Lo scrittore e la trascendenza
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In febbraio ho fatto visita a mia madre a Dresda. Ci vediamo di rado, ma in compenso ci sentiamo spesso per telefono.
Stavamo cenando seduti in cucina, quando suonarono alla porta. Mia madre ammutolì. Senza fare rumore posai la tazza. Dall’esterno giunse un singhiozzo. Una voce di donna chiamò mia madre per nome. Poi udii di nuovo il singhiozzo.
“Mio Puškin!” esclamò Henrietta entrando in cucina, e mi accarezzò le guance. Il trucco le era colato giù fino al rossetto.
Henrietta è originaria di Sverdlovsk, che adesso si chiama di nuovo Jekaterinburg. Abita qui da vent’anni. È divorziata, le due figlie se ne sono andate da tempo. All’inizio era disoccupata, adesso è in pensione. Ha ritagliato un articolo su di me da un quotidiano locale e dice sempre che assomiglio a Puškin.
Tutta agitata, Henrietta raccontò che la vicina X voleva da lei cinquecento marchi. Era arrivata nel pomeriggio, aveva sbraitato e aveva preteso un risarcimento per il suo tavolo. Henrietta ruppe di nuovo in lacrime. Mia madre capiva poco quanto me. “Tavolo di sopra, da mio angolo!” esclamò Henrietta. Un tempo, chi non aveva più bisogno di qualcosa lo portava in soffitta, tra le cose di Henrietta, e lei lo passava alle famiglie degli ufficiali russi. Una settimana prima, Henrietta aveva trovato lì un tavolo degli anni cinquanta, di quelli a forma di fagiolo. Credendo che qualcuno se ne fosse sbarazzato, lo aveva preso per sé, ma poiché per lei era troppo alto, aveva segato le gambe di un palmo.
La signora X deve esser corsa di porta in porta, in preda all’agitazione, per cercare ciò che rimaneva del suo tavolo. Henrietta l’aveva fatta entrare. Davanti al tavolo mutilato, la signora X si era infuriata e aveva insultato Henrietta e preteso da lei cinquecento marchi per la sua proprietà rovinata: che non le venisse in mente di andarsene da lì prima di aver pagato i danni.
“Questa X!” interruppi Henrietta. “Questa X ha poco da darsi delle arie!” Già molto prima del 1989 sapevamo che la signora X e il signor Y lavoravano per la Sicurezza Nazionale e “si prendevano cura” del nostro stabile. Sia mia madre che Henrietta ne avevano trovato conferma nei loro fascicoli. La convivenza nello stesso condominio non aveva cambiato nulla. Come ai tempi della RDT, ci si salutava appena e ognuno andava per la propria strada.
Mia madre annuì, poi però fece una proposta che mi spaventò. Henrietta smise di piangere.
Due giorni dopo, un sabato, Henrietta andò dal parrucchiere, indossò un lungo vestito blu scuro, vi aggiunse la collana d’oro di sua madre, preparò del caffè e apparecchiò per due il tavolo segato. Sopra vi mise anche una busta con cinquecento marchi e un raccoglitore con dei fogli fotocopiati. Davanti all’icona che possiede dallo scorso agosto brillava una candela, dal giradischi giungeva musica corale russa. Poi suonò dagli X e invitò la signora X a salire. Dieci minuti più tardi, quando le due donne furono sedute l’una di fronte all’altra, Henrietta si scusò. Prima di darle i cinquecento marchi, tuttavia, aveva ancora una domanda. Le sarebbe piaciuto sapere perché lei, la signora X, aveva scritto dei rapporti su di lei, Henrietta, e sulla sua famiglia.
La signora X sorrise e domandò come Henrietta potesse diffondere simili calunnie. Henrietta le porse il raccoglitore al di sopra del tavolo. La signora X cominciò a muoversi nervosamente. Sfogliava i documenti e ripeteva che erano tutte menzogne. Henrietta taceva e la guardava scorrere i fogli. La signora X gridò che aveva scritto solo pochissimi rapporti su di lei. Il vicino Y, il signor Y della porta accanto, era lui il responsabile, e quello che lei aveva consegnato non era certo paragonabile con quello del signor Y, né tanto meno della signora Z. “È lei, la signora Z, quella che ha scritto più rapporti!”.
Henrietta rimase calma. Tutto ciò era possibile, ma quelli che si trovavano negli atti erano gli appunti della signora X e non quelli della signora Z o del signor Y.
La signora X sussurrò che aveva bisogno di una grappa. Balzò in piedi e tentò di abbracciare Henrietta, ripetendo che non doveva pensare male di lei, che lei stessa era stata costretta a scrivere tutta quella roba. “Non l’ho fatto con intenzione” gridò. “Io non ho fatto male a nessuno!”
Trangugiò la grappa, cominciò a piangere e corse fuori – senza i cinquecento marchi. Henrietta chiuse la porta, bevve anche lei una grappa e venne a suonare da noi.
Mia madre trovò curioso che la signora X avesse sempre creduto che noi non sapessimo niente. Inoltre le piacquero gli accurati preparativi di Henrietta.
“Ero convinto”, dissi, “che la signora X avrebbe intascato i soldi e se ne sarebbe andata”.
“Eh, no!” esclamò mia madre. “Io ci ho sempre creduto, la giustizia vince!”.
Un paio di settimane più tardi misi per iscritto questa storia. Forse avrei potuto usarla al posto di un articolo di giornale che avevo promesso. Ma fino a quel momento non avevo ancora mai “trascritto la realtà”. Per questo il mio proposito mi inquietava un po’. In questo caso, tuttavia, la “vita vera” mi sembrava altrettanto eloquente e atipica di una storia inventata.
“Oggi ho scritto di te e Henrietta”, dissi a mia madre quella sera al telefono, e le parlai di ciò che con questa storia si sarebbe potuto spiegare, per esempio che nella Germania dell’est si sperava nella giustizia e al suo posto si è avuto lo stato di diritto, e che le misure e i modelli comportamentali di allora non sono compatibili con quelli di oggi, e che le coordinate del sistema che è tramontato sono ancora riconoscibili dappertutto – e disorientano come boe andate a fondo.
“Sta’ a sentire!” m’interruppe mia madre. “Non è ancora finita!”
“La signora X si è rifatta viva!”
“Macché! Una storia tutta nuova”, esclamò mia madre.
Da qualche giorno Henrietta se n’era andata. Adesso abitava in un grattacielo nel centro di Dresda. Per la nuova abitazione si era comprata un tavolino da toilette con il ripiano in vetro. Trascinare lo scatolone verso casa fu un vero tormento. Durante il cammino, un giovane si offrì di aiutarla. Prese il tavolino, lo portò nell’angusto ascensore e salì. Henrietta prese l’altro ascensore. Quando scese al suo piano, non trovò né il tavolino né l’uomo.
Aspettò, scese di sotto e salì di nuovo. Gridò più volte nella tromba delle scale che il tavolino andava al settimo piano, corse su per le scale e ancora giù. L’unica risposta le venne da una donna anziana che le chiese cosa avesse da gridare.
Henrietta le domandò se aveva visto un uomo con uno scatolone e le raccontò la sua disavventura.
L’anziana la rispedì in casa, salì di persona fino al piano più alto, suonò a una porta ed entrò. Due giovani stavano montando un tavolino da toilette. Che continuassero pure così, disse lei. Derubare la madre della donna di un mafioso, così da attirare nell’edificio le guardie del corpo del genero – e tutto per un così pacchiano tavolino da toilette! Augurò loro buon divertimento e sparì.
Dieci minuti dopo le due donne uscirono dall’ascensore con il tavolino montato e avvitato. Nella fretta il ripiano in vetro aveva preso qualche graffio. Henrietta, generosamente, ci passò sopra.
Continuai a mettere la storia per iscritto. Volevo concluderla con l’enorme scritta illuminata che aveva campeggiato sul tetto del grattacielo di Henrietta fino al 1990: “Il socialismo vince”. Mi sembrava una buona immagine finale.
“La mostrerai a Henrietta?” domandò mia madre.
Poiché volevo cambiare il suo nome e probabilmente Henrietta non si sarebbe mai imbattuta nel giornale, non me ne preoccupai.
In maggio tornai a Dresda. Henrietta ci invitò da lei. Era appena rientrata da un pellegrinaggio a Kiev e voleva raccontarci com’era andata. “Spero che non duri troppo”, dissi. Forse in casa sua avrei trovato ancora qualche dettaglio per le mie descrizioni.
In auto mia madre mi avvertì: “Henrietta vede come una specie di volontà divina il fatto che andiamo da lei. Il suo compito adesso è fare la missionaria in Germania. È cominciato tutto con Misha, uno che si è nominato prete da sé e che è stato ufficiale prima in Afghanistan, poi nella RDT. Ha detto a Henrietta che avrebbe dovuto fare un’offerta di quattromila dollari a una chiesa, altrimenti entro sei mesi si sarebbe fatta male in cucina e pum!, sarebbe caduta morta”.
L’ingresso dell’edificio e l’angusto ascensore erano tappezzati da cima a fondo di graffiti. Henrietta ci abbracciò e ci baciò, poi ci condusse attraverso il suo bilocale (il tavolino da toilette – telaio dorato e ripiano in vetro scuro – aveva effettivamente dei graffi) fino in balcone, da dove si vedevano le chine dell’Elba.
L’icona a mezza altezza sopra il piccolo armadio a parete era circondata da uno stuolo di santini, così tanti che si coprivano l’un l’altro. Davanti a tutto ciò erano disposte, impilate come carte da gioco, piccole immagini colorate, sul retro delle quali erano stampate delle preghiere.
“Se in vita ho fatto giusto qualcosa, allora quando andata in monastero”, esclamò Henrietta. Indossava un vestito scuro molto scollato e con un taglio ampio sulla schiena, che lasciava in vista la chiusura a fermaglio di un reggiseno rosso.
A Kiev Herietta aveva abitato da una taumaturga, madre Maria, che guariva con l’energia celeste, in sedute di diverse ore, mani schiacciate e gambe gonfie, cosicché la gente se ne tornava a casa senza dolori né stampelle. Henrietta fece l’imitazione della donna, gettò le mani in avanti, spinse di lato i gomiti, alzò le spalle. Se non l’avesse visto con i suoi occhi – e a quel punto Henrietta ci fissò – non ci avrebbe creduto.
Con Maria, Misha e gli altri era andata in Ucraina occidentale, nel monastero di Pocajeva. Qui il piccolo gruppo aveva aspettato dalle quattro del mattino davanti alla porta della chiesa. Nella tarda mattinata, quando li fecero entrare, ci fu una specie di gara, perché tutti volevano toccare l’inferriata che li separava dall’altare, almeno con la punta delle dita.
Il sacerdote, alto e con gli occhi scuri e profondi, aveva dato istruzioni ai fedeli: non importava ciò che sarebbe accaduto intorno a loro – non avrebbero dovuto preoccuparsene, avrebbero dovuto resistere, restare sul posto e aver fede in Dio.
Mentre Henrietta parlava, il suo sguardo si perdeva alle nostre spalle; sembrava un bambino assorto nel canto davanti ai parenti. Raccontava sempre più eccitata e sempre più spesso usava parole russe. Ormai la capivo a malapena.
Intorno a Henrietta le persone si fecero visibilmente irrequiete e all’improvviso cominciarono a sospirare. Poi a gemere e piagnucolare. Henrietta si stringeva sempre più forte all’inferriata. Quando il sacerdote prese la Bibbia dall’altare, qualcuno si mise a urlare. Si gettarono per terra. “Come cavalli facevano, come cavalli e lupi, huhuhuu!” Al suo Misha si rizzarono i capelli. “Uno fare anche come maiale, fare come maiale, oho!”
Quando il sacerdote cominciò a toccare con la Bibbia le teste dei fedeli, nella chiesa rimbombò un muggito inaudito. A fianco di Henrietta un giovane lanciò un grido e tentò di fuggire, ma la madre lo trattenne con forza contro la rete; un uomo si rotolava sul pavimento.
“Affascinante, affascinante!” continuava ad esclamare mia madre. All’improvviso le persone ammutolirono, si sbatterono via la polvere dai vestiti e si guardarono attorno con imbarazzo. “Loro non sanno cosa successo, insomma, diavolo in anima”. Adesso Henrietta parlava di demoni e stregoni. A volte basta guardarli un solo istante, diceva, e già si ha il diavolo in corpo.
“E a te cos’è successo?” domandò mia madre.
“Io niente diavolo, ma devo comunque purificarmi, tutti devono, bisogna farlo, va così”.
Henrietta era ritornata in Germania per diffondere il racconto della purificazione. La sua grande preoccupazione era di non riuscire ad assolvere questo compito. Avevo un certo languore nello stomaco. Doveva essere stato il caffè di Henrietta. Insistetti con mia madre per andarcene. Le due donne si diedero appuntamento per la settimana successiva.
Finalmente in ascensore, mia madre, prima ancora che potessi dire qualcosa, tirò fuori dalla borsa due luccicanti carte del mazzo di Henrietta e me ne porse una. “O vuoi quest’altra?” In quel momento il suo volto cambiò espressione. Mi fissò atterrita, i suoi occhi tutt’a un tratto sembravano più grandi, come se portasse un paio d’occhiali con le lenti spesse. Indietreggiò un poco, ma subito tornò a piegarsi in avanti. Volevo chiederle che diavolo avesse da guardarmi. Ma all’improvviso la sua testa era lontana, caddi all’indietro, le gambe mi cedettero e scivolai a terra. Un cattivo odore mi penetrò nel naso; mi sentivo tutto stretto nei vestiti.
Quando finalmente la porta dell’ascensore si aprì, una coppia di anziani, vedendomi, si fece indietro. Mi guardarono dall’alto in basso. Non so come sia potuto accadere, come mai all’improvviso ero per terra. Probabilmente ero inciampato, ed ero caduto lungo disteso. Mia madre mi aiutò a rialzarmi. Ma fece troppo in fretta e crollai di nuovo. La coppia non si mosse dal suo posto.
“Hai sentito?” domandò l’uomo. La donna annuì. Bisbigliarono. Per due volte afferrai la parola “scrittore”.
“Come un maiale,” disse poi la signora, “come un branco di maiali”.
Avrei voluto dire che in fin dei conti può capitare a chiunque di inciampare, e che questa non era una buona ragione per insultarmi. Ma mia madre mi trascinò via.
Una volta fuori, mi sbatté via lo sporco da giacca e pantaloni. Poi andammo a casa.
*
Il nuovo romanzo di Schulze, Neue Leben (Nuove vite), uscirà in Germania il 18 ottobre.
Grazie per aver postato questo brano.
Che belle cose escono in Germania. Questo lo traduce qualcuno, in Italia, o bisogna ordinare alla Merkel?
Mondadori
Bello, intenso, un brano che si sgrana con gli occhi e con la testa. Sembra una piccola fiaba nera, di quei racconti per gli inverni a venire, ma che mostra, credo, la vitalità di una letteratura, la forza che sa esprimere ed imprimere. Bello, davvero.