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Postproduzione 2

di Nicolas Bourriaud

a cura di Alessandro Broggi

[…] Gli artisti della post-produzione operano un editing delle narrative storiche e ideologiche, inserendo gli elementi che le compongono in scenari alternativi. La nostra società è strutturata da narrative, scenari immateriali, che sono più o meno rivendicati come tali e tradotti da stili di vita, riferimenti al lavoro o ai divertimenti, istituzioni e ideologie.

[…] Noi viviamo all’interno di queste narrative. La divisione del lavoro è lo scenario dominante dell’occupazione; la coppia sposata è lo scenario sessuale dominante; turismo e televisione sono lo scenario privilegiato del tempo libero. Secondo Liam Gillick, “Siamo tutti vittime dello scenario del tardo capitalismo. Alcuni artisti manipolano le tecniche di previsione in modo da esporre le motivazioni(1)”

[…] Le forme che ci circondano sono la materializzazione di queste narrative, che sono nascoste in ogni prodotto culturale, ma anche nell’ambiente quotidiano. In tal modo, un cellulare, un vestito, i titoli di coda di un programma televisivo, il logo d’impresa… riproducono degli scenari comunitari impliciti che inducono certi comportamenti, promuovono valori collettivi e varie visioni del mondo. […] “La produzione di scenari è uno dei principali elementi che permettono di mantenere il necessario livello di mobilità e invenzione richiesto per fornire un’aura dinamica alla cosiddetta economia del libero mercato” (2).

Gli artisti della postproduzione utilizzano queste forme per decodificare e produrre linee narrative divergenti e narrative alternative. […] L’arte porta gli scenari collettivi alla consapevolezza e propone altri percorsi nella realtà, con l’aiuto delle stesse forme che materializzano le narrative imposte. Manipolando le forme frantumate dello scenario collettivo, considerandole cioè non come fatti indiscutibili, ma come strutture precarie da utilizzare come strumenti, gli artisti producono singolari spazi narrativi dei quali l’opera è la messinscena. Utilizzare il mondo permette di creare nuove narrative mentre la sua contemplazione passiva relega ogni produzione umana allo spettacolo comunitario. […]

Pierre Huyghe organizza il suo lavoro come critica dei modelli narrativi che la società ci propone. Le commedie televisive, ad esempio, forniscono al grande pubblico contesti immaginari nei quali si può identificare. […] Questa visione del mondo non è affatto distante dall’organizzazione del potere teorizzata da Michel Foucault: una “micropolitica” che riflette, dall’alto al basso della scala sociale, finzioni sociali che a loro volta prescrivono costumi e tacitamente organizzano il sistema dominante. […] La sfida dunque è rappresentata dal diventare interprete critico di questi scenari, giocando con altri scenari, costruendo commedie circoscritte che andranno a sovrapporsi alle narrative che ci sono state imposte, […] [per] portare alla luce questi scenari impliciti e inventarne degli altri che ci renderanno più liberi. […]

Quando Jorge Pardo realizza Pier a Munster nel 1997, costruisce un oggetto apparentemente funzionale, una pensilina di legno, ma la sua funzione in questo caso resta sconosciuta. Per quanto Pardo metta in scena strutture quotidiane, utensili, mobili, lampade, egli non assegna a questi oggetti delle funzioni precise. È molto probabile che questi oggetti non servano a niente. Cosa farsene di una cabina aperta alla fine di una pensilina? Per fumarsi una sigaretta, come ci invita a fare il distributore automatico su una delle sue pareti? Il visitatore dovrà inventarsi delle funzioni o scovarle tra il suo repertorio di comportamenti. Jorge Pardo prende dalla realtà sociale un insieme di strutture utilitarie che programma nuovamente […].

Da Andrea Zittel a Philippe Parreno, da Carsten Hoeller a Vanessa Beecroft, questa generazione di artisti combina l’arte concettuale e la Pop art, L’Anti-form e la Junk-art, ma anche certi processi stabiliti dal design e dal cinema, dall’economia e dall’industria: è impossibile separare la storia dell’arte dal suo sfondo sociale. Ambizioni, metodi e postulati ideologici di questi artisti non sono così distanti da quelli di Daniel Buren, Dan Graham o Michael Asher, venti o trent’anni più tardi. Certificano l’analoga volontà di rivelare le strutture invisibili dell’apparato ideologico, decostruiscono sistemi di rappresentazione, girano intorno a una definizione dell’arte come “informazione visiva” che distrugge l’intrattenimento. […]

Per gli artisti concettuali il luogo espositivo costituiva un luogo in sé e di sé, mentre per gli artisti di oggi diventa uno dei tanti luoghi di produzione. Ormai, non si tratta di analizzare lo spazio espositivo, ma di individuarne la posizione all’interno di un sistema di produzione più vasto, con il quale si stabiliscono e si codificano delle relazioni. […] La galleria è un luogo come un altro, uno spazio che è parte di un meccanismo globale. […] La società è diventata un corpo diviso in lobby, partiti, comunità e un grande catalogo di contesti narrativi. Ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare “realtà” è un montaggio, e ci si chiede se, quello in cui viviamo, sia l’unico possibile. A cominciare dallo stesso materiale (il quotidiano), si possono realizzare diverse realtà. L’arte contemporanea è come una consolle di montaggio alternativa che turba le forme sociali, le riorganizza o le inserisce in scenari originali. L’artista de-programma allo scopo di ri-programmare, suggerendo utilizzi alternativi delle tecniche e degli strumenti a nostra disposizione. […]

Matthieu Laurette usa per il suo lavoro i piccolo annunci sui quotidiani, i quiz televisivi, le offerte di marketing. Navin Rawanchaikul lavora sulle compagnie di taxi così come altri disegnano su carta. Fondata la sua compagnia, UR, Fabrice Hybert dichiara di voler fare un “uso artistico dell’economia”. […] Gli oggetti sociali, dunque, dalle abitudini personali alle istituzioni pubbliche m passando per le strutture più banali sono rimosse dall’inerzia. L’arte reinserisce questi oggetti in un universo funzionale, dandogli nuova vita oppure rivelandone l’assurdità. […]

Fatimah Tuggar, nei suoi video e fotografie, combina pubblicità americane degli anni ’50 con scene di vita quotidiana in Africa, mentre Gunilla Klingberg si appropria dei logo dei supermercati svedesi riadattandoli in enigmatici mandala. Nils Norman e Sean Snyder catalogano i segni urbani riscrivendone la modernità a cominciare dall’uso comune nel linguaggio architettonico. Tali pratiche dichiarano, ognuna a suo modo, l’importanza di mantenersi attivi rispetto alla produzione di massa. Tutti gli elementi di tale produzione sono utilizzabili e nessuna immagine pubblica deve beneficiare dell’impunità, per qualunque motivo. […] È in corso una battaglia legale che colloca gli artisti in prima linea: che nessun segno resti inerte, che nessuna immagine sia considerata intoccabile. L’arte è un contro-potere. […]

Nella vita di ogni giorno incontriamo fiction, rappresentazioni, forme, che nutrono un immaginario collettivo i cui contenuti sono dettati dal potere. L’arte, invece, ci presenta delle contro-immagini, forme che mettono in questione le forme sociali. Davanti a un’economia fantasma – arma assoluta del potere tecno-mercantile – che rende la nostra vita irreale, gli artisti riattivano le forme abitandole, piratando proprietà private e copyright, le marche e i loro prodotti, firme d’autore e forme museali. […]

Se oggi il download di forme (sampling e remake) rappresenta problematiche importanti è perché ci spinge a considerare la cultura globale come una scatola di strumenti, uno spazio narrativo aperto, piuttosto che un discorso univoco o una linea di prodotti industriali. Invece di prostrarsi davanti alle opere del passato gli artsti se ne servono. Così Tiravanija crea un lavoro dentro un’architettura di Philip Johnson, Pierre Huyghe filma una seconda volta Pasolini, pensando che le opere propongono degli scenari e che l’arte è una forma di utilizzo del mondo, un’infinita negoziazione di punti di vista. Sta a noi spettatori mettere in evidenza queste relazioni, giudicare le opere d’arte in funzione dei rapporti che producono all’interno del contesto specifico nel quale si manifestano. Perché l’arte è un’attività che consiste nel produrre rapporti con il mondo, e materializzare – in una forma o nell’altra – le sue relazioni con lo spazio e col tempo.

Note
(1) Liam Gillick, “Should the future help the past?”, in cat. in Dominique Gonzalez-Foerster, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, cat. Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Paris, 1998.
(2) Ibid.

*

[‘Postuprduzione testuale’ a cura di Alessandro Broggi; da: Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia books, 2004, traduzione dal francese di Gianni Romano]

Critico d’arte e curatore, Nicolas Bourriaud (Niort, 1965) dirige il Palais de Tokyo in collaborazione (museo di arte contemporanea di Parigi) con Jérome Sans. Nel 1992 ha fondato la rivista di arte contemporanea Documents sur l’art. Per Flammarion ha pubblicato il romanzo L’ère tertiaire e per i tipi di Presses du Réel il saggio Esthétique relationnelle. Dal 1990 ha curato numerose mostre: Traffic, CAPC Bordeaux, 1996; Contacts (relations, bricolage et travaux de consommation) Fribourg, 2000; Négociations, CRAC Sète, 2000; Playlist, Palais de Tokyo, 2004; Biennale de Lyon 05. E’ co-curatore della prima Biennale di Mosca, 2005.

Da « L’Ulisse » n. 5 (www.lietocolle.com/ulisse)

(immagine: Sandy Skoglund, Atomic love)

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10 Commenti

  1. Sì, l’arte rimette in discussione le forme, le colloca in nuovi scenari. Mi chiedo: gli scrittori forse dovrebbero macerarsi come gli artisti che usano il pennello o lo scalpello? Manca agli scrittori un adeguato travaglio sulle ragioni del loro fervore creativo e sulla natura estetica dei loro prodotti culturale e del loro posizionarsi nella realtà? O sono gli altri – quelli col pennello – che esagerano? Boh…

  2. Ci si può chiedere dove sta la novità (ora – inizi XXI secolo) rispetto agli anni ’80 (trionfo del postmoderno).

    “Dall’inizio degli anni ’80, le opere d’arte sono create sulla base di opere già esistenti” (postmoderno).
    “La questione artistica non si pone più nei termini di un “Che fare di nuovo?” (moderno), ma piuttosto di “Cosa fare con quello che ci ritroviamo?” (postmoderno).
    L’opera contemporanea non è più il punto terminale del “processo creativo”, non è un “prodotto finito” da contemplare (postmoderno, ma anche moderno – a volte perfino luogo comune, come del resto il suo contrario).
    “…volontà di rivelare le strutture invisibili dell’apparato ideologico” (moderno).
    “…arte come “informazione visiva” che distrugge l’intrattenimento” (moderno).
    “L’arte è un contro-potere” (dalle parti dell’utopia – moderno).
    “Gli artisti della post-produzione operano un editing delle narrative storiche e ideologiche (postmoderno), inserendo gli elementi che le compongono in scenari alternativi (moderno)”.
    “L’arte contemporanea è come una consolle di montaggio alternativa (postmoderno) che turba le forme sociali (moderno)”.

    Si potrebbe dire che sono tornati “moderni” gli obiettivi e sono rimaste “postmoderne” le procedure?

  3. Dev’essere un bel saggio, questo di Bourriaud, vista la qualità dell’estratto riportato qui sopra.

    “La nostra società è strutturata da narrative, scenari immateriali, che sono più o meno rivendicati come tali e tradotti da stili di vita, riferimenti al lavoro o ai divertimenti, istituzioni e ideologie”.
    “Ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare “realtà” è un montaggio, e ci si chiede se, quello in cui viviamo, sia l’unico possibile”.
    “Nella vita di ogni giorno incontriamo fiction, rappresentazione, forme, che nutrono l’immaginario collettivo i cui contenuti sono dettati dal potere”.

    Il punto cruciale, a mio avviso modesto, è sempre questo, da decenni.
    A buttarla giù alla grossa, la novità rispetto al passato (cioè rispetto alle analisi del “sistema” di stampo marxista) sta in due fattori decisivi: l’aumento smisurato del vento narrativo cui siamo continuamente esposti e la caduta di qualsiasi efficace contro-narrazione dettata da un vero pensiero oppositivo.
    Anche le contro narrazioni artistiche di cui parla Bourriaud, benché interessanti, sono episodiche, deboli, nutrono gruppi ristretti, se non élite, e funzionano sostanzialmente da legante di ciò che vorrebbero disgregare, o contestare.
    La scrittura è potenzialmente più penetrante, ma guai a fare di una disciplina artistica una missione politica.
    Non ho tempo e forza mentale per argomentare ulteriormente.
    Ma, secondo me, da qui si deve partire e non dai motivi per i quali nessuno pubblica un altro Kafka, Musil, eccetera.

    (un’Honda dell’83 è DAVVERO una moto “d’epoca”, o la dilatazione nella percezione del tempo non è anch’essa un indotto narrativo? potrebbe per esempio essere considerata soltanto un “vecchio modello”?)

  4. Io non sono affatto soddisfatto anzi detesto, mi irrito per lo stile di cotesti brani.

    Mi irrito perché il Bourriaud si esprime quasi fosse un scienziato, uno che sta scoprendo la legge di gravità e la enuncia come fosse un postulato matematico.
    Invece è opinione, solo opinione, un parere ma qui si cerca di dargli forza oggettivizzando l’esposizione ovvero
    la storiella della arte post moderna post prodotta.
    Lo stile dice molto, spesso tutto.
    La scelta dei termini, la volontà di farsi capire da pochi con la scusa che questo mondo è tanto complicato denuncia, a mio modo di vedere, la truffa se non la fuffa continua.
    Un ennesimo tentativo di giustificare prodotti devoluti ad un alto ed escusivo mercato con ragionamenti fumosi ma affascinanti in una sorta di autoconvinzione e di un tanto di circonvenzione.
    Sono daccordo con Tashtego quando dice:
    “Anche le contro narrazioni artistiche di cui parla Bourriaud, benché interessanti, sono episodiche, deboli, nutrono gruppi ristretti, se non élite, e funzionano sostanzialmente da legante di ciò che vorrebbero disgregare, o contestare.”
    Mario Bianco

  5. Conosco una percentuale irrilevante degli artisti citati. Quello che mi sembra interessante – a parte l’enunciazione dei concetti di fondo (postmoderno, moderno, postproduzione) – è il tentativo di costruire una “poetica” (o una “narrazione”) in una certa misura aggregante e inclusiva, anche se a posteriori.
    Mi sembra di capire che questo tipo di operazione può avere effetti – oltre che sul piano della legittimazione critica – sul versante del mercato.
    Mi sembra anche che il mercato internazionale dell’arte passi attraverso le élite, prima di rivolgersi alle masse. E che il mercato editoriale punti invece in maniera più diretta alle masse (best-seller).

  6. Cari Francesca, Emma, tashtego, Nicolò La Rocca, cf05103025,
    vi ringrazio per l’acutezza e per la problematicità dei vostri commenti e spunti di riflessione; è questo – lo stimolo all’interrogazione ulteriore e il dubbio fertile – lo spirito con cui anch’io da anni mi accosto allo studio delle arti visive contemporanee. Un campo che attraverso e al di là di sintesi importanti, forti, ed – è vero – in alcuni punti perentorie, come questa di Bourriaud, può riservare chiavi di lettura del presente, di ordine socio-culturale e non solo, e strumenti di analisi per certi versi più aggiornati di quanto viene fatto all’interno dei generi della parola scritta.

    Un saluto a tutti,
    Alessandro Broggi

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