comune, che ci ha tenuto nel tempo sempre uniti e solidali. Eravamo forse l’uno il rovescio dell’altro. Ma un rovescio reversibile. Concavo convesso. Discordia concors. Lui estroverso, io intro. Lui più logopaico, ancorché eccellente nel melo e nel fanopaico. Io melo e fano, poco logo.
Fin da bambino, Haroldo, molto precoce, scriveva racconti, mentre io mi esercitavo in disegni-opere che vendevamo alle nostre vittime, i parenti stretti, con il divertente e affettuoso timbro che lo zelo paterno aveva fatto riprodurre per autenticare i nostri lavori: «Ditta Fratelli Campos». Conservo una prova di quel timbro su un vecchio libro, un’antologia di poesie portoghesi, di cui nostro padre amava recitare, fra gli altri, il poema Pomeriggio di Cesário Verde: «In quel picnic di borghesi / accadde una cosa semplicemente bella… ». Stimava molto Cesário e consoceva a memoria il poema Contrarietà che declamava per noi giocando con i versi «Quem sabe se depois, eu rico e noutros climas / Conseguirei reler essas antigas rimas / Impressas em volume?» (Chissà se in futuro, io ricco e in altri climi, / riuscirò a rileggere queste rime / stampate in volume?), enfatizzando «eu rico» in un gioco di parole con il suo nome Eurico, per scherzare sulle difficoltà economiche della famiglia. L’indirizzo sul timbro è quello della casa in affitto in cui abitavamo.
TIMBRO
Anni dopo, nel 1949, io avevo 18 anni, Haroldo uno di più, Oswald de Andrade avrebbe consacrato la nostra unione regalandoci, dopo un’animata conversazione a casa sua, uno dei pochi esemplari che gli erano rimasti di Serafino Ponte Grande con la dedica: «Ai fratelli Campos – ditta di poesia». E tali restammo, non solo nei lavori in comune, Revisão de Sousândrade, Panaroma do Finnegans Wake, Ezra Pound, Mallarmé, Maikavóski, Poesia Russa Moderna, Os Sertões dos Campos, ma come se fossimo l’uno l’estensione animica dell’altro: Haroldo ridanciano, esuberante, espansivo, io parco, malinconico, sulla riva del silenzio, tutti e due sfruttando la parola in tutti i limiti, dentro e fuori. L’uno completava l’altro. Con Décio Pignatari, poeta inventore, fanomelogopaico, imprevedibile e audace, avremmo costituito il trio-base della poesia concreta e di altre avventure letterarie. «Tutto sará più barbaro e diverso / Ma giochiamo alle rose, fratelli / questa è la Rosa degli Amici (dica: Rosa)» (Décio Pignatari, Rosa D’amigos – dedicato a Haroldo, Augusto e a me – agosto 1949).
Quando Haroldo seppe, qualche tempo fa, che stava per essere pubblicata la mia traduzione di sei Canti della Divina Commedia, ne fu entusiasta. Egli aveva tradotto sei Canti del Paradiso. A me restavano Inferno e Purgatorio. Senza alcun indugio mi propose di tradurre insieme tutta la Commedia. «Possiamo farlo al telefono», mi disse entusiasta, giustificando l’insolita proposta con la sua difficoltà a muoversi. «Io leggo una terzina e tu mi passi quella dopo. E così di seguito». «Calma, Haroldo – rispondevo, non volendo contrariarlo – Devo prima liberarmi di questo libro. Poi ci penseremo». Purtroppo non fece in tempo a vedere la nuova raccolta che riunisce provenzali e toscani, né a leggere tutte le mie traduzioni di Dante; lesse solo quella relativa all’inizio del Primo Canto e per intero quella del Quinto dell’Inferno, pubblicate su «O Anticrítico», e brani di altri, inseriti in Verso Reverso Controverso e in Mais Provençais. Il nuovo libro dialoga con lui, dato che ho tradotto alcuni poemi di Guido Cavalcanti, di cui Haroldo transcreò splendidamente “Donna mi prega” e altre canzoni. Ancora una volta camminavamo insieme. Non riuscì a vedere neanche il libro del nipote, Arteciência, nel quale, conoscendo altre pubblicazioni di Roland, tanto credeva. «Aspetto avidamente il tuo libro», gli disse quando andammo a trovarlo in ospedale negli ultimi giorni in cui riuscì a parlare più a lungo con i famigliari. La scienza e l’arte diventano sorelle nel suo ultimo poema pubblicato, La macchina del mondo ripensata, e questo tema era una delle sue passioni. Faceva progetti su progetti, che percorrevano il mondo in tutti i tempi e in tutte le direzioni – poesia egiziana, araba, azteca – domandando novità stimolanti dal mondo culturale, novità che io, in realtà, non avevo – neanche una – per quanto mi sforzassi di trovare qualcosa che potesse interessare il suo repertorio esigente. Mi resi conto che la faccenda era grave quando mi disse: «Ho cercato di alzarmi e non ci sono riuscito. Le gambe non reggono il corpo e il corpo non regge la testa». Ma gli sembrava che l’ospedale fosse solo un incubo momentaneo che disturbava i suoi progetti.
Amato da tanti, invidiato anche dopo la morte dalla «mediocre masnada di medi mezzani» che Majakovskij fustigò suo tramite, Haroldo è andato, dovunque sia andato, «alla punta dell’ultrafine», pensando e scrivendo nell’oltre e nell’altro, vestido estrellas.
(«La Folha de São Paulo», 14 settembre 2003)
[foto di Regina Vater :
Un ricordo molto bello.
Grazie Raos.
rileggo ora. “vestido estrellas”… non è meraviglioso?