Quarto Oggiaro è un luogo comune
di Gianni Biondillo
1.
Una volta una giornalista mi ha chiesto: “possiamo dire che
“No,” le ho risposto. “Non lo possiamo dire. E poi non vedo perché lo si debba dire!”
La gente parla spesso per luoghi comuni. Quarto Oggiaro, in questo senso, è un luogo fisico perfetto da trasformare in luogo comune.
Il luogo comune tipico sui luoghi fisici è: periferia = marginalità. Si prende una condizione geografica (la periferia) e le si sovrappone pedissequi una condizione sociale (la marginalità).
Eppure per quanto questi requisiti si ritrovino spessissimo accavallati non vuol dire che significhino pedestremente la stessa cosa.
Vi faccio un esempio: perché i delitti di Novi Ligure o di Cogne hanno così ampiamente turbato l’opinione pubblica? (a proposito: cos’è l’opinione pubblica se non un luogo comune?)
Non certo semplicemente per la loro evidente efferatezza ma anche, anzi soprattutto, perché “l’opinione pubblica” non accetta che siano accaduti in condizioni socio economiche non “consoni” alla tipologia del delitto. Non a caso si parlò in prima istanza di albanesi come probabili assassini. Quelle orrende morti dovevano accadere in luoghi orrendi. Così si sarebbero naturalmente depotenziate, tranquillizzandoci.
E’ chiaro che c’è del razzismo in tutto ciò (uso “razzismo” e non “classismo”, memore della lezione pasoliniana). Gli stessi delitti in una periferia li accetteremmo come plausibili, “verosimili”. In una periferia violenta i delitti sono violenti. Ma se questo accade al di fuori di quei ghetti mentali che ci siamo costruiti tutto ciò mette in dubbio le nostre “certezze”. Dovremmo cioè accettare che possano esistere condizioni di marginalità sociale anche (e soprattutto?) in famiglie “normali” (cioè, come si diceva una volta, “borghesi”).
2.
Andiamo avanti: la periferia è brutta, quindi è marginale, e il centro storico (ripulito, musealizzato) è bello. Questo è un altro luogo comune.
I quartieri operai sorti fra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX sec. non nacquero con un disegno “volutamente” bello. Le condizioni igieniche erano di certo migliori delle baraccopoli che andavano a sostituire, ma sicuramente questi quartieri furono costruiti innanzitutto con una idea di economicità e risparmio di spazi e risorse (existenz minimum, bagno unico per piano, ballatoio distributivo, etc.).
Eppure tutto ciò ha creato condizioni di altissima socialità! Oggi questi quartieri milanesi, ormai ex-operai, sono molto ricercati da classi sociali differenti.
Perché? Perché in essi c’è un deposito di storia e di senso che sbaraglia il luogo comune di “casa popolare” = brutta. L’assunzione di storicità dà a questi quartieri una dignità da centro storico, di contro l’enorme distesa anomica e senza senso di villette della Brianza, oltre ad aver distrutto un panorama, dimostrano come possano esistere luoghi marginali (e indiscutibilmente “brutti”) anche se non per poveri o immigrati.
Io ci sono cresciuto in una periferia. Quarto Oggiaro è un quartiere sorto dal nulla negli anni sessanta. Ha una fama pessima, è un luogo di continue immigrazioni; eppure finché ho vissuto in quel posto non ho mai capito il “luogo comune” (l’ennesimo) della “grande città dove non si conosce neppure il nome del vicino di pianerottolo”. Il controllo sociale in quel cortile era altissimo, non ostante la libertà di movimento (un po’ forzata dagli obblighi lavorativi dei genitori) dei ragazzi. Non mancava mai la vecchietta sul balcone che poi riferiva tutto a mia madre, per intenderci. Tutti sapevano i cazzi di tutti. Solo quando mi sono sposato e ho cambiato quartiere ho capito il senso di quella frase. Qual è allora la vera marginalità?
Dunque Quarto Oggiaro, il Corviale, Scampìa, lo Zen, sono luoghi ameni e graziosi dove vivere? Ovviamente no, ma siete così sicuri che lo siano, chessò, Prati o il Vomero?
3.
È chiaro che io ho deciso di parlare nei miei romanzi di Quarto Oggiaro innanzitutto per ragioni autobiografiche. Quello è, rubando a Montale, il mio “panorama interiore”. Ma non basta. Quello che ideologicamente ho deciso di fare è di lavorare sul popolare.
Anzi, per non cadere in confusione (popolare in che senso? Populistico? Folk? Pop?) ho deciso di scrivere romanzi plebei. Plebei per i soggetti trattati, per le storie esposte, plebeo pure nel desiderio ponderatissimo di utilizzare una precisa tipologia narrativa. A me, oggi, il genere “romanzo borghese” (perché, mettiamocelo bene in testa, è un genere, fatto e finito, con tutte le sue belle regolucce che portano drittodritto al premio Strega) non interessa.
Oggi sento che il bisogno vitale, estremo, disperato quasi, di chi scrive è (dovrebbe essere) parlare del mutamento. Ed è il mutamento antropologico (pasoliniano) avvenuto sui nostri corpi. Ed è la mutazione in atto nella società. Ed è psicologia non più attorcigliata su se stessa ma anche sociologia. Non è più solo dentro ma anche fuori. Non è più “la Cina è vicina” ma “la Cina è qui” (e non è come la immaginavamo).
È cercare di smontare, pezzo pezzo, il luogo comune.
Il più dotto fra i luoghi comuni, quello più in voga da un po’ di anni a questa parte nell’intellighenzjia d’accatto parte da una fortunatissima definizione di Marc Augé, quella esposta nell’ottimo saggio: “Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità”. I parcheggi sono non luoghi, gli ipermercati sono non luoghi. La metafora dell’antropologo è forte, facile da ricordare, ottima da estendere illimitatamente, anche se non si è letto il succitato lavoro di Augé. Oramai leggo e sento dappertutto, come dato di fatto, che le periferie urbane sono non luoghi.
Questa affermazione a me fa venire in mente, automaticamente, una associazione mentale: se Quarto Oggiaro è un non luogo allora chi ci abita è una non persona. E, perdonate, non lo accetto.
4.
Il borghese è intimamente classista. Non lo fa apposta. Ne ho parlato una volta su Nazione Indiana . Era quel caso dell’allagamento del Parini. Ricordate? Ci fu un professore che, scoperto che gli autori della bravata erano ragazzi del Parini, non si vergognò a dire, candidamente: “Se li chiamavamo teppisti era perché pensavamo che venissero “da fuori”, da Quarto Oggiaro magari.” Come ragioni con uno così? Come parli con uno che distribuisce a piene mani, senza vergogna, luoghi comuni alla nuova classe dirigente che se ne abbevera come fosse oro colato?
Queste persone non mi stimolano, non mi danno nulla. Hanno un’esperienza dei luoghi, un’esperienza dei corpi tutta borghese, completamente rinchiusa nelle ritualità borghesi. In questo senso è classista, prima ancora che razzista, così come lo stiamo diventando tutti noi.
Perché, dalla Fallaci in giù, c’è una cosa che vogliamo negare più di ogni cosa: non è il colore della pelle (perché allora i rumeni o gli ucraini?), non è la religione (perché allora gli equadoriani o i peruviani?), no, macché! È la povertà. A noi fa paura la povertà. Ve lo assicuro, ve lo dice uno che ci è cresciuto in mezzo alla povertà, quella autentica, quella da pane e cipolle, in un quartiere a rischio come Quarto Oggiaro. Lo negheremo fino all’ossesso, ma ci fa paura la diversità assoluta che la povertà porta con sé. Denzel Washington non ci fa paura, Willie Smith non ci fa paura. Afef non ci fa paura.
Un corpo borghese (intellettuale, cattolico, illuminato, italiano) non capisce, non può capire, il corpo della vicina di casa di mia madre, Zaira, somala, colf (sguattera dovrei dire, ma non lo dico), lavoratrice, cucinacipolle, puzzolente, etc. etc. Mia madre, che si è ritrovata ad averla affianco sentiva che non c’era possibilità di incontro. Troppo diversi. Prima, in quell’appartamento, c’era la Rosetta, milanese doc. Che guardava mia madre dall’alto al basso (terrona sicula, mia madre, probabilmente ex prostituta ma pur sempre del nord la Sciura Rosetta). Ma, miracolo, densi di pregiudizi e di razzismi, per anni, hanno convissuto, una a fianco all’altra. E quanto pianse mia madre alla sua morte!
Qualche mese fa mia madre è andata a fare la targhetta da mettere sulla porta di Zaira, perché, mi spiegava, è meglio mettere il nome fuori, se no arrivano quelli che ti sfondano la porta e ti occupano l’appartamento. Zaira ogni tanto le cucina delle cose, e stanno i pomeriggi a chiacchierare. I loro corpi hanno esperienza l’una dell’altra. I loro “io” trattano, mutano, crescono, cambiamo, appercepiscono, appresentano. Amano.
5.
Allora, messa così, il “popolo” è, edenicamente, buono, giusto, solidale. No. Chiaro che no. Il popolo, anzi, la plebe, la massa, la marmaglia, il coacervo, il branco, la folla, è altrettanto razzista, violento, conservatore, fascista. Ha subito la violenta, televisiva, omologazione del Centro. Ma ha una cosa in più, non da poco. Sicuramente senza alcuna consapevolezza, senza nessuna meditazione razionale, la plebe investe nel futuro. È giovane. Lo dico proprio strictu sensu.
Siamo una nazione che invecchia, in evidente decadenza, che ha deciso di non avere figli, di non investire nel futuro. Ma il futuro è dei popoli giovani, che hanno, cioè molti figli, molti più figli che padri, o nonni, o figli adulti che non vogliono diventare padri. È degli indiani, dei pakistani, dei cinesi, dei magrebini. Degli immigrati, che hanno un solo capitale, la prole. Dei proletari, in pratica. Questa è la mutazione che a me interessa. Alì dagli occhi azzurri è arrivato, non come immaginava Pasolini, ma è arrivato, è qui.
Ogni mutazione è, necessariamente, creativa. E il suo scenario è, ancora oggi, quello delle periferie urbane, dove le contraddizioni sono più evidenti.
In questo senso reputo le periferie non luoghi comuni ma luoghi, nel loro potenziale, creativi. Per il loro essere luoghi di immigrazioni recenti e differenti, sono dei laboratori per la creazione di società diverse, nuove, appunto giovani.
Le società giovani sono per loro natura creative, inventive, molto spesso per un bisogno urgente. Sono un potenziale rivoluzionario impressionante (e “spaventoso”). Questo potenziale o si scatena o viene represso. Viviamo tempi difficili, è vero. Ma, mai come in questi anni, vivi.
Le banlieue, le periferie urbane, i non luoghi, sono in realtà i posti migliori dove combattere questa guerra di libertà. Luoghi dove si può, si deve, scegliere se essere omologati al potere e quindi marginali (alla società e a se stessi) oppure essere creativi, in quanto periferici al potere.
(pubblicato su Nuovi Argomenti, n. 30, aprile-giugno 2005. La foto è di Alberto Cattaneo)
Quando segui il tuo principio di (gentile) insubordinazione interiore sei proprio bravo.
Bravo bravo Gianni.
un testo veramente lucido ed equilibrato. Il tema mi sta particolarmente a cuore per delle ragioni che dirò in seguito. però intanto volevo di rimando invitarvi a visitare questo sito
http://www.arpnet.it/offmem/pubblicazioni.html
se ne occupa una persona, Angelo Castrovilli, insieme ad altri, impegnato da anni in una straordinaria opera di custodia e memoria delle periferie torinesi secondo chiavi interpretative differenti ma in sostanza con un amore della verità e delle lotte che animano questo tipo di discorso.
Cito dal sito:
“Mondi che Angelo Castrovilli e Carmelo Seminara, nel volume oggi presentato ai visitatori della Fiera del Libro, hanno provato a ricostruire in un affresco storico e sociale ricco e documentato. Gli autori descrivono la Barriera di Milano come una città a sé, con un carattere diverso da quello degli altri borghi torinesi: “La volontà di ripercorrere la storia del quartiere – scrivono gli autori nella presentazione – scaturisce dall’esigenza di capire e interpretare un fenomeno sociale, urbanistico e industriale che ha portato alla nascita di un microcosmo particolare nel panorama torinese che, malgrado l’interesse storiografico per i fenomeni sociali e la storia locale, non è stato oggetto di studi approfonditi e particolareggiati”.
effeffe
Philippe Daverio,l’autunno scorso, in concomitanza con l’inaugurazione della nuova Scala,ha invitato la cittadinanza di Quarto Oggiaro a inaugurare una scala vera al centro della sala dell’oratorio,presentando con questo pretesto dei significativi lavori urbanistici sulle periferie delle città fatte dai suoi studenti del Politecnico di Milano e di Palermo.Una serata vermente interessante, inedita,dove in un ambiente apparentemente desolante,l’estetica di confine ha celebrato nuovi canoni di bellezza,nuovi sguardi sull’urbano, alla ricerca dell’inedito e del noto colto da altri orizzonti.grande finezza intellettuale e acutezza hanno guidato verso il”vedere come”, il”vedere apregiudiziale”.
In questa ottica anche Quarto Oggiaro diventa luogo di grande d’esperienza estetica.
Grazie Philippe
la mia esperienza estetica di Quarto Oggiaro è stata mediata per un decennio dalle Ferrovie Nord: i primi tempi ero felicissimo di transitarci solo per lo spazio di una fermata di omnibus. poi ho imparato ad apprezzarne prati verdi e sky-line. il fatto è che la mia destinazione era Bollate, più precisamente Baranzate di Bollate, che in qualche modo è la suburbia di Quarto Oggiaro…
Mi è piaciuto moltissimo (‘sto Biondillo se non ricordo male è stato pure nella mia città, Crema, e in quell’occasione me lo sono perso.. acc!) anche se quelle, peraltro perfette, citazioni di Pasolini mi fanno venire alla mente la profonda delusione che egli visse negli ultimi anni della sua vita: secondo lui “Accattone” era ormai preistoria (ed erano passati solo 15 anni) quando fu trasmesso in televisione, nell’autunno 1975. Per Pasolini quel sottoproletariato non esisteva più, completamente assorbito, arreso, alla cultura borghese. Leggere quanto dice Biondillo, in effetti, mi fa pensare che non tutto è finito, impossibile, scomparso (come le lucciole..), ma si è presentato sotto un aspetto differente. Già, non ostante le enormi difficoltà materiali alle quali, secondo me, l’Italia andrà incontro per mancanza di preparazione culturale e innovazione industriale, l’idea di questa pulsante gioventù – che Marcello Pera sprezzante definirebbe “meticcia” – mi dà un senso di ottimismo… di speranza.
a me piacciono molto le periferie. trovo abbastanza malato che qualcuno consideri più bello un quartiere umbertino che certi quartieri periferici che belli o brutti hanno sicuramente un’estetica più sana di certe altre zone dette centrali. ci sono delle periferie che sono molto belle. in ogni caso le periferie sono diverse fra loro, non è vero che sono non-luoghi, alcune sono marginali, altre hanno un centro, molte sono vivibili, con molto verde, a dimensione umana. il vero problema è che molte amministrazioni (non tutte) da più di vent’anni non hanno nessuna politica di governo del territorio, scarse in centro e inesistenti in periferia. se nelle periferie storiche il “centro” può essere costituito dalla parrocchia, dalla sezione di partito, dalla biblioteca decentrata (quasi mai librerie però), da alcuni servizi pubblici e privati, insomma parti di città che bene o male hanno subito o sono state parte attiva di una politica del territorio, nelle aree sorte negli ultimi anni il “centro” o luogo di raccolta tende a diventare il mega-centro commerciale: si appalta così al mercato distrubutivo la soluzione di problemi sociali e urbanistici, si vende non solo un terreno edificabile ma anche l’anima.
un esempio di luogo indiscutibilmente brutto è la tipica villa di tipo berlusconiano-californiano in Costa Smeralda, non mi sentirei fortunato a possedere un simile riparo, altro esempio sono le villone di costruttori divenuti miliardari fra la statale e l’autostrada, dove avvengono le rapine che ti fanno vedere al tg regionale, con la recinzione posteriore praticamente a due-tre metri dal traffico autostradale. costruite apposta lì, in quegli appezzamenti, capirei se ci fossero da prima, ma no qualcuno ha deciso dopo che gli piaceva fra l’autostrada e la statale, villona in stile Napa Valley, e che gli va bene dormire col rumore infernale dell’autostrada. attenzione: questi sono veri non luoghi, non l’autostrada, non l’autogrill che hanno un senso ma le villone dove si può anche perdere la testa per l’autoinflitto isolamento (mentale ed estetico).
Innanzitutto vi ringrazio per i complimenti.
Su Pasolini e sul discorso che fa Pippo ci tornerò, datemi tempo.
Come ho già detto ad alcuni amici: hey, guys… i’m back!!!
;-)
altro tema sollevato è quello della povertà. io penso che si possa e si debba uscire dalla povertà e mai più tornarci, per tutti, senza per questo dover per forza essere intaccati dal razzismo borghese e dalla “decadenza” estetica… senza voler andare nel difficile, ci sono famiglie o persone che diventando borghesi non perdono la semplicità dei modi e la sanità dei comportamenti, altre (la stragrande maggioranza) che diventano brutalmente auto-segregate e razziste. do abbastanza per scontato che nel resto d’Europa non è così, la borghesia complice la riforma protestante è almeno un po’ migliore. ma appunto l’unica cura possibile per l’Italia è il non recidere il ricordo delle radici contadine, operie, migranti. combattere chi lavora attivamente per instaurare il totale oblio delle miserie passate.
Bentornato!
Biondillo, per favore: abbandona le discussioni da ballatoio con le capère sui blog. Rimettiti a lavorare e regalaci altri testi come questo. Vado a cercarmelo subito in rivista (ho necessità “fisica” della carta).
Il pezzo è splendido, Gianni, oltre che opportunamente chiaro. Del tutto per coincidenza, sostieni “qualcosa” che anche io ho sempre pensato: abbiamo paura della povertà (detto così sembra banale, ma ti invierò un link). Pezzo fortemente “politico”, come non ne leggevo da tempo su Nazione Indiana, perché analizzi la banalità dei fatti con l’intelligenza del “dover essere”, che è implicito in tutto il tuo discorso.
(seguiranno altri commenti, questa è solo un’annotazione piuttosto generica).
Molta la carne al fuoco nelle righe di Biondillo e però finalmente qualcuno che si ponga un qualche problema, e non solo, sul rapporto spazio fisico/spazio sociale oltre i luoghi comuni normalmente praticati anche da scrittori de sinistra.
L’incultura della città è fortissima ovunque, anche tra i ceti intellettuali più “evoluti”.
Se ci aggiungi quel razzismo classista (il classismo è sempre razzista, ma il razzismo non è sempre classista), la naturale ripulsa fisica di chi gode di un certo agio verso chi è povero e c’ha una cultura diversa – se ci aggiungi la convinzione che sia lo spazio a creare emarginazione e non l’emarginazione a modificare in senso peggiorativo lo spazio – se ci aggiungi anche la convinzione, così ben descritta da Biondillo, che un casamento periferico et popolare sia per default un luogo de-socializzante, mentre è casomai il contrario – se poi ci metti il fraintendimento della definizione di non-luogo, così spesso frequentata dai colti, e l’identificazione del centro storico (e comunque del centro città) come unico depositario di civiltà urbana e di genius loci e dunque unico luogo di valori estetici “autentici” – se tieni conto che l’idea borghese di povertà ha a che fare con qualcosa di inaccettabile e dis-umanizzante, mentre è casomai il contrario – se infine (ma la lista è ben più lunga) ci aggiungi il rigetto istintivo per i linguaggi modernisti nei quali di solito i progettisti ineluttabilmente declinano il disegno planimetrico e architettonico dei nuovi quartieri periferici novecenteschi e per gli standard di densità e altezza che sono costretti ad adottare per restare nella categoria di alloggi a basso costo (quartieri popolari, si diceva un tempo – e comunque è diverso da quartieri operai), se mescoli tutto questo ecco formarsi abbastanza precisamente il luogo comune.
Sarebbe necessario spendere qualche parola di più su questi argomenti e mi piacerebbe farlo, ma non so se ne avrò modo.
Aggiungerei en passant una nota su quella che Biondillo chiama, più o meno, la storicizzazione della periferia e dei quartieri operai in particolare.
Sì, è così, ma non è un processo automatico.
La città ha bisogno di tempo per attecchire e farsi veramente abitabile, c’è bisogno di tempo perché gli alberi e le generazioni nuove crescano a sufficienza per radicarsi e costituirsi finalmente come comunità insediata, ma occorre per questo anche una certa stabilità, sociale e fisica.
La classe operaia quando si insedia crea col tempo una sorta di comunità aristocratica, che si trasmette tradizioni “identitarie” di padre in figlio, che resta sul luogo per due, tre generazioni, prima di andarsene a vivere da un’altra parte.
Lo stesso si può dire degli edifici di quei quartieri costruiti nel primo dopoguerra o anche prima, con tecnologie tradizionali, capaci di reggere il tempo senza il degrado che infesta a invece l’architettura più recente, specialmente quella dei grandi piani di edilizia economica e popolare degli anni Settanta, con quei sistemi di prefabbricazione pesante tipo i coffrage tunnel, dismessi dai francesi ed acquistati da noi.
E lo stesso, ancora, non si può dire delle continue ondate migratorie che fanno di questi quartieri una sorta di parcheggio sociale in attesa che migliori condizioni economiche consentano di andarsene ad abitare da qualche altra parte, percepita come città più dignitosa.
Il rapporto col tempo è cruciale per il formarsi di luoghi percepibili come identitari, cioè come il contrario dei non-luoghi.
I manufatti devono reggere al tempo, invecchiare bene, e la stessa cosa deve accadere per gli insiemi sociali degli abitanti che devono permanere e radicarsi e percepirsi alla fine come comunità insediata (niente di solidaristico, certo, solo un senso di appartenenza) che comincia ad avere a cuore – altro punto cruciale – il destino fisico del luogo in cui abita.
Ma i tempi cambiano e la città accelera i propri cicli vitali, economici, insediativi et di ricambio tecnologico.
Il futuro è non-identitario e il sistema attuale di spazi della tenderà probabilmente a costituirsi come sistema di non-luoghi anche là dove oggi ci sembra vi siano invece luoghi, spazi forti e belli.
L’uso finisce per trasformare ogni cosa, basta osservare il processo di cottura a fuoco lento che ha investito i centri storici da trent’anni a questa parte, de-naturandoli radicalmente, ammesso che per la città si possa parlare di una natura originaria.
Dunque sono in atto fenomeni urbani nuovi e non-promettenti, con i cosiddetti nuovi ceti medi che tendono a barricarsi nei loro quartierini americanizzati (costruiti sui modelli visti nelle soap opera) a costituire nuove internità a fronte delle sterminate esternità multi-etnica delle metropoli in crescita.
Ecco allora chi si affaccia un modello di metropoli discontinua, strutturata per isole urbane auto-sufficienti, collegate tra loro dai mezzi di trasporto di massa, dalle autostrade urbane, dotate dei loro centri civici coincidenti coi centri commerciali (che vengono ormai progettati declinando i confortanti linguaggi propri dei centri storici: le piazzette, le stradette interne, i caffè, eccetera), mentre i rapporti col territorio circostante si fanno sempre più labili sino a ridursi praticamente a zero.
La città allora si scinde in città spaziale e città temporale.
Mentre la prima diventa il ristretto luogo fisico dove abitiamo, col suo immediato intorno urbano dove ormai possiamo trovare ogni cosa, la seconda è la città delle reti di trasporto, dove non ci interessa la qualità dello spazio che percorriamo, ma solo il tempo che impieghiamo a percorrerlo.
Quindi si profila, anzi è da tempo già in atto, un’auto-emarginazione de massa, che spiazza parecchie analisi e tocca forse cominciare da qui, per capirci qualcosa.
Eccetera.
Scst pr l lnghzz.
welcome back, guy:)
sorbole gianni che pezzo splendido che hai scritto
F.A.V.O.L.O.S.O
I miei complimenti più grossi e snceri e … per la verità mi sono pure commossa … cristo, la zaira e la tua mamma mi sono piaciute un sacco ;-)
Vittorini diceva che gi scrittori vanno sempre ascoltati … aveva ragione ieri come oggi ;-)
georgia
P.S
Credo che da oggi NI rincominci alla grande e quindi io come ex assidua lettrice di NI ti ringrazio
Quando la Coppa America non era commentata da Castelli e D’Alema, quando era un auratico uno contro uno, c’era un equipaggio americano tutto femminile. In una regata fecero una rimonta strepitosa, fino al sorpasso, e la timoniera che era una walchiriona bellissima urlò: Grrrrrls w’arrr’ stil alive!
Sia chiaro, non voglio paragonarvi alle NY Dolls, però mi sembra che il grido si adatti a questa NI che pian piano ritrova i membri e un’identità.
Da lettore spero che l’identità vada verso pezzi cazzutissimi, roba che porta fuori problemi, che pone domande. Insomma cose fuori da una specie di “gioco” della letteratura o della parafilosofia e il più possibile vicine alla vita, come questo pezzo biondilliano, come la poesia di Scarpa che qualcuno ha postato nei commenti al pezzo sui suicidi dei letterati, e come tante cose proposte in questi due anni, non per forza “politiche”, ma con la capacità di incidere sulla realtà, anche soltanto quella interiore delle persone.
Be’ vedete un po’ voi.
bentornato gianni e ben in forma;
ad andrea barebieri: sono d’accordissmo: contro l’album delle figurine della letteratura, che rappresenta molta realtà dei blog letterari (“il gioco della letteratura e della parafilosofia”); ossia la letteratura per tutte le stagioni; mentre quella di Gianni è davvero una forma incisiva e radente, in questo pezzo;
ma ci sono anche altre vie, c’è un grande materiale teorico e di analisi, sia sociologico che storico e antropologico, che ha senso mettere in gioco; anche se il punto di vista è ben diverso; Immanuel Wallerstin, ad esempio, storico e sociologo statunitense di scuola marxista, ha compiuto un’analisi davvero fondamentale sull’intreccio tra razzismo e classismo; (provo poi a recuperarne notizie bibiliografiche)
io credo che ci sia bisogno anche di questo, di visioni panoramiche, a volo d’uccello, oltre che di scorci taglienti, dal basso, come questo che ci ha dato Gianni
Che palle, quante volte l’hai riciclato ‘sto pezzo? Sembri Verdone che racconta per l’ennesima volta come ha conosciuto Christian de Sica. Basta.
Verdone e De Sica si conoscono? Ma da quando?
ma io credevo di essere sul sito dei creativi infallibili!
Per la cronaca Verdone ha sposato la sorella di De Sica. No, aspetta… era il contrario. De Sica ha sposato la sorella di Verdone… o era che… boh!
Lo leggo in ritardo perché, avolte, mi tocca pure lavorare, e non mi resta che applaudire e lasciare un bravo, e molto.
Veramente un bel pezzo, Gianni complimenti!
Buona serata. Trespolo.
per chi ce l’avesse infilzato in qualche scaffale
Il capitalismo storico / Immanuel Wallerstein ; traduzione di Carmine Donzelli. – Torino : Einaudi, 1985. – IX, 107 p. ; 19 cm
Un intero capitolo è dedicato al processo di sfruttamento della forza lavoro, organizzato attraverso la costruzione e la legittimazione di una prospettiva razzista: dal colonialismo ad oggi
Un vero distillato di intelligenza il tuo articolo, caro Gianni. Hai ragione da vendere: il borghese è intimamente classista. Te lo dice chi, da una delle roccaforti della borghesia milanese, è passata a vivere in un quartiere periferico ad alto tasso di extracomunitari. Per mia madre (meneghina d.o.c.) venire a trovarmi è un vero e proprio “viaggio nell’ignoto”, come se abitassi a Busto Arsizio, “là dove osano le aquile”. Ma hai ancora più ragione quando sostieni che la vera discriminazione non si basa sulla razza, bensì sulla povertà. Ti porto questo esempio:mia cognata è fidanzata con un ragazzo giapponese. Qualche tempo fa l’abbiamo accompagnato in questura per il rinnovo del permesso di soggiorno. Ad accoglierci una tranquilla fila di extracomunitari, tutti con la loro cartellina di documenti, tutti puntuali, tranquilli ed educati. Ho visto degli anziani signori cinesi venire insusltati da un poliziotto per il solo fatto di esprimersi in un italiano stentato. Per non parlare della signorina dietro lo sportello: probabilmente una reincarnazione mal riuscita di Joseph Goebbels. La cosa agghiacciante è che indossava guanti di lattice, temendo forse di contrarre l’ebola o la SARS dai documenti dei poveretti che chiedono ospitalità nel nostro Paese. Dentro di me le ho augurato di ritrovarsi senza documenti in una questura nel cuore della Cambogia. Con Jun però è stata di una gentilezza addirittura stucchevole perché è sì un extracomunitario anche lui, ma di seria A, ovvero un giapponese ricco venuto in Italia per motivi di studio. Un abbraccio, Emma
Secondo me è tutta pubblicità occulta ai gialli di Biondillo notoriamente. ambientati a Quarto Oggiaro. Che gran drittone, ‘sto Gianni. Comunque ottima esca per pesciolini alla Barbieri:-/
Emma, giù le mani da Busto Arsizio ! Ci sono nato io e ci ho abitato per vent’anni. Se Biondillo ha la sua Quarto Oggiaro, Busto è mia e guai a chi me la tocca ! Ti perdono solo perché sei così dannatamente bionda, glaucopide e gwynethpaltrowesca…
Questi commenti mi fanno felice – eh si , capita anche questo. E poi mi viene da pensare : ecco, almeno quest volta gli indiani faranno il culo ai soldati blù
effeffe
Complimenti e grazie,
Io in periferia ci sono nato e ci ho vissuto fino a pochi mesi fa.
Roma, Settecamini, ultimo lembo del comune di Roma verso est, giocavo in molti dei posti che compaiono in Uccellacci e uccellini di Pasolini.
Però la socialità c’era, era un villaggio, una tribù, ci conoscevamo tutti prima che la periferia diventasse un’enorme dormitorio.
Da 6 mesi vivo in una rispettabile e borghese zona di Roma, vicino ai Parioli. Da 6 mesi e non ho mai parlato con i miei condomini…
MarianOne
Riccardo perdono! Non avevo alcuna intenzione di denigrare Busto Arsizio, la Manchester d’Italia. L’ho citata solo in ragione della sua distanza da Milano. Vorrà dire che, in segno di espiazione, il prossimo gennaio verrò ad assistere alla vecchia tradizione bustocca della Gioeubia.
Con cuore umile e contrito,
la gwynethpaltrowesca Emma
Alì dagli occhi azzurri è arrivato, è vero. Io l’ho visto. Proprio ieri sera. Appena sono arrivato a casa non ho potuto fare a meno di scriverlo sul blog.
Gianni, chioserei il tuo pezzo (di gentile insubordinazione interiore, Andrea ha trovato un’espressione perfetta) con altre parole di PPP – da ‘Il canto popolare’ (che come sai è cosa a me cara anche per altri motivi):
Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria…
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
Quanto a Wallerstein e al nesso razzismo-classismo, è da segnalare il libro, denso e ricco di spunti, che scrisse con Balibar, ‘Razza nazione classe’. (Il libretto che citi, Andrea, l’ho perso tanti anni fa, ma ricordo che era illuminante).
Il razzismo è parte della “destra naturale”, cioè della destra che è in noi e potenzialmente infetta tutte le categorie e classi sociali.
Credo che sia parte integrante del classimo borghese.
Ma per essere razzisti non occorre essere necessariamente classisti, perché esiste un razzismo orizzontale, che opera in regime di eguaglianza sociale e di censo.
E’ una cosa pura, originaria, genetica.
Si combatte solo con la cultura politica.
Emma, ti avevo già perdonata. Quando vai a veder bruciare la Gioeubia dimmelo che vengo anch’io !
Tashtego, io credo che di puro e originario, a questo mondo, non ci sia nulla. (Il ‘genetico’ stesso è qualcosa di quanto mai impuro, peraltro). Se mai, si tratta di riconoscere un etnocentrismo presente nella genesi delle società – che il dispositivo sacrificale girardiano tenta di articolare. Ma tutto ciò non credo si possa trovare ‘allo stato puro’: ci sono sempre stratificazioni sociali su cui fa leva, forme di vita che collidono. L’episodio che racconto sul mio blog, della nigeriana che se la prende con i dominicani, è un esempio chiaro.
aggiungo i miei complimenti.
secondo il mio modesto parere, questo sarà uno dei pochi pezzi veramente interessanti intorno a PPP trent’anni dopo.
saluti.
Ehm, vedo che oggi le Emme sono più d’una.
Non so Emma milanese, forse dovremmo metterci d’accordo.
Io non sono meneghina, manco lombarda.
Sono romagnola, e poi neanche al 100%, qualche ascendenza ce l’ho nel Montefeltro, quindi non posso permettermi neanche la sindrome della romagnolità.
Busto Arsizio non so dov’è, Quarto Oggiaro neppure; e poi niente famiglia borghese, nemmeno operaia, solo vecchie origini contadine.
Mi fa piacere che tu ci sia Emma milanese, ma insomma, ci distinguiamo in qualche modo?
Eggià, e quale delle due dovrebbe cambiare nome proprio?
Guarda, ti lascio tutto il campo. Tanti saluti a tutti.
@marco rovelli
si dice puro, ma sempre così, per dire.
chiaro che di puro non c’è nulla.
però forse si capisce lo stesso che probabilmente voglio dire la stessa cosa che dici tu.
anch’io voglio dire la stessa cosa che dite voi, per cui in nome e per conto vostro dico che la emma milanese si dovrebbe firmare ‘emma’ – poi nel discorso la si sgama subito, perché salta subito fuori l’uè ràga l’ossobuco legava un po’ ma il risotto allo zafferano l’era inscì bòn, che è insito nella sua indole meneghina; mentre la emma romagnola in gran parte e montefeltrana per il resto, si dovrebbe firmare ‘emma’, quindi ricordarsi a metà di una frase di citare quant’è buono il sangiovese piuttosto che far l’elogio dello squacquerone – in alternativa inviare al mio indirizzo mail un paio di quelle foto in bikini sulla spiaggia di Rivabella col sole ancora in ballo che è quasi ora di far baracca…
semplice, mi pare.
quasi un non problema, roba da mangiarci e berci su in compagnia. se poi una delle emma qui sopra vuol cambiarsi in kristian, a me sta bene.
EMMA . splinder . com
sono io
e non sono nè romagnola
nè lombarda
come la mettiamo?
Buon ultimo mi unisco al coro di elogi per il tuo pezzo, caro Gianni. A quanto affermi sul fatto che non è del colore della pelle, o della fede professata, che si ha paura, bensì della povertà, come dimostrano i tuoi esempi calzanti su Afef eccetera, aggiungerei solo il caso dell’uragano che ha devastato New Orleans. Si è insistito molto sul disprezzo razziale verso i neri, che costituivano la maggior parte degli abitanti poveri della città che non seguirono l’ordine di evacuazione perché non poterono permetterselo, per giustificare i ritardi e le inadempienze del governo federale nel prestare i primi soccorsi alla popolazione. Io resto convinto invece che in quel caso, la sottovalutazione dell’evento sia dipesa dal fatto che quelli rimasti erano dei “poveracci”, com’ebbe a dire la madre di George Bush in una gaffe clamorosa, prevalentemente neri ma non solo. Era la loro condizione sociale, l’appartenenza a un ceto debole e che per di più in genere non vota, per cui non “pesa”, ciò che li ha condannati. Infine, mi permetto di dissentire solo su un punto, se non altro per ottemperare al motto del quotidiano “Le Figarò”, secondo il quale “nessun elogio è lusinghiero se non è frammisto a qualche riserva”. Il punto in particolare che non condivido è la critica rivolta alla borghesia. Oggi il paese mi senbra dominato da un’unica, indistinta classe sociale: la borghesia, piccola media o alta che sia. In fondo le stesse logiche, le medesime assiologie, la stessa ignoranza, perfino una comune aspirazione ai più esecrabili privilegi, accomunano Ricucci a un metalmeccanico. E’ un processo di omologazione impressionante, al quale forse si sottraggono giusto le ultime ondate di extracomunitari; perché le prime, quelle degli egiziani che gestiscono pizzerie, già sono in coda da Mediaworld per il televisore al plasma in offerta. Certo, il proletariato è quello che può offrire allo stato unicamente la prole; ma anche qui userei maggior cautela nell’appaltargli il futuro. Karl Kraus diceva di nutrire poche speranze nei giovani perché ne conosceva i padri, ed io resto convinto che la gioventù sia “creativa” e “rivoluzionaria” solo in quanto categoria dello spirito, non mera condizione anagrafica. Quando affondò il Titanic furono i passeggeri di seconda classe a morire nel numero percentualmente maggiore, cedendo il posto ai bambini, le donne e gli anziani, non gli aristocratici della prima e neppure i proletari della terza. Oggi credo che non esisterebbero più distinzioni di questo tipo, tutti farebbero a gara per salvarsi a scapito degli altri. Ma se siamo tutti borghesi – chi ha vissuto a Quarto Oggiaro e chi a Milano 2 – diventa paradossale indicarli come quintessenza di ogni nequizia e sentirli allo stesso tempo “altri”. Ancora una volta aveva ragione Jules Renard a vaticinare, con l’anticipo di un secolo, che “les bourgeois, ce sont toujours les autres”.
‘Perché quando il compagno Marx / si portava ancora non male / il nemico del popolo era / il padrone ed il capitale, / ma adesso che non va più / e lo stato sociale è finito / il nemico del povero è / il più povero e così all’infinito’
99 Posse – Comuntwist
è da un po’ che mi sento particolarmente canterino.
Convincente, esatto, lucido (peccato quella caduta di stile: “fatto e finito”!!).
Nel mio piccolo, piccolissimo, qualche anno fa, ho girato tutte le periferie milanesi, in cerca di un posto dove fare vivere uno dei personaggi di una cosa che stavo scrivendo (e che sta tuttora girovagando fra case editrici e “lettori residenti”con alterna fortuna), e scelsi Quarto Oggiaro. Non proprio Quarto Oggiaro: Vialba (via Drago). Perché? Non so. Era sabato mattina. Mi sembrò un posto tranquillo. Parlai con la gente (la scusa quella di chiedere l’indicazione di una strada abbastanza lontana, in modo da costringerli a dire un po’ più di tre parole). Si stava bene. Mi sentivo un intruso, e lo ero.
Ciao.
Ezio, quel “fatto e finito” l’ho messo proprio per te, perché so che ce l’hai in antipatia! ;-)
Sergio. La questione sulla borghesia non posso risolvertela in due righe. Ci sto pensando già da molto.
Di certo uno dei trucchi per depotenziare la situazione sociale che stiamo vivendo è il dire “siamo tutti uguali siamo tutti delle merde”.
Il problema è che non è vero. La borghesia esiste e non la si distingue dal popolo-massa da quello che consuma. Ma, semmai, dal dominio effettivo che ha nei confronti degli altri.
Io invertirei la tua posizione: oggi chi si crede di essere piccolo borghese non sa di essere, in effetti, un neoproletario.
Ma ne riparlerò.
Ciao, G.B.
Il punto è che la grande piccola borghesia universale (almeno ‘per sé’ – anche se ‘in sè’, come suggerisce Gianni, può essere neoproletaria, fatta di proletari precari) ha un margine di alterità che le resiste. E questo margine è quello costituito dal sottoproletariato migrante. ‘Alì dagli occhi azzurri’ va preso sul serio.
Gianni, non dico che “siamo tutti uguali e tutti nella merda”. Dico solo che il discrimine non è la classe sociale di appartenenza, bensì il denaro. Discrimine che produce discriminazione, come nel caso di New Orleans. E’ il discorso che facevi tu a proposito di Afef, che condivido in pieno, il cui censo le permette di non essere discriminata per la nazionalità, la religione o quant’altro. Quest’estate seguivo come molti il caso Fazio sui giornali, e quelle intercettazioni telefoniche erano illuminanti. Brecht diceva che il padrone è colui che conosce più parole; oggi non è più così. Ricucci e il disoccupato di Scampia parlano allo stesso modo, sono ugualmente ignoranti, condividono gli stessi sistemi di valori e visioni del mondo. La loro identità antropologica è evidente. Hanno perfino i medesimi gusti musicali, a ben vedere, solo che il secondo si compra il cd taroccato di Gigi D’alessio, mentre il primo si compra Gigi D’Alessio. E’ il tenore di vita, il diverso potere contrattuale, che li distingue. E se il semplice fatto di fare più figli costituisse davvero l’arma del riscatto per un popolo, il meridione d’Italia non potrebbe stare nelle condizioni in cui è da decenni. Tutto qui.
Sergio, il ‘diverso potere contrattuale’ che li distingue sta anche nelle parole. E non è una questione di quantità, com’è nella tua citazione di Brecht, ma di qualità. Già don Milani diceva, Non è vero che il padrone conosce più parole. Conosce quelle giuste: quelle che hanno e producono potere (le parole della Borsa, per esempio). A Scampia si conosce il gergo della strada, invece, che Ricucci non conosce – anche se conosce bene, è da immaginarsi, il gergo della cocaina. E pure un abitante di Scampia ha sempre più potere di un sottoproletario migrante – di un ‘indesiderabile’ che è oscuro oggetto di un desiderio. O il discorso sulle nuove periferie e sui nuovi margini passa di qui (sul nuovo modo in cui si interecciano razza e classe) o non porta da nessuna parte.
Sergio Garufi scrive: “il discrimine non è la classe sociale di appartenenza, bensì il denaro.”; poi si parla di classe indistinta, borghese… Agamben aveva parlato di “piccola borghesia planetaria”; tutti questi discorsi mi convincono di una cosa. I pezzi come quello di Gianni sono “necessari”. Ma le discussioni che sollevano hanno il respiro corto. E mi metto anch’io tra quelli che ne discutono. Hanno il respiro corto perché in Italia si rifugge dal confrontarsi con analisi sociali serie. Si ricorre alla sociologia intuitiva. Che non è inutile, ma spesso non porta lontano. E’ una critica che ho rivolto anche a Carla Benedetti, quando parlava di editoria.
Se volessimo far risuonare in modo ancora più forte il pezzo di Gianni, dovremmo mettere mano anche a studi sull’attuale stratificazione di classe in Italia. Certo, le nostre esperienze. Le nostre induzioni, benissimo. Ma non basta.
Fortini criticava questo a Pasolini. Oggi si ritiene che Pasolini fosse un poeta cattivo (a parte le prime poesie…) e un buon analista della società. Fortini considerava che la faccenda all’inverso. Un grande poeta con strumenti di analisi spesso limitati.
Per concludere: 1) chi riesce a segnalare qualche testo serio sulle classi sociali in Italia oggi?
2) sulla frase di Garufi (che per altro fa osservazioni interessanti): non è solo la quantità di denaro che determina la classe d’appartenenza, sono diversi fattori; in generale, è l’ampiezza o meno del raggio di possibilità che una persona dispone per decidere autonomamente del suo destino; i fattori che determinano questa ampiezza di possibilità determinano la differenza di classe, e quindi i conflitti che queste differenze implicano.
PS Gianni, ieri sera sono passato per caso da Porta a porta (mentre stavo navigando) e Letta, nel criticare l’ICI (tassa quanto mai iniqua in quanto non progressiva), ha contrapposto, come due estremi, via Montenapoleone e Quarto Oggiaro. Fai scuola…
GULP!
Un saluto alle mie gentili omonime Emma romagnola ed Emma kristiana. Non c’è problema, per evitare confusioni e possibili fraintendimenti d’ora in poi mi firmerò con il mio nome e cognome. A proposito, cara Emma romagnola, ho ricordi bellissimi della Romagna perché ho passato gran parte delle mie estati di bambina in quel di Cesenatico. La conosci?
Un saluto,
Emma Locatelli
Andrea, ne parlavo con un mio amico storico (una volta lo ero anch’io, lui è rimasto nel campo però…) – le analisi sociali serie non ci sono più, proprio come le ragazze di Masini. E non è un ritornello d’organetto – come si sussurra sia quello della letteratura che non c’è più -: è proprio che analisi sociologiche su parametri di classe non si fanno più. Il lavoro di quel genere lo si delega a Censis e Istat. Oggi si fanno analisi più frammentate, basate sui ceti, sui segmenti sociali. Se vogliamo pragionare per classi, io torno a ripetere (confermato dalla discussione succitata) che il parametro marxiano più attuale è quello di underclass applicato ai migranti, alle non-persone che però sono forza-lavoro. Ed è qui, sulla coniugazione tra stato d’eccezione e sfruttamento che bisogna indagare – e agire.
Precisazione inutile e superflua, ma necessaria per la mia acribia: non si trattava di Porta a porta ma di Ballarò (questo la dice lunga sulla mia rappresentazione del fatto televisivo).
@Inglese
Va bene Andrea, credo che tu abbia ragione nell’indicare un certo pressappochismo in elementi di analisi che non siano fondati su qualche dato.
Credo però che qui non si stia discutendo di classi sociali, ma di cultura, così come la si percepisce giorno per giorno, mentre emana da ciò che ci circonda, dalle persone che incontriamo e che conosciamo, dai discorsi che cogliamo, pubblici e privati e infine, dai nostri stessi pensieri & sensazioni, eccetera.
Detto questo, c’è un altro punto che mi rende perplesso: qui si nominano spesso le “classi sociali” come fossero ancora una realtà indiscussa, ma siamo sicuri che sia proprio così? Siamo sicuri che esistano ancora? O almeno che esistano ancora nei termini in cui le concepisce il pensiero marxista, vale a dire in relazione al posto che ciascun individuo occupava rispetto al sistema e ai mezzi di produzione di merci e capitale?
Solo in questo senso si poteva, un tempo, parlare di “classe”. Il dato culturale era solo il sotto-prodotto “sovra-strutturale” di una ragione di esistenza di natura materiale et basica, definibile per rapporto ad un intero sistema economico. Qui c’è l’idea marxiana che ciò che pensiamo di essere, le idee che coltiviamo o da cui siamo invasi, sono determinate dal nostro “essere sociale”, dal posto e dai privilegi, se ci sono, che occupiamo nella società. Quello che il “borghese” pensa sia pensiero prodotto dalla sua mente e coscienza, altro non è che istintiva e brutale difesa dei suoi privilegi.
Eccetera (mi scuso per il richiamo a concetti scolastici espressi rozzamente).
Ancora più rozzamente: oggi si dice da più parti che classi vere e proprie non ne esistano più, sostituite da una “moltitudine” indistinta di soggetti incapaci, perché oggettivamente impossibilitati, di identificarsi per rapporto a mezzi e sistema produttivo cui appartengono.
Su questa moltitudine agirebbero direttamente le radiazioni mortali dei mezzi di comunicazione, della falsa informazione, del continuum intrattenitivo, eccetera, bruciando cervelli e coscienze (vedi la poesia di Scarpa).
Un tempo era l’acquisizione di nuovi redditi, era il cosiddetto salto di classe che ti faceva cambiare idea. Oggi non ci sarebbe più bisogno di essere un privilegiato per essere un classista, perché il terreno dello scontro si sarebbe spostato da tempo direttamente nelle menti di ciascuno.
Scampai a Napoli è un luogo comune? sicuramente. ma è anche Scampia!!!!!
e i Quartieri Spagnoli??? come dice moscato sono il più grande luogo comune legato a un luogo metropolitano… eppure sono i Quartieri Spagnoli. saluti
a marco rovelli: la mia sensazione è che tu abbia ragione; anche se non ho fatto indagini in tal senso, ma non mi stupirebbe: un certo tipo di analisi è scomparsa dalla scena culturale e politica; e rimane l’Istat e l’articolone di repubblica che ne presenta succintamente e pedissequamente i dati; eppure esistono gruppi di studio, a milano ne ho conosciuti, che non abbandonano l’idea di analisi più sistematiche sulle nuove forme di stratificazione sociale;
a tashtego: la questione non è tanto quella di fare discorsi approssimativi; nessuno di noi si sognerebbe di parlare con disinvoltura di complessi fenomeni geologici o chimici, a meno di avere alle spalle studi specialistici;
in ambito sociale, invece, pensiamo di poter fare a meno della specializzazione; ma questo non è possibile a lungo, ad un certo punto la macchina della riflessione gira a vuoto; le mancano dati vincolanti;
il fatto è questo: se vogliamo ancora parlare con un vocabolario di derivazione marxiana e/o marxista, usando termini come “classe”, coscienza sociale, proletariato, sfruttamento, ecc., credo dobbiamo riferirci agli studi più recenti che si riallacciano, in Italia o altrove, a questa tradizione di pensiero; altrimenti ci rimane in mano solo il versante obsoleto, “appressimativo”, appunto, di quel vocabolario; ed allora hanno buon gioco quelli che entrano di prepotenza dicendo: la classi (come la storia) non esistono più, che significa non esiste più conflitto di classe, ma solo conflitti atomizzati, di comunità irriducibili, ecc.
ridefiniamo tutti i parametri per dire che cosa sia, oggi, una classe sociale, ad esempio, ma già questo è un arduo lavoro… insomma senza qualche testo di riferimento non andremo molto più lontani che gli articoli di Repubblica sugli ultimi dati Istat
Seguendo Andrea Inglese, nel caso qualcuno non li avesse letti, consiglio “La condizione operaia” di Simone Weil e “Sul colonialismo. Verso un incontro tra Occidente e Oriente” della stessa autrice (di recente “rivalutata”). Perché questi e non scritti troppo teorici? Perché gli scritti teorici sono noti a tutti, e perché Simone Weil sperimentò di persona “la condizione operaia”, non avendone affatto bisogno, malata, e contro qualunque parere medico: pur di capire, raccontare, provare a spiegare.
Tutto vero.
Io, per me, viviamo ancora in una società classista, con una rigidità differente, ma comunque classista.
La sensazione che siamo più ricchi è vera se la si confronta con le condizioni operaie di 60 anni fa. Ma lo siamo “in proporzione”.
Avevo letto uno studio economico (maledetto me che l’ho perso) che diceva che se il capitalista negli anni ’50 (il mitico padrone) incassava 100 ne spendeva poi 60. Oggi guadagna 100 e spende 50. Quindi, non solo in proporzione ma anche in valore assoluto, è più ricco di ieri.
Bisognerebbe riformulare il concetto di classi, certo, che è più fluido e trasversale.
Ma di certo se il proletariato, così come lo abbiamo conosciuto, non è più classe numericamente dominante, è vero che il neoproletariato (o chiamatelo “pippo”, a me non interessa, non sono un terminologo) è fatto di figure multiformi: dal quarantenne precario al pensionato, per intenderci. Il popolo delle partite iva, i co.co.co., gli operai delle piccole imprese, etc.
E molto spesso hanno orizzonti di aspettative alti, hanno studiato, ma non hanno condizioni di minima indipendenza economica a lungo termine.
Non è un caso che la maggior parte degli iscritti a Rifondazione Comunista io li ho conosciuti negli uffici comunali. In teoria sembra una contraddizione, ma non lo è. Anche se una volta li avremmo chiamati piccolo borghesi oggi sono una sorta di classe che ha coscienza della sua condizione e che non vuole perdere i diritti acquisiti (e sono, ovvimamente in condizioni migliori, più tutelate di chi quei diritti non li ha e non li avrà mai: i giovani che entrano nel mercato del lavoro, ad es.).
A questi aggiungiamo il sottoproletariato, che c’è, eccome. Ed è fatto di extracomunitari, ma non solo. Sono i ragazzi che sparano per la camorra, sono mio cugino che va a fare il soldato in Bosnia perché non ha alternative, sono i muratori sottopagati in subappalto nei cantieri, etc. etc. (nei cantieri si muore ancora, non dimentichiamolo, tutti i giorni)
Società classista e sessista, non dimentichiamo pure questo. Quando oggi sento dire da una ragazza che lei non è femminista mi vengono i brividi, perché non si rende conto che è stato proprio il movimento femminista che ha permesso a lei di dire questa cosa senza senso.
I numeri sono lì da vedere, tutti i giorni. Quanti deputati donne abbiamo? Quanti manager donne? Quanti professori universitari, quante donne nelle stanze dei bottoni? (ma una volta non c’erano neppure, mi si può dire. Certo. una volta non c’era neppure la luce elettrica, e allora?)
Comunque questo non per smentire Andrea, figuriamoci. Secondo me ha ragionissima. Cerchiamo anzi testi più aggiornati sull’argomento.
Vero è che Pasolini certe volte pigliava cantonate paurose. La sua polemica sulla trasformazione della lingua era, per un linguista, una pura bestemmia. Ma proprio il suo non essere specialista (sempre dichiarato) e il suo esserer poeta, riusciva a fargli veicolare idee forti, che hanno stimolato, poi, discorsi più strutturati all’interno delle singole discipline. insomma, aveva torto, ma aveva ragione.
FANTASTICO!!! Il mio commento sul mio pezzo, scritto dal mio computer è sotto moderazione!!!
Non ho parole!!! Ma come funziona sta cosa Jan, me la spieghi?
Succede, Gianni. Deve aver fatto scattare un controllo automatico, quello che si dice un falso positivo. Ora regolo la cosa.
In ogni caso tu stesso puoi approvare e gestire i commenti ai tuoi pezzi.
mi sembra che il panorama che tracci corrisponda bene alla varietà e disparità di situazioni lavorative; o almeno ne fornisce un campione significativo; poi mi piacerebbe vedere delle tabelle, dove mi si dica quanti sono oggi i cococo in Italia, che livello di studi hanno, quanto guadagnano, che provenienza sociale hanno, in quali regioni si concentrano, il titolo di studio, ecc. Ma la questione lavoro, una volta parola “feticcio” della sinistra, oggi è richiamata magari da Bertinotti, come denuncia generica del precariato – che resta pero’ categoria non analizzata -, mentre Fassino neppure più la cita parlando della crisi economica con Tremonti (Ballaro’, di un mese fa, credo), bensi si concentra ad analizzare gli efetti dell’introduzione dell’euro.
Sul dilettantismo di Pasolini sono d’accordo; lo stesso Fortini predicava una forma di dilettantismo, ma esso deve essere bene inteso. Bisogna strappare allo specialista i gioielli di verità che si tiene in laboratorio e farli circolare nelle taverne affollate, sapendo trovare la forma adeguata per mettere in comune anche contenuti complessi. Ma per fare questo bisogna riconoscere anche l’inadeguatezza dei propri strumenti di scrittore, di intellettuale “umanista”. Ma qui il tono si fa predicatorio. Buona notte.
Un testo molto bello sulle nuove condizioni del lavoro precario (sull’intreccio tra struttura lavorativa e condizioni soggettive di vita) è il dominio flessibile di Renato Curcio (ed. Sensibili alle foglie). Tra l’altro, tenta di mostrare come l’economia flessibile possa essere considerata un aspetto di quella ‘eccezionalità’ che qualifica il potere globale – a un biopotere corrisponde una bioeconomia.
Gianni, troppo onore!
;-)
(scusate il tu-per-tu)
per Marco Rovelli: Gianni e’ inserito nel circolo ermeneutico sul discorso periferia- centro che ha avviato Philippe Daverio l’anno scorso,(considera che insegna al politecnico e che l-urbanistica di confine e’ la sua passione) e’ piu’ facile che faccia scuola Daverio a Vespa, per la veicolazione piu’ attigua del mezzo: la Rai.
Sono daccordo sull’impossibilita’ ormai inequivocabile di tracciare delle analisi sociologiche sulle categorie astratte come – classe- – ceto- -scolarizzazione-
Ovvero, la trasversalita’ e il nomadismo antropologico tagliano nettamente le possibili catalogazioni, e’ invece auspicabile l’abbandono dei metodi statistici quantitativi di lettura sociale per l’approdo a modalita’ gestaltiche, olistiche, insomma sistemiche di interpretazione del sociale.
Difficile infatti tracciare i profili dei nuovi precariati, perche’ eludono schemi noti, tant’e’ che ad un tasso di scolarizzazione elevato, spesso corrisponde un reddito infimo.
In merito alla genialita’ del dilettante, o dell’incursore, e’ questione di declinazione differenziata dei talenti, c’e’ chi riesce meglio nella propulsione iniziale, chi invece si gloria nel concludere i percorsi altrui.
elogio all’incopiutezza……….
magda: “la trasversalita’ e il nomadismo antropologico tagliano nettamente le possibili catalogazioni”
ma che significa?, scusa, la questione è proprio: ridefinire i parametri, per offrire catalogazioni pertinenti; siccome il fenomeno è nuovo, e allora non entra più nel vecchio modello, non costruiamo più modelli?
modalità sistemiche, chi intendi?
“nomadismo”: parola che ha avuto una grandissima fortuna, lanciata in ambito filosofico, è stata amata dall’estrema sinistra, poi ha subito una sua forma di divulgazione e banalizzaione; è una parola tutta da ripensare criticamente: a partire dagli svantaggi delle identità fragili oltre che dai vantaggi; a partire dall’immigrazione che è una forma non metaforica e coatta di “nomadismo”
Andrea, perdonami ma mi sfugge la logica del tuo intervento. Se la tua è una critica al dilettantismo, un invito a intervenire solo se muniti di adeguate credenziali, allora pressoché tutte le discussioni apparse su NazInd sono prive di senso. Qui si è parlato di politica, religione, arte, sociologia e quant’altro, e non mi pare che sia gli autori dei post che i lettori nei commenti fossero dei politologi, dei teologi, degli storici dell’arte o dei sociologi. Questo è un blog letterario, non un congresso di specialisti; e per fortuna, aggiungo. Quanto al caso specifico, ho molto apprezzato l’articolo di Gianni, che reputo ottimamente scritto e argomentato, pur avendo io espresso qua e là qualche riserva, ma è indiscutibile che si tratti, stando ai tuoi criteri, del pezzo di un dilettante, dilettante nel senso più nobile del termine, cioè di uno che si diletta a parlare di temi che non costituiscono la sua professione primaria. Ha riferito le sue impressioni, le sue riflessioni su un ambiente nel quale ha vissuto e che conosce bene; ma certo non c’erano tabelle o dati statistici recenti e incontrovertibili. Parlava anche della madre e della sua vicina di casa, per dire. Quindi non vedo perché quello di Gianni debba essere considerato “un pezzo necessario”, e il resto, cioè i commenti dei lettori, superfluità dal “fiato corto”. Ad ogni modo, le mie considerazioni naif erano tratte dalla lettura de “La comunità che viene”, di Giorgio Agamben, Bollati Boringhieri, 2001, pp.51-68; ma certo Agamben non è un sociologo.
Andrea, giuste osservazioni, la modalità sistemica,(come quella in psicologia) è quella che consente un approccio qualitativo alla catalogazione, che introdurebbe criteri valoriali, non definirei parametri, ma forme di analisi che comprendano anche il dato “variabile” “imponderabile” “interveniente” cioè, proprio quell’elemento, che oggi, crea tanta difficoltà nel riportare a facili schematizzazioni. Credo che il concetto di anomalia di Thomas khun, ci possa aiutare molto in questo senso. Il testo di riferimeno è- la Struttura delle rivoluzioni scientifiche- edito da Einaudi se non erro.
Su questo filone, mi pare molto interessante la trasposizione che fa’ Faherabent(che non si scrive cosi ma non fatemelo cercare corretto), cioè lui trasporta il concetto di anomalia scientifica alla struttura sociale è ne deduce le stesse conclusioni di Kuhn sulla scienza: le innovazioni sono spesso prodotte dalla raccolta con occhio disincantato di Anomalie che apparentemente non rientrerebbero in nessun paradigma noto.
Bene, allora data questa attuale come situazione sociale molto anomala, direi che è proprio il caso di ridefinire nuovi Paradigmi, concetto molto piu’ ampio e flessibile del Modello, adeguati a contenere le variabili intervenienti, gli elementi sconosciuti del nuovo scenario sociale.
“la trasversalita’ e il nomadismo antropologico tagliano nettamente le possibili catalogazioni” significa che i modelli che si applicano alla cultura occidentale sono inapplicabilio per esempio agli immigrati, e non è nemmeno auspicabile che cio’ avvenga.
forse diciamo le stesse cose con un linugaggio diverso, il tuo piu’ tecnico, il mio piu’ meta-quallo che vuoi.
ciao
magda
orrore per la specializzazione, per questo non faro’ mai la giornalista:-)
Sergio, visto che citi Agamben, è lui stesso a dare un’indicazione d’uso della sua produzione concettuale. A proposito del ‘campo’ – che unisce Auschwitz e biopolitica contemporanea – scriveva questo:
‘Anni fa mi è capitato di scrivere che il paradigma politico dell’occidente non è più la città, ma il campo di concentramento, non Atene, ma Auschwitz. Era, naturalmente, una tesi filosofica e non storiografica. Non si tratta, infatti, di confondere fenomeni che vanno tenuti distinti. Vorrei soltanto suggerire che è probabile che il tatuaggio a Auschwitz apparisse come il modo più «normale» ed economico di regolare l’iscrizione dei deportati nel campo. Il tatuaggio biopolitico che oggici impongono per entrare negli Stati Uniti è la staffetta di quello che domani potrebbero farci accettare come l’iscrizione normale dell’identità del buon cittadino nei meccanismi e negli ingranaggi dello stato.’
Insomma, è lui stesso a dirci come, nell’analisi di processi storici, è buona norma tenere distinte le cose. Distinte, ma necessariamente insieme. Così, la piccola borghesia planetaria di cui Agamben parla dovrebbe essere considerata l’enucleazione filosofica e concettuale della questione – la chiarificazione dei fondamenti, che è preliminare e necessaria. Dopodiché, però, non ci si può fermare.
Parlando di Istat e di dati:
http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/economia/poverieurostat/poveritalia/poveritalia.html
caro sergio, so che i miei interventi reclamano la botte piena e la moglie ubriaca; ma vanno letti innanzitutto come un AUTOcritica; mi spiego: i nostri commenti mettono in gioco le nostre associazioni più spontanee, rivelano di scorcio il nostro bagaglio ideologico (intendi le nostre cognizioni e i nostri valori); e nonostante le inevitabili differenze, cio’ che ci accomuna è molto di più di quanto ci divide; per questo parlo di AUTOcritica, nel senso che quanto viene detto puo’ portare la mia firma la tua quella di tashtego o di magda, in quanto certe coordinate di pensiero sono oggi comuni a chi ragiona sulla società nel solco più o meno indistinto di una cultura di sinistra; e lo fa, appunto, da non specialista.
Ma perché autocritica? Perché dobbiamo “rinnovare” i nostri “luoghi comuni”. Dobbiamo riarticolarli, integrarli continuamente con saperi specialistici, metterli costantemente alla prova. Io non disprezzo il fatto che esistano dei “luoghi comuni”, nel senso aristotelico di concetti socialmente condivisi, almeno in un dato ambiente. Dico solo che dovremmo essere disposti a ridefinirli criticamente più spesso di quanto ci è avvenuto di fare in questi anni.
Anch’io difendo il dilettantismo. Tutto sta nel come interpretarlo. In concreto, sento che sarebbe più opportuno leggere dei buoni libri specialistici per capire il funzionamento di certi fenomeni sociali, e trarre da essi elementi da inserire in una discussione pubblica, piuttosto che leggermi qualche buon romanzo in più; o qualche libro di critica letteraria.
Su questo credo di non riscuotere grande consenso, ma è il punto di vista che bene o male cerco da sempre di rendere evidente in NI, è il mio contributo, per discutibile o non ancora sufficientemente articolato che sia; anche se non sono certo il solo a muovermi in questa direzione;
auto critica, detto da te Andrea, che non hai nemmeno la patente…
effeffe
ps
ci vediamo sabato?
Magda Feyerabend!Paul Feyerabend! Feyerabend l’anarchico
Il testo di BIONDILLO va assolutamente INTEGRATO con quelli da me proposti, sullo stesso tema, in http://www.lucioangelini.splinder.com, dove appare anche una foto di Biondillo nel caratteristico costume di Quarto Oggiaro.
grazie..Francesco..tanto Giorello me l’ha già fatto l’esame.(se mi leggesse mi uccideresse)…ma a te Feyerabend piace?
io leggo solo saggi, possibilmente pesantissimi, i romanzi mi annoiano…..è un limite?
pero’ tendo a romanzare la mia esistenza….è un eccesso?
Nel senso che mi accadono cose che solitamente si leggono nella narrativa.
Sul senso comune vado ad interrogare la psicologia sociale tipo Durkheim che mi piace tanto tanto tanto tanto tanto.(jovannotti)
Thomas Kuhn, Paul Feyerabend et Imre Lakatos, sono autori, soprattutto il primo, che mi hanno formato ancor più nella vita che in filosofia
effeffe
ps
Del resto credo che abbiano avuto anche ricadute sull’antropologia
ah! che soddisfazione sentirtelo dire! quindi un po’ ti senti ingravidato, fecondato, dalle loro magnifiche intuizioni. E allora, come non sentirsi responsabili, portatori sani di nuovi significati sociali declinabili proprio in questa ottica, nell’ottica dell’apertura e del respiro alle nuove concettualità, tipo quelle citate che non hanno ancora trovato driver veicolanti la loro forza propulsiva!
giorello direbbe: Compagni é ora di sognare!!!
Francesco, non ce l’ho neppure io la patente. Quindi niente auto-critica, giusto? ;-)
a proposito di “dilettantismo”, non capisco chi meglio della letteratura possa descrivere – con tutte le conoscenze “specialistiche” che il letterato ha in quanto tale – coserelline come la vera natura e le trame del potere, i cambiamenti sociali eccetera. è convincente Sciascia quando dice “l’italiano non è l’italiano, l’italiano è il ragionamento”. se uno non lo fa è per timidezza o per inconfessabile rinuncia non perché ritiene davvero di essere un dilettante e che per questo deve occuparsi esclusivamente di ditirambi. ciò che conta è avere lo spirito del dilettante, la capacità di stupirsi delle cose e di ricominciare ogni volta daccapo, farsi tabula rasa, ma resta chiaro che per comprendere i fenomeni occorre studiare e documentarsi. secondo me.
magda sei grande… hai un modo, direbbero i franzosi, “fantasque”…
Lo sai che alcuni sostenevano che a lezione, se qualcuno pronunciava la parola “coniglio”, Giorello ipnoticamente faceva un giro intorno alla cattedra?
biondillo, forlani, vi rendete conto che siamo l’avanguardia del XI secolo? Ben oltre i timidi e rinunciatari gonfaloni dello sviluppo sostenibilie, noi massimalisti siamo per la “decrescita”, le cariole, i tricicli, lo slittino:
E che dire di questo?
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/10_Ottobre/06/stagisti.shtml
http://www.bergamoblog.it/modules.php?mop=modload&name=Splatt_Forums&file=viewtopic&topic=543&forum=11
note personali:
simpaticamente iracondo, nervoso, disordinato ed eversivo,ricordo il professore nelle mattine autunnali mentre entrava trafelato e perennemente in ritardo in aula, con dei modi d’abbigliarsi improbabili, giacche pendenti, calzoni scivolanti, capelli di un lungo nebuloso, occhiali sporchi, postura ricurva del lettore, che evocava sapienza, mai dalla cattedra, ma sotto , parallelo ad essa , camminando avanti e indietro con un andatura veloce e inquieta tanto che le gambe sembravano allungarsi affannosamente alla ricerca di uno spazio ulteriore, perchè quello preposto non avrebbe contenuto la sua voglia di farci apprendere e imparare il mondo meraviglioso della sua conoscenza.
e poi, come non ricordare gli esami e le domande che gli ponevano gli studenti..una volta ad un quesito epistemologico rispose andando in fretta e furia alla lavagna e scrivendo una formula, quella era la risposta……si narra che spesso stracciasse persino i libretti a chi si presentasse impreparato o dicesse cazzate.
l’ho visto stamattina su un giornale con taglio tattico, lustro, pulito e con aria da star…per esigenze massmediali credo,..uhm….e sento un po’ di nostalgia per l’immediatezza e l’autenticità conosciute nella sua dimensione naturale:l’affabulatore di conoscenza presso gli amanti di epistheme e denigratori di doxa.
Magda
si gianni, qui in francia lo “stage” è diventato nel giro di pochi anno uno strumento micidiale in mano alle aziende; lavori a volte “gratis” per mesi, senza nessuna garanzia di assunzione; ossia come dice anche l’articolo, permette di tenere un numero ridotto di personale stipndiato; e anche qui le faccende di classe contano: c’è una piccola fetta di stagisti privilegiati economicamente, famiglie ricche e con conoscenze, che accumula stages finché ottengono un lavoro; altri, dopo aver lavorato scarsamente o non retribuiti nei settori di loro interesse, devono mollare e accettare quel che passa la convento (se passa!)
“si narra che spesso stracciasse persino i libretti”.
sorvolo sulla successiva declinazione dei verbi “presentarsi” e “dire”.
gli stracciatori di libretti prima del sessantotto erano legioni.
alcuni si dilettavano nel buttarli dalla finestra.
poi accadde che in alcuni istituti universitari diretti da stracciatori di libretti comparisse qualche pecora viva, che mangiava il suo fieno.
“il mondo meraviglioso della conoscenza” cominciò a mescolarsi con legioni di nere palline secche che rotolavano sul pavimento.
per un paio di decenni, forse più, di libretti non se ne stracciarono più.
allora è una proiezione per quanto ha subito pure lui, che penso abbia invece una decisa predisposione anarchica.
magda ma tu proponi l’orripilante conciliazione atei-papisti?
no, tento di adottare linguaggi che risultino comprensibili ed empatici ai presunti avversari. Diversamente, non è possibile nessun dialogo che possa orientare il piu’ potente uomo dell’occidentalità a comprendere in che direzione aprire le porte di San Pietro. Che ci piaccia o no, qualisasi tipo di rinnovamento sociale, passa attraverso la rilettura delle cristianità, ma non da parte nostra, che sarebbe faziosa, da parte loro, tanto per non ritrovarceli eternamente contro.
Fai conto un cavallo di troia intellettuale.
ma è un nostro segreto, non dirlo a nessuno.
questa volta non voglio capire
heheeh, facciamo cosi: nel clima di bastardi inconsapevoli che criminalizzano il meticciato, cioè se stessi, perchè non ineggiare a forme allargate di ibridazione?
Magda, più leggo e più penso alla supercazzola: chissà cosa volevi dire, e a chi. :-)
ce l’ho con le Pere. ma anche un po’ con i monoliti culturali. viva i meticciati anche teologici. Vuoi vede che prima o poi vado da Giuseppe Ratzi e gli faccio leggere il corano?fa niente dai….aprimi uno spazio del cazzeggio vario. tipo: menta inviperita, refusa, otium negotium prezzemolo e finocchium.
sono un agente segreto travestito da svampita, che mi viene tanto bene:-)
Eh, ma come scrivi difficile…
pota, so de Berghem! se capess mia quando parle.
scrie dificile sciè sembre pio’ sapientuna.
ma secondo voi le periferie milanesi come quarto oggiro o baggio sono veramente degradate e popolate da malviventi,insomma quartieri da evitare,come continuano a dire gli abitanti dei quartieri benestanti o di comuni limitrofi???secondo me no…xo moltissime persone non la pensano come me…voi cosa pensate?
io sono quello con gli occhiali al centroe non ricordavo di aver mai fatto una foto del genere
Can’t we all just get along?
W QUARTO OGGIARO !!!! QUARTO COMANDA !!!
cerchiamo di comunicarci news di quartiere e altro:
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