Ipocondria e scrittura
di Franco Arminio
1.
scrivo a oltranza da circa trent’anni. scrivo perché devo morire e nell’epoca in cui mi è capitato di vivere non so trovare altri modi di dare intensità alla mia esistenza. l’intensità, quando arriva, è un ulteriore inganno perché mi fa sentire ancora di più la prospettiva della morte. per darvi un’idea di come mi sento immaginate che un medico vi abbia dato un’ora di vita. in quest’ora proverete ad abbracciare qualcuno, proverete magari a fissare una volta per sempre i vostri pensieri, di sicuro non comincerete a scrivere un romanzo.
per me la letteratura inizia e finisce qui. i libri sono un’altra faccenda. io non faccio libri, io scrivo. la scrittura è una faccenda biologica, circola nel mio corpo come un ormone aggiunto. in ogni mia pagina non c’è altro che questo messaggio biochimico, questo vano tentativo di fissaggio rispetto alla repentina corsa verso il congedo. m’inquieta il mistero di come io sia irrimediabilmente coinvolto dalle faccende del mio corpo, luogo terminale, luogo della mia morte e non della mia vita.
c’è qualcosa di mitico in questa percezione, un mito rovesciato, costruito sottraendo, scavando. scrivendo mi tolgo letteralmente la terra sotto i piedi e per non cadere mi sostengo allo spavento, alle delusioni, alla trama fittissima del mio recriminare. da qui potrete scorgere il camerino dove da anni sto preparando questo mio cabaret dell’ipocondria. un libro scritto con poca aria, un paese intero messo in cantina, ombre messe ad asciugare, rovesciate come calzini, ombre spaiate, esistenze rigorosamente fallimentari. forse in questo libro ci sono solo io, c’è solo il tentativo di mettere a frutto la mia nevrosi, calando un po’ del suo contenuto mercuriale negli stampini di tante figure. qui la paesologia è solo uno sfondo dell’ipocondria.
un libro comicamente funebre, un album di figurine cimiteriali. c’è sempre qualche doppione, anche se da anni continuo a scartare. c’è sempre qualche figura che manca, anche se da anni continuo a cercare. tutto questo dimenarmi dentro la scrittura e dentro queste mie figure forse alla fine, dopo centinaia di mutazioni, diventerà un libro stampato e messo in circolazione, finalmente morto, inumato sulla pagina, pronto per il rito caritatevole della lettura. ma è una faccenda ben diversa, ben lontana dal mio corpo, è un faccenda di editori e di critici, di equivoci e fortune. quale che sia l’esito di questa faccenda, io continuerò, ancora per pochi attimi o per anni, a stare in bilico sul baratro artificiale che mi costruisco scrivendo nel vano tentativo di allenarmi a eludere il baratro reale.
2.
la mia ipocondria è iniziata che avevo una decina d’anni. mi ero convinto di avere un punto della testa che era particolarmente fragile. bastava che poggiassero un dito per scatenare l’irreparabile. evidentemente a quel tempo avevo già una nozione dell’irreparabile, ma sinceramente non ricordo bene se avessi paura della morte. quel che mi ricordo è l’idea di risparmiare il mio corpo. quando cominciarono le masturbazioni collettive con emissione di seme, io ero uno dei più refrattari. ne iniziavo cinque per finirne una. gli amici imbrattavano muri, fazzoletti, pantaloni. io ancora non lo sapevo, ma stavo per arrivare nella trappola della scrittura, la stessa in cui mi trovo in questo momento. direi che ipocondria e scrittura costituiscono gli assi cartesiani della mia vita. da questa vita ogni tanto penso che devo fuggire, devo lasciarla come si lascino degli abiti inzuppati di pioggia. i miei sono abiti inzuppati di paura. e con quest’acqua scrivo. ma la scrittura non produce alcun drenaggio, e io divento sempre più fradicio.
tutta la mia vita da quasi vent’anni a questa parte è stato un continuo allarme. cinque, dieci, venti volte al giorno mi sono sentito in punto di morte. e sentire ogni volta che questo sentire si è dissolto non mi ha dato alcun sollievo. piuttosto mi ha fatto pensare che ognuno di questi traumi è un sassolino per fare la strada che mi porta alla morte. del resto già scrivendo queste righe io sono con tutta evidenza in piena nevrosi. poco fa mi sono messo un po’ di gocce di xanax sulla lingua: terapia d’urgenza. adesso la scrittura opera come tentativo di compensazione: beh, visto che ho avuto un altro brutto momento provo a ricavare qualcosa, il cavallo scosso corre più veloce. io non ho nessuna difficoltà a dire che sono uno psicotico.
la qualità della mia vita è profondamente maneggiata da questa psicosi col silenziatore che l’ipocondria. qui, infatti, il delirio è applicato a organi del corpo, come il cervello o il cuore, che sono invisibili. sappiamo di averceli, ma non possiamo toccali, come facciamo con un ginocchio o un braccio. gli organi interni possono trasformarsi in alcuni individui in veri e propri banditi che tengono continuamente agguati. ma da dove vengono questi banditi, visto che agiscono nel mio corpo? come fanno a volere qualcosa di diverso da quello che voglio io? qui siamo a domande che investono proprio gli elementi costitutivi di una persona? dove siamo, in che punto siamo noi, come è possibile che i nostri organi siano indipendenti dalla nostra regione? la risposta potrebbe essere che noi non sappiamo come siamo fatti. quello che chiamiamo corpo in realtà non è il corpo e quella che chiamiamo anima in realtà non è l’anima. io penso che il modello meccanicistico e quello religioso siano ampiamente inadeguati. in parole povere l’ipocondria dimostra che gli individui non sono padroni in casa propria. una persona fondamentalmente è un campo di battaglia. e i bagliori che emette vengono proprio da questi scontri furibondi. scontri dovuti al fatto che l’uomo è situato in una zona di confine, tra la fisica e la metafisica. una zona che non si è scelto, così come gli uccelli non hanno scelto di avere le ali e gli asini la coda.
io penso che gli uomini devono raccontare quello che accade in questa zona e devo essere aiutati a fare questi racconti. a scuola prima che le conquiste dell’impero romano si dovrebbero studiare le conquiste dei nostri sabotatori interni. tutte queste straordinarie vicende che avvengono all’interno degli individui non si possono lasciare nelle mani dei preti o dei cardiologi o degli psichiatri. a me non credo che servono preti, cardiologi e psichiatri. a me serve che il mio terrore venga condiviso. domanda: ma io sono pronto a condividere il terrore altrui? in tutta sincerità credo di sì. anche perché mi farebbe bene, sarebbe un alleggerimento del mio. io adesso sono al punto che non posso continuare a scrivere dalla mattina alla sera: sono un po’ stanco di fare la radiocronaca delle mie battaglie interne. il problema è che al momento non so fare altro. perfino leggere mi pare una perdita di tempo. l’unico momento in cui sento che faccio qualcosa è quando scrivo.
in tutti gli altri momenti della mia vita mi pare sempre che la cosa stia per avvenire o è già avvenuta. in realtà non avviene mai niente. in fondo questi allarmi, questi annunci di morte di cui sono il destinatario e il mittente provengono propria da questa carenza di esperienza. e allora provvedo a procurarmi questi oltraggi che mi fanno vivo. questi strappi che mi buttano fuori dal flusso tranquillo del tempo e in questo modo me lo fanno avvertire. l’ipocondriaco vive dieci volte di più di una persona normale. gli sconforti che questi provano in un anno lui li prova in un giorno. nessuno può dire mai veramente nulla di se ed io in questo momento in fondo sto parlando di un essere immaginario, ma se qualcuno può riuscire a dirsi è certamente l’ipocondriaco. questi, ha l’umiltà del suddito e la ferocia del tiranno. io mi sento umile e feroce. mi sento egoista e generoso. io corro in me, faccio migliaia di chilometri in un giorno. sto male, ma sui miei organi non si forma polvere. il mio cuore non batte, gira nel torace come un pipistrello. non credo mi dobbiate prendere a modello.
la mia vita non saprei dire se è gloriosa o miserabile, certamente è una vita che mi sono cucito addosso attimo per attimo, e adesso non la posso scucire con altrettanta lentezza, adesso devo procedere assai più velocemente. ecco una cosa che potremmo fare insieme: io vi aiuto a scucire la vostra camicia di forza e voi mi aiutate a scucire la mia. l’ipocondria sta dall’alba al tramonto nella vigna del suo corpo e teme di continuo che arrivino gli storni. certe volte se li sente già sulla pelle. sente che il suo raccolto ormai è perduto. e perché questo dovrebbe essere un problema? perché morire deve farci paura, visto che non c’è altra scelta? se a noi il tempo concesso pare troppo breve, cosa dovrebbero dire le farfalle? e cosa dovrebbe dire una nuvola, un sasso, un lampione davanti a una casa. noi dobbiamo convincerci che siamo un po’ come queste cose. che la nostra natura è costruita per negare se se stessa. da questo punto di vista l’ipocondriaco non è un malato, ma solo uno che si agita inutilmente. a che mi serve pensare che sto per morire, se la cosa comunque prima o poi dovrà accadere? sarebbe più originale pensare che sto per volare, che sto per parlare a un coniglio, che sto ricevendo la visita di un albero. in fondo a noi non conviene né la salute, né la malattia. siamo qui e quello che ci accade non serve a niente. proprio per questo non c’è né da scoraggiarsi né da rallegrarsi. proprio per questo adesso me ne vado a dormire.
(testi apparsi in il verri , n°28 – maggio 2005)
maccheppalle
Si, nel suo poetare Arminio esprime tutta “l’umiltà del suddito e la ferocia del tiranno”, così vividamente da rendere condivisibile il suo incondivisibile, lasciandosi vivere.
La discussione si stava allargando nel sito di Mozzi ma i troppi contatti hanno buttato giù il server (o è stato un attacco?). Spero che vibrisse sia ripristinato presto!
hackeraggio. pare.
un attacco a vibrisse?
e ora?
mi fa impressione che parliate di attacco. non ci sono morti, non è ammissibile fare paragoni, ma capisco che c’è chi si firmi spaesata. un attacco mirato, per esempio, ai blog che frequentiamo, ognuno i suoi, che effetto avrebbe su di noi? un blog è un blog, si dice, si dicono tante cose sminutive dei blog, però oggi che vibrisse non è accessibile, l’idea di un attacco ai blog che frequento e della sua possibilità mi dà senso di insicurezza e mi fa impressione, perché sì, in fondo sono solo blog… (scusa Arminio che scrivo d’altro nei commenti al tuo scritto)
Arminio, o come restituire la parola al dominio della biologia. Bella roba. Estetismo neopositivista. Non è forse la più naturale (appunto) eredità della “écriture” propugnata dal primo Barthes? Ma polvere tornerete…
Ai miei tempi quando si parlava di scrittura, ci si riferiva alla grammatica. Se il discorso cadeva sulle letture, ci si intendeva sulla letteratura. Mi parrebbe più degno un passo indietro di trenta o quarant’anni. Più degno, certamente più proficuo. Ho la sensazione che il dibattere intorno alla lettura e alla scrittura si sia fatto così vuoto, perché di letteratura e di grammatica si sono perse le tracce. Le tracce, capite? quelle che restano a distanza di secoli. E’ sparito un sito in cui si parlava di letteratura e di scrittura contemporanee? Allora ho ragione: le tracce, signori, dove sono le tracce?!
Cito:
“Non ho niente a che spartire con tutto il Novecento, con i Calvino, i Bassani, i Buzzati, i Parise o i Manganelli. Un secolo inchiostrato da scrittori, eruditi, letterati, travestiti da minori, (non certo nell’accezione deleuziana-minoritaria: Kafka). Che giocano a nascondersi, mammolette, a minimizzarsi. Questa modestia molto modesta. Tutta una letteratura innecessaria. Questo frugare nel microcosmo (senza i tocchi di un Morandi). Della vergogna gozzaniana (“Sì, mi vergogno d’esser poeta”) non ricordano niente. (è lo stesso autolimite (vera, falsa modestia) in cui si rifugia tanta (troppa) musica contemporanea, da quel dì, per scantonare Stravinskij, Bartók o Ravel.
Sono davvero minori perché scrittori. Non v’è in essi un’urgenza al di fuori di sé. La miseria non trova mai il rovescio della sua medaglia, il lusso. Il tutto è intollerabilmente colto, zavorrato. Ogni forma di cultura è deteriore. Ché non li esonera dalla pagina. Si estenuano nel cavillo e (al pari dei pittori, eccettuato Bacon, e musicisti contemporanei) testimoniano il poverismo della seconda metà del ventesimo secolo. È loro precluso il privilegio della minoranza. Averli letti o no, è la stessa cosa. Dei quali si può dire tranquillamente quel che uno di essi ha detto a proposito di uno di loro: “Non l’ho letto e non mi piace!”. Qui la battuta è affidata all’umorismo. Quanto a me “Non li ho letti e non mi piacciono”. Non mi piacciono perché non sanno spiacermi.”
“Grafia-vita. Questo mio non è un caso di “letteratura come terapia”. Proprietà di chi è privo d’esistenza e s’avventura nella pagina (rivitalizza col corpo orale dello scritto l’insignificanza vegetale).”
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, “Vita di Carmelo Bene”, Milano, Bompiani, 2002, pag. 223 e pag. 225
bella la citazione di bene, ma non capisco se è scritta in avversione al mio testo. nessuno si è occupato di ipocondira e scrittura in questi commenti. me ne spiace, ovviamente.
tribute to Arminio
dalla gabri e dal furlen e da tanti altri …
L’introduzione di Bukowski a “Chiedi alla polvere” di John Fante Marcos y
Marcos
Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca pubblica di Los Angeles,nel centro della città, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva. Mi sembrava che tutti giocassero con le parole e che i cosiddetti grandi scrittori non dicessero un accidenti di niente. Il loro stile era una mistura di sottigliezza, mestiere e forma e ciò che scrivevano veniva letto , appreso, assimilato e poi ritrasmesso a qualcun altro. Era un congegno funzionale, una “cultura della parola” assai scorrevole e prudente. Bisognava tornare agli scrittori russi precedenti alla rivoluzione per ritrovare il rischio e la passione. C’erano delle eccezioni, ma erano così poche che le si esauriva in un attimo, per poi ritrovarsi a fissare file e file di libri di un’incredibile monotonia. A paragone degli scrittori del passato, i moderni non valevano gran che.
Tirai giù dagli scaffali un libro dopo l’altro. Perché nessuno diceva niente? Perché nessuno gridava?
Mi misi a cercare nelle altre sale della biblioteca . La sezione dei libri religiosi non era che un vasto acquitrino, almeno per me. Passai al reparto filosofia. Scovai un paio di tedeschi dall’animo amaro che mi tennero allegro per un po’, ma l’esperienza si esaurì ben presto. Provai con la matematica, ma era esattamente come la religione, mi scorreva sopra senza lasciar traccia. Ovunque cercassi, non trovavo niente che mi interessasse.
Mi rivolsi alla geologia e scoprii che era una materia curiosa, ma di scarso nutrimento.
Trovai alcuni libri di chirurgia e ne fui incuriosito: la terminologia era del tutto nuova e le illustrazioni mi sembravano fantastiche. Apprezzai soprattutto l’operazione sul mesocolon, la cui tecnica finì per diventarmi familiare.
Poi abbandonai la chirurgia e tornai nella sala principale, che ospitava la narrativa. ( I giorni in cui non ero a corto di vino, non andavo mai in biblioteca. La biblioteca era il posto ideale per quando non avevo niente da mangiare o da bere, o la padrona di casa mi stava alle costole per recuperare l’affitto arretrato. In biblioteca , almeno, c’erano i gabinetti. ) Ci ho visto una quantità di barboni, là dentro, per lo più addormentati sui loro libri.
Continuavo ad aggirarmi per la sala grande, tirando giù un libro dopo l’altro, leggendo qualche riga, a volte qualche pagina, per poi rimetterli al loro posto.
Poi, un giorno, ne presi uno e capii subito di essere arrivato in porto. Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino. Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un ‘altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso. Ero socio della biblioteca. Presi in prestito il libro e me lo portai in stanza, mi sdraiai sul letto e ripresi a leggerlo, ma prima ancora di finirlo capii che l’autore era riuscito a elaborare un suo stile particolare . Il libro Ask the Dust e l’autore era John Fante, che avrebbe esercitato un’influenza duratura su di me. Terminato Ask the Dust tornai in biblioteca in cerca di altri suoi libri. Ne trovai due: Dago Red e Wait until Spring, Bandini. Erano dello stesso tipo, scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore.
Si, Fante ha avuto una grande influenza su di me. Non molto tempo dopo averlo scoperto, mi misi a vivere con una donna. Beveva come una spugna , anche più di me,e assieme facevamo delle litigate feroci, durante le quali le gridavo: ” Non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini!”.
Fante era il mio dio e io sapevo che gli déi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta. E tuttavia mi piaceva immaginare la casa dove era vissuto, in Angel’s Flight, e illuderni che ci abitasse ancora. Ci passavo davanti quasi ogni giorno e mi chiedevo : è questa la finestra da cui è uscita Camilla? E’ quella la porta dell’albergo ? Quella la hall? Non l’ ho mai saputo.
Ho riletto Ask the Dust quest’anno, trentanove anni dopo la prima volta, e ho dovuto riconoscere ce ha resistito al tempo, come tutte le altre opere di Fante. Questa ,però, resta la mia preferita perché è con essa che ho scoperto la magia. Fante ha scritto altri libri oltre Dago Red e Wait until Spring, Bandini, e i loro titoli sono Full of Life e The Brotherhood of the Grape. Attualmente sta lavorando al suo nuovo romanzo, A Dream of Bunker Hill.
Per una serie di circostanze, quest’anno l’ ho finalmente conosciuto. Ma la storia di John Fante non è tutta qui. E’ la storia di un uomo fortunato e sfortunato in ugual misura , di un uomo di raro coraggio naturale. Un giorno qualcuno la racconterà , ma ho la sensazione che lui non voglia che lo faccia qui. Dirò solo che, nel suo caso, linguaggio e personalità coincidono: entrambi sono forti, buoni e caldi. E ora basta. Il libro è vostro.
Charles Bukowski
Be’, Arminio vuole un po’ di attenzione, gente, cosa aspettate a sommergerlo di commenti? Io faccio solo notare che al Nostro Poeta Qui Presente quello che è scritto (nella fattispecie la citazione di SUSE) interessa soltanto se è scritto “in avversione” o a favore della domus sua. Che dire. Siamo davvero messi male. E Manganelli, checché ne dicesse il Buon Bene, era proprio il più saggio di tutti a sostenere che certi scrittori e scrittorini non li aveva letti e non gli piacevano.
personalmente, se devo trovare un orientamento prevalente, quanto a giudizio, alla prima lettura, è, in conclusione, negativo. Ma in modo molto generale, non particolare. Credo siano venuti un po’ a noia questi molti microdiscorsi e confessioni intorno alle ossessioni private rispetto alla scrittura – anche se le stesse, o la promesse di queste (nel titolo), sono state la causa prima che mi ha mosso a soffermarmi sul brano di Arminio e leggerlo fino in fondo. Esiste perciò presumibilmente in ciascun leggente che abbia velleità scrittorie, un narcisistico desiderio di esplicitarle in caratteri, o piuttosto questo è un modo di trovare conforto.
Tuttavia la mia impressione può essere influenzata da una troppo istintiva reazione – o pregiudizio. Dopo le prime righe, quando fai entrare la Morte a oggetto di analisi, mi è tornato in mente il caro buon Petrarca, e il suo De vita solitaria. Perciò, argomentazioni e riflessioni profonde (e questo è un pregio, – e un “dono”?). Però la sensazione risultante a lettura conclusa, è di una vaga ma pungente irritazione… mi domando: ma è vero vero che l’intellettuale, deve, per forza di cose, sentirsi isolato e inetto? o è possibile essere degli intellettuali, o in ogni caso, “anime sensibili alla poesia e alla bellezza”, trovando una conciliazione con la vita?
Non ho capito se Astolfo fosse irritato dalla citazione, o l’abbia ritenuta superflua. Può benissimo darsi.
però trovo molto belle le immagini.
e la frase: “a me serve che il mio terrore venga condiviso.” crea schianto.
certi punti mi appaiono reviviscenze ed echi kafkiani.
nevro metod icamente, rileggerò, e collezionerò (mai) Un parere (?)
di solito non partecipo ai commenti su miei testi, ma questo solleva questioni che non credo per niente minime e private. mi spiace che appaia un’altra cosa. ma, come diceva canetti, si tratta solo di vedere per chi ci scambiano.
Ho avuto come maestri-amici, confidenti e amatissimi: ANNA MARIA ORTESE, AMELIA ROSSELLI, PATRIZIA VICINELLI, ELIO PECORA, GOFFREDO FOFI, FABRIZIA RAMONDINO, e non riesco (NON SONO UN LETTERATO!) a capire questo “sfogo”. Osservare il proprio ombelico e descriverlo andava quando frequentavo le elementari (Sarraute, Butor, Robbe Grillet e compagnia bella), oggi desidero leggere bei racconti, tipo Cechov, la Mansfield, Cheever, Capote, Purdy, persino l’insopportabile Flannery O’Connor (razzista verso i gay e i non cattolici) o le cagatine minimaliste di Parise, mai il supponente La Capria, Arbasino si e nei momenti di grazia, ogni tre-quattro anni leggo la Recherche (interamente, in traduzione). Non ho strumenti tecnici per analizzare masturbazioni mentali. Sono un autodidatta. Sperimentare va bene, allora ammiro e leggo, uno dei pochi in Italia, viste le vendite esigue e la critica latitante, Uwe Johnson o la Wittig, il primo Sollers, Gisela Elsner, Lezama Lima etc. Non chiedetemi perchè. Sono un provincialotto che a 18 anni scoprì ANNA MARIA ORTESE, folgorato fece di tutto per conoscerla e frequentarla, ci riuscì. Tutto quello che non so l’ho appreso da lei.
woah!!!
deciso: commenterò ogn intervento, fino a quando ce ne saranno.
mi pare che ognuno vada per conto suo. dire che uno si sente come se avesse mezz’ora di vita mi pare un’affermazione che richiederebbe un pò di clemenza e attenzione. non mi interessano i meriti letterari del pezzo, mi sconcerta che la propria agonia, vera o immaginaria che sia, qui appaia alla stregua di uno sfoghino di cui non tener alcun conto.
Buona idea, il commento dei commenti è in effetti un’attività che mi interessa, cerco di venirti in aiuto con una domanda: perché una persona dalle eccellenti frequentazioni come Giorgio Di Costanzo, invece di affidare la forza del suo commento alla semplice analisi del tuo pezzo ha dovuto ricorrere a ben 23 nomi, di cui 6 MAIUSCOLI, (e per metonimia, visto che cita la “Recherche in traduzione”, 24) per dire che non gli piace?
Perché non si è fidato di se stesso? Del suo diritto a dire che non gli piace? Perché ha usato un così massiccio name-dropping?
Io non so cosa pensare del tuo pezzo, ma non so cosa pensare nemmeno del commento di Giorgio di Costanzo. Non lo capisco.
Ti condanna, ma condanna anche Flannery O’Connor, Parise, La Capria, bè, non sei solo, tollera qualche annata di Soller, il primo, come potrebbe accettare qualche annata di Mouton Rotschild, vera dandystica sprezzatura, insomma, è interessante questa insicurezza, non trovi? Questa crisi che ha colto un uomo che per sentirsi autorizzato a dirti che non gli piaci deve ricorrere a 24 nomi altrui. Ed è originata dalla tua scrittura, il che fa pensare.
l’ho detto, ognuno va per conto suo. “non so cosa pensare del tuo pezzo” mi sembra un atteggiamento onesto. a me pare che il mio pezzo non chiami a discorsi ed esibizioni di cultura, ma non posso farci niente se questo accade. pare che ognuno a tutti gli altri abbia detto addio e da questa infinita distanza ci scambiamo un pò di smorfie.
A me quel testo di Arminio era piaciuto: una scrittura limpida e appassionata intorno ad un tema cruciale, sul quale è facile proiettarsi. Prendendo innanzitutto sul serio quanto egli scrive (innocens credit omni verbo) mi sarebbe venuto spontaneo argomentare un poco sulla relativa esagerazione delle sue paure, confrontandole con la relativa fiducia nel proprio corpo che (finora) in me è stata prevalente. Poi però ho pensato a quanto tali paure potessero risultare funzionali alla sua attività letteraria, che probabilmente è la cosa che per lui massimamente conta, e dunque, a quanto sarebbero suonate assurde delle parole volte – con ingenuo spirito di fratellanza – ad aiutarlo a liberarsene: non sarei magari apparso come il “maiale soddisfatto” che indica, quale “cura” al dolente genio ipersensibile, la propria disprezzatissima ottusità? Così quel mio effimero frullare di pensieri se ne è rimasto nel nulla, dal quale l’ho ripescato soltanto per sottolineare come anche un silenzio possa essere carico di voci spettrali, come quei bizzarri spiriti dell’aria che Bosch sapeva dipingere così bene.
@Arminio
Una delle ragioni per cui non so cosa dire del tuo testo è che non ci sono accessi per entrare. Ti avevo letto sul Verri, ma più che altro sfogliando il Verri, e non per disinteresse, ma perché il tempo è poco e sul momento cercavo un’altra cosa. Qui sono stata attratta in una notte insonne dai nomi maiuscoli del commentatore ischitano, e ti ho riletto.
Quindi ti dico cosa penso di questo pezzo che ho letto qui, che in qualche modo è diverso dal pezzo che ho letto sul Verri.
Chi parla, mi sono chiesta, Arminio parla di sé? Parla di un’impotenza sua? E’ un brano di un diario, sia pure letterario e ideale? O l’ipocondria è un’ipocondria fittizia, un’occasione di scrittura, una metafora di qualcosa?
Non poter rispondere a nessuna di queste domande mi toglie capacità di giudizio.
Posso dire che la tua scrittura è precisa, per me una delle qualità fondamentali della scrittura, ma a parte questo, posso solo aggiungere che l’ipocondria non mi interessa e dunque per interessarmi al tuo pezzo ho bisogno di qualcosa di più, diciamo che il testo da solo, così com’è sullo schermo, non mi basta, non ho accessi per poterne anche parlare.
Non è una critica negativa, questo non lo aggiungo tanto per te, credo di non aver bisogno di dirtelo, ma solo per arginare, se possibile, lo stupidario che ogni tanto si intreccia ai commenti.
Anche se a volte mi diverte, quando è spiritoso.
@Arminio
Credo che la citazione di Bene fatta da Suse fosse “contro” il tuo testo” e che poi ci abbia ripensato (sbaglio, Suse?) credo che la citazione di Gabriella fosse “a favore”, ma ha l’effetto opposto, perché rispetto a John Fante, mi sembra che tu sia sull’altra faccia della luna.
Aggiungo qualche pensiero sparso che mi viene dal tuo testo ma anche da queste due citazioni. Il tuo testo, mi pare, sondando il limite del corpo come terreno della scrittura, proclama una grande sfiducia nella narrazione. Per questo mi sembra che citare qui Fante, equivalga a metterti a confronto con uno scrittura che “crede” e pratica la narrazione, dunque in un certo senso con uno scrittore “felice”, che potrà anche essere personalmente dannato, ma che ha viscere vive, mentre le tue viscere sono così mediate da non esserlo più. Mentre la citazione di Bene è ingenerosamente postata qui perché Bene, che io ho visto a teatro e mi ha ipnotizzata, quando dice che ogni forma di cultura è deteriore difende una sua posizione, come potrei chiamarla, mi ricorda Nietsche che contrappone Wagner a Ravel, è quasi una nostalgia, quella di Bene, contrappone mondo a mondo.
Scusate le mie apporssimazioni, ma vado molto random.
Ora, condannare un mondo mi sembra una posizione non più praticabile. Posto perché si sta scatenando un temporale che potrebbe far saltare la corrente, a più tardi.
Non intendevo offendere alcuno. Chiedo scusa per eventuali intemperanze verbali (dovute ad insicurezza e timidezza). Gradirei che gli amici che frequentano questo spazio entrassero nel merito dei nomi citati, principalmente uno: Anna Maria Ortese. Come è potuto accadere che Anna fino al 1986 vivesse con 300mila lire al mese, nell’indifferenza totale? L’anno precedente Pietro Citati sul Corsera (per fortuna) scoprì “L’Iguana”, dopo 20 anni (Vallecchi, 1965) e qualcosa si mosse. Il vitalizio Bacchelli (24 milioni annui), il Premio Fiuggi (20 milioni) grazie alla generosità del sen. Andreotti (per questo, solo per questo sia lodato in eterno!), l’Adelphi e addirittura il Premio Campiello alla carriera 8 mesi prima che Anna partisse per sempre, in un ospedale (Rapallo) che non ebbe riguardi e le concesse una specie di paravento e una barella per gli ultimi istanti. I napoletani offrirono una topaia nei Quartieri, al quarto piano, senza ascensore quando Anna fu sfrattata…. La domanda potrebbe essere: “Il porto di Toledo” è uno dei capolavori della letteratura italiana o cosa? Ceronetti (e pochi altri) recensirono “Corpo celeste”. Qualcuno l’ha letto?
non posso dirmi soddisfatto, perché la soddisfazione è un sentimento che non mi appartiene, ma trovo negli ultimi commenti una civiltà incoraggiante e stimoli utili.
viscere vive, viscere morte, questa è una bella questione. vorrei anche dire che la mia ipocondria è reale almeno nel senso in cui ognuno di noi può dirsi reale.
Io dico una cosa molto semplice, ad Arminio e agli altri: la sua scrittura è fatta di belle pose, di belle frasi a effetto, di niente altro quasi. Dico “quasi” perché al fondo una originalità di ispirazione, di dolore, sembra esserci, ma questo dolore si perde poi in tanti rivoli estetizzanti che irritano e danno una sensazione di chiusura, di inaccessibilità che per un lettore è l’opposto del dialogo, ossia del senso stesso del leggere. Riguardo all’ipocondria o alla presunta verità del testo, credo siano secondari, se non del tutto insignificanti: si può parlare anche di un fiore di campo o di un ano di volpe argentata, l’importante è saperne parlare.
@Astolfo
Mi incuriosisce questa tua affermazione *si perde in tanti rivoli… che irritano e danno un senso di chiusura, di inacessibilità che per un lettore è l’opposto del dialogo*
Mi sembra che tu dia per scontata una dimensione del lettore che cerca la comunicazione e il dialogo tout court. Sembrerebbe il ritratto del “lettore di narrativa” senza crepe, già il “lettore di poesia” sfugge a questa tua definizione, per non parlare del lettore di saggistica, o peggio ancora di filosofia. La dimensione del lettore mi sembra altrettanto variegata di quella dello scrittore, anzi, essendo in numero ben maggiore, ancora di più. Ogni scrittore cerca il suo pubblico, anche piccolo, quando lo trova è fatta, e difficilmente si lasciano. E lo trova ai livelli e nei modi più diversi.
Il dialogo, paradossalmente, si trova anche nel silenzio e la comunicazione della pagina scritta non è detto che abbia una dimensione così immediata come tu la chiedi.
Per esempio nel suo lungo OT Giorgio di Costanzo dà per scontato che il porto di Toledo sia uno dei capolavori della letteratura italiana. Il suo giudizio è condiviso da tutti? No, ma è evidente che la Ortese ha trovato in lui un lettore innamorato, direi un lettore ideale, devoto. Bè, glielo invidio.
Arminio qui sta cercando i suoi, ho letto un tuo commento precedente piuttosto sfottente sul fatto che Arminio vuole “solo” commenti a favore o contrari al suo pezzo, a parte che non lo credo, io per esempio non ho preso posizione, ma se anche fosse, mi pare più che legittimo, lo scrittore ha quasi un obbligo a cercare i suoi lettori, che poi possono essere suoi per sempre, o per un periodo. Anche i lettori cambiano, cercano, si mettono in sintonia ora con lo spirito del tempo, ora con il suo rifiuto.
Mi stupirei molto che avendo postato un pezzo qui Arminio fosse felice di un thread tutto di OT.
la posta in palio per tutti, scriventi e lettori, è assai alta. per questo qui e altrove continuo a cercarmi, a cercarvi, sperando di non sfottere e di non essere sfottuto. così, civilmente, andiamo avanti, senza pregiudizi, se ci riesce.
vero che in questi testi arminio sceglie un versante rischiosissimo della scrittura: è fuori genere, parla di sè e del suo scrivere… già ci sono tutte le premesse per fare un blanchot d’accatto, un diarismo compiaciuto, invece il testo per me funziona davvero, serrato, incalzante, impietoso, non cede mai, anche se lo sorvegli aspettandoti la caduta, e invece corre… (mi ha fatto pensare a Michaux)
è scrittura come molti romanzieri non se la possono permettere… c’hanno da fare i dialoghi, descrivere patologie più alla moda, come il pedofilo, l’ennesimo serial killer di provincia, ecc.
eppoi da ippocondriaco non posso non apprezzare…
Perché tirar fuori Michaux? ecco, queste sono cose che danneggiano gli autori, non le ho mai capite e non le capirò mai, invece sono daccordo che un certo tipo di scrittura un romanziere non se la può permettere se non in modo episodico, perché un testo lungo e narrativo dove prevalga una scrittura così analitica e ossessiva non ha più possibilità di ascolto in questo post XX° secolo (non ho ancora capito se siamo “davvero” nel XXI°)
Scritture come queste sono votate al frammento e sono quasi sempre scritture poetiche.
si, io sono votato al frammento e non disprezzo che sa aprire grandi panneggi. quello che non mi piace è il poco spazio che danno gli editori a questo tipo di scrittura. d’altra parte penso che senza vento contrario non si va molto lontano.
EFFEFFE write
a proposito dell’osservazione iglesiana sono d’accordo – sui testi di Arminio e su Michaux- quello che non capisco è questa
EFFEFFE write again ….
strategia di diminutio rispetto al romanzo. Vi renderete conto che a questo punto si potrebbe dire qualcosa del tipo : “la poesia può dire quel che il romanzo non può, ma la pittura può andare oltre la poesia. La musica potrà più della pittura e la danza meglio, direbbe Nietzsche. Ora, io credo fermamente che ci siano testi, scritti, versati, dipinti, danzati che colgono , e nello stesso tempo accolgono il senso o l’esperienza del senso, che è fondante rispetto alll’agitazone di noi tutti. Altri invece direbbe il buon Carmelo, qui citato, pisciano fuori dal vaso. Ed allora perchè discutere di mira, si spostino i vasi, come ci fanno credere certi editori.
effeffe
ps
a Giorgio di Costanzo
la tua amicizia con la Ortese sarebbe stata meravigliosa se non ne avessi parlato, comunque volevo segnalarti che la casa editrice Palomar sta vendendo a un buon prezzo la riedizione di Sud in anastatica dove ci sono splendidi racconti e straordinarie poesie della Ortese, e comunque l’altra sera ero a cena con Peter Handke…
“mi sconcerta che la propria agonia, vera o immaginaria che sia, qui appaia alla stregua di uno sfoghino di cui non tener alcun conto. ”
Così scrive Arminio. Con questo sono d’accordo. Ho scritt un pezzo uno o due mesi fa che si intitola “Voglio morire.” (che ho messo sul mio blog), dove sostenevo di voler morire (appunto) e che morire, tutto sommato, non è una propsettiva tanto brutta. Oh, nessuno che mi abbia consolato. Addirittura è stato citato Pascoli, facendo slittare tutto il mio pezzo su un piano culturale. (Si sosteneva che Pascoli in qualche sua poesia avesse già detto, lui prima di me, di voler morire.).
La poesia può dire quello che il romanzo non può, certo, e viceversa.
Non vedo lo scandalo. E men che meno la strategia di diminutio.
Perché, qualcuno pensa che la pittura possa “dire” lo stesso della poesia? Già il fatto che non lo possa “dire” …
la pittura non dice,
infatti
la pittura è la pittura è la pittura
Appunto, e inoltre pittura e musica non hanno bisogno di traduzione, il che le rende di fatto universali, posso desiderare una mediazione culturale per capire meglio Hokusai, ma se non mi interessa posso semplicemente guardarlo, mentre la poesia della Achmatova se qualcuno non me la traduce …
e questo è il grande limite, ma anche il grandissimo fascino…
“mi sconcerta che la propria agonia, vera o immaginaria che sia, qui appaia alla stregua di uno sfoghino di cui non tener alcun conto. ”
Così scrive Arminio.
“Ho scritt un pezzo uno o due mesi fa che si intitola “Voglio morire.” […]. Oh, nessuno che mi abbia consolato.”
Così scrive Marco.
Che dire? Se scrivete dei pezzi che sembrano dei pezzi per il blog, cioè dei pezzi fatti per essere letti e per essere goduti, perché suppongo questo facciate, scrivere dei pezzi che abbiano dei lettori, dei pezzi che i lettori leggono e godono, vi aspettate che i vostri pezzi siano letti e apprezzati in quanto pezzi da leggere e apprezzare o volete consolazione? O cosa significa “non tener alcun conto”? Cosa sarebbe stato “tener conto”?
Leopardi con le sue poesie voleva consolazione? Voleva anche solo una persona che credesse di amarlo e bussasse al suo sottosuolo per consolarlo di persona con il proprio corpo o voleva che venissero lette da tanti e amate in quanto poesie? pezzi scritti per essere letti e amati?
Oppure volete tutte e due le cose? E la rete ve la può dare questa consolazione? Un commento di uno sconosciuto, o anche no, ma di uno che sta dov’è a battere due righe su una tastiera, che vi dovesse scrivere “”Vi capisco”, oppure “Soffro con voi” oppure “La vita è dura per tutti, anche per chi non lo sa scrivere” vi avrebbe consolato? Più di una mano? Di due occhi?
Signor Candida, se vuole morire e considera che, tutto sommato, morire non è una prospettiva tanto brutta, di cosa avesse voluto essere consolato?
Io credo che Arminio (la sua scrittura) sia perfettamente in linea con quello che oggi si vuole dagli scrittori: una esibizione delle PROPRIE idiosincrasie, del proprio IO, del proprio BENESSERE o MALESSERE (è lo stesso). Uno scrittore oggi si modella sulla società spettacolare in cui siamo immersi, sui suoi idoli e meccanismi. Io non sfottevo quando dicevo che Arminio voleva un po’ di gente al suo capezzale: osservavo appunto che Arminio (uno scrittore) cerca anch’egli il suo “pubblico”, come un qualsiasi conduttore tv. Signora Temperanza, lei non dovrebbe essere tanto ingenua: quando io parlo di lettore, parlo del lettore che sono io, e non mi interessa affatto la sociologia della comunicazione o della letteratura. Al lettore che sono io la scrittura di Arminio risulta esemplare di un tipo che – ripeto – è perfettamente in linea con l’obbrobrio linguistico e politico-sociale in cui siamo immersi.
(Tutto questo senza considerare che anche un testo di filosofia può risultare aperto e dialogante. Forse tu, Temp, hai frainteso la mia definizione di “chiusura”. Con “chiusura e inaccessibilità” non intendevo affatto “difficoltà di leggere”, ma proprio chiusura del rapporto con chi legge, nel senso che chi legge, per lo scrittore Arminio, deve essere nient’altro che passivo fruitore della performance scrittoria e fallocratica, senza alcuna possibilità di fare pensieri nuovi, di andare oltre la parola per risalire ad altro [questo per me è il senso del leggere]. Esattamente come uno spettatore di talk show o di quiz televisivi.)
Raccontare l’ossessione della scrittura.
Ossessione primaria. Ossessione conseguente a un’altra ossessione, come in questo caso.
Non mi sembra facile; ci sono molti precedenti, si rischia di ripetere cose già dette, o di inseguire a tutti i costi qualcosa di originale.
A mio parere Arminio sfugge egregiamente i rischi e ci mette davanti agli occhi un’ossessione non placata e implacabile.
Mi viene da considerare (devo essere in un periodo di “ossessione” per le questioni “di genere”, di solito non faccio questi discorsi :-), che le donne sono un po’ le specialiste del tema. Perlomeno con queste modalità, dunque senza soffermarsi su teorie della scrittura, puntando subito sulla “pratica” in prima persona, sulle “viscere”.
Ricordo le parole della Kristof (ancora lei), letta di recente. Ricordo più vagamente, ma con ammirazione, la Duras…
@Egregio signor Astolfo, non sono mica tanto ingenua come crede lei, sa? Ah esserlo, come sarebbe più semplice la vita, in ogni caso lei sarebbe interessante per me come lettore unico e irripetibile, come “signor Astolfo”, se tutti gli altri lettori fossero morti, poiché così non è, ogni discorso al plurale diventa un’altra cosa da quella che lei vorrebbe.
Vedo che lei accusa indirettamente Arminio di fallocrazia, dunque lei è un uomo femminista? Interessante. Sono compiaciuta.
Ma tornando al signor Astolfo, forse io ho frainteso il signor Astolfo, forse il signor Astolfo è stato un po’ “chiuso” e mi ha impedito di comprenderlo pienamente, forse io apprezzo Arminio, forse io non apprezzo Arminio, ma cerco di mettermi in dialogo con lui anche perché non lo capisco. Il signor Astolfo invece lo rifiuta, lo ha già fatto tre volte, forse vuole un po’ di attenzione anche il signor Astolfo. Stiamo tutti qua a comunicare, caro signor Astolfo, pure lei. Io trovo giusto che lei sostenga il suo “senso del leggere”, ma non essendo morti tutti gli altri, forse qualcuno ha un “senso del leggere” diverso. Un po’ di pluralismo, che diamine!
@Emma
quanto a ossessioni credo che siano inter-genere, pensa a Bernhard, quanto a viscere purtroppo hai ragione, ogni volta che vedo viscere vedo donna, e un po’ mi annoio. Ma la kristhof grazie a dio dalle viscere sta ben lontana, mi pare.
Temperanza, ultimamente N.I. mi fa leggere tantissimo :-)
Ho letto la Ferrante ed è stata ottima cosa, e per di più mi ha fatto leggere De Beauvoir.
Tu mi inviti in qualche misura a leggere Bernhard, che non conosco e che però è un “faro” della Kristof, la quale Kristof – a mio parere – non resta lontana dalle “viscere”, semmai “tratta” le viscere con una freddezza e un distacco memorabili…
Le mie lacune in campo letterario sono vaste e numerose.
Incolmabili, direi.
Pensi che Bernhard sia uno degli inevitabili?
@Emma
La Ferrante l’ho letta, al contrario di te mi è piaciuto più l’amore molesto che i giorni dell’abbandono, la De Beauvoir stranamente è stata importante per le nostre madri e adesso lo è per le nostre (beh, mie) figlie, ma per la generazione di mezzo, la mia, non è stato un testo stravolgente, non ci mostrava niente di nuovo, stranamente, ma Bernhard, eh, Bernhard sì, secondo me è inevitabile. Non saprei cosa consigliarti, adesso è appena stato ripubblicato da SE Amras, nella bellissima traduzione di Magda Olivetti, ma forse io comincerei dal Soccombente o da Perturbamento.
Io leggo e rileggo Bernhard, che mi è lontanissimo in tutto, con la convinzione di leggere un maestro, poi, sai, ognuno si sceglie i propri, una mia amica non è riuscita a leggere Respiro perché le veniva l’asma.
A me una crisi di rifiuto violentissima l’ha causata non Bernhard, ma Canetti, ho letto Autodafè costringendomi, mi rotolavo letteralmente sul pavimento, cercavo di sfuggirgli, mi alzavo ogni venti minuti dicendo, no, non posso leggerlo, non voglio leggerlo. Mi ha provocato la più grande angoscia che un libro mi abbia provocato mai, e quando lo ho finito mi è sembrato di uscire da un incubo, magari però a qualcun altro non fa né caldo né freddo.
Grazie :-)
a effe effe, senti a casa di Handke c’ero pure io, e non ti ho visto, se non all’ultimo momento, prima di uscire, completamente ubriaco, che infastidivi un abbacchiato wim wenders
mi scuso con temperanza, ma michaux mi è proprio venuto in mente, che devvo fare? censurarmi l’associazione?
sui generi bisognerebbe distinguere due discorsi: quello che il romanzo potrebbe fare e quello che il romanzo per lo più fa, vista la “dolce” pressione degli editors, dei consulenti editoriali, degli editori stessi, ecc.
queste “dolci” pressioni i poeti, raminghi e randagi, non ce l’hanno, e questo dà loro, quasi forzatamente, un’occasione di maggiore libertà…
che poi la sappiano sfruttare è un’altra cosa
@ Emma
Ecco, ti do ragione, è proprio quel trattare le viscere con freddezza e distacco che mi fa amare la Kristoff, quello che non mi piace delle viscere in generale è l’appello alla viscere altrui, quel gioco in fondo facile col quale si gratifica la parte più emotiva istintiva del lettore, la comunicativa facile, la consolazione, la carezza, o anche l’apparente durezza della crudeltà, che però non arriva mai in fondo, che resta una convenzione, e quindi se ne può mangiare quanta se ne vuole. E a libro chiuso te lo dimentichi e non lo leggerai mai più.
Io di questi libri di intrattenimento (contro i quali non ho nulla perché ogni tanto voglio essere intrattenuta anch’io, come ogni tanto vorrei farmi quattro porzioni di parmigiana di melanzane) non amo una cosa soltanto, che cerchino di farsi passare per letteratura, mi piace l’onestà, è per questo che non ho mai capito l’astio contro Faletti (che non ho letto), l’astio, o meglio, il fastidio, bisognerebbe provarlo contro quei giornalisti che non sono più in grado di leggere niente e che si sono accampati sulla trincea più facile da difendere, o forse contro i lettori che si bevono tutto e si sono dimenticati di ragionare con la loro testa.
@Scusami tu, Inglese, mi è venuto uno scatto e me lo sarei dovuto tenere per me, ma era rivolto solo alla pratica, non so se anche tua, ma niente me lo fa credere, di incasellare uno scrittore dicendo, mi ricorda Roth, mi ricorda Proust, mi ricorda Bernhard, è stata una mia idiosincrasia momentanea, purtroppo uno dei peggiori lati del mio carattere è che sono irritabile.
@Inglese
Oggi sono più prolissa del solito, dico la mia su tutto.
Per quanto riguarda la seconda parte del tuo commento sono d’accordo, l’unica obiezione che ti farei è questa, se un romanziere “fa” seguendo la “dolce” pressione dell’editore, vuol dire che non aveva le palle per far altro oppure che non gli interessa tanto saggiare i limiti della forma romanzo, ma pubblicare comunque sia, qualcosa di abbastanza buono per la macchina editoriale. Perché se uno insiste e restare sulle sue posizioni, prima o poi qualcosa pubblicherà e troverà i suoi venticinque lettori, mica tutti possono avere la sfiga di Morselli. Qualche rischio bisogna correrlo, o no? sarà che io ho una dimensione eroica della letteratura.
Insomma, non diamo la colpa solo all’editoria, e poi, smettiamola di pensare ai poeti come a una razza particolarmente eroica e magari pura. Sono stata a un incontro con una quarantina di poeti, qualche anno fa, bè, non scherziamo, ragazzi, tanti ego ipertrofici tutti assieme non mi era mai capitato di vederli, e alcuni erano eccellenti poeti.
Grazie, cara Gabriella per il suggerimento. Ho la raccolta dei 7 numeri di “Sud”, gli originali, dal primo (15 nov. 1945) all’ultimo (luglio-settembre 1947). Dev’essere piacevole (t’invidio) cenare con Peter Handke, scrittore che amo, ma dividerlo con altri è seccante, parlargli, poi, in mezzo a decine di persone… Pane e pummarole, col vino di mio padre, nell’appartamentino di Corso Matteotti 19 e poi di Via Mameli 170 a Rapallo, per anni, sapendo che nessun altro avrebbe varcato quella soglia… è nata cosa… Cito il “Manga”: “… L’Iguana non vinse nessun premio; più esattamente, il libro passò pressochè inosservato; e poichè io non ho alcun diritto di darmi delle arie, debbo confessare d’averlo letto solo ora; il che non sarebbe così male, non fosse il fatto allarmante che si tratta di un libro del tutto straordinario. Forse in quegli anni potevamo polemizzare un pò di meno sui libri di Bassani e Moravia, e leggere “L’Iguana”…. è un libro del tutto anomalo; non assomiglia a niente, così come il genio non assomiglia al bravo scrittore. E’ un’altra cosa, assolutamente…. (Giorgio Manganelli, Aspra letizia, in Il Messaggero, 6 luglio 1986). Non perdiamo di vista un gruppo di giovani (Montesano, Braucci, Saviano, Veronesi, Pascale, Lagioia, Trevisan). A proposito di austriaci: Joseph Winkler, non è tradotto in italiano e va bene così (appena tradotti, o quasi, Bernhard, Sebald, Richler fanno una brutta fine…)
a Giorgio Di Costanzo ,a Arminio e a Inglese
a giorgio
trovo Anna Maria Ortese una scrittrice grandissima e non capisco proprio perchè non abbia avuto il successo che avrebbe meritato, eppure i suoi libri pur essendo profondi, pur essendo alta letteratura, avevano anche tutti gli ingredienti per diventare dei best sellers di massa (e la cosa è una vera rarità in italia), ma inspiegabilmente non è successo.
Ma l’Italia è un paese strano esalta spesso la mediocrita e silenzia i suoi poeti più veri, poi … se capita … fa loro l’elemosina e così si sente assolta.
paese che vuol fare l’americano, a volte il marxiano, ma in fondo è sempre e solo un po’ marziano
Paese strano veramente.
a arminio
Ad ogni modo per ossere ot devo anche dire che io sono una ammiratrice (da lunga data) delle poesie di Arminio, ma questo testo mi è paciuto meno (che una cosa piaccia o meno non è poi una cosa importante) non lo trovo del tutto sincero anche se forse è drammaticamente vero e quindi estremamente interessante.
La scrittura ipocondriaca è una realtà con cui oggi vanno fatti i conti, non credo infatti che sia frutto di arkadia, quanto conseguenza di una società letteraria autenticamente malata (malata per mancanza di ossigeno e lbertà) Arminio non riflette infatti la società, ma solo la società letteraria, e la soffre in prima persona. E dall’interno della sua scrittura che soffre, è dall’interno che si ammala e denuncia e diventa quindi drammaticamente autoreferenziale.
Non è però un fenomeno del solo arminio, e è dovuto al fatto che nel passato (e ancora oggi) è stata silenziata, nell’italia ufficiale gran parte della vera letteratura in lingua taliana, per vari motivi che ora non sto ad analizzare perchè sarebbe troppo lungo, ma una delle cause principali è anche che dal dopo guerra siamo stati quasi solo una kolonia, una appendice di altre letterature, e altre letterature dovevamo sponsorizzare, e oggi, ancora di più, lo siamo di nuovo, alcuni hanno saputo (e sanno) rendere questo hendicap una gioia e una forza, altri non ce l’hanno fatta e si sono sempre più chiusi in un auto-esame-stressante e masochisticamente e volontariamente sterile.
Con sterile non intendo nulla di negativo anzi … ripeto le poesie di arminio sono bellissime, ma la poesia è una forza di riscatto linguistico che fa volare, con la prosa invece è più difficile, volare con la prosa è una grazia che viene data solo a chi già ce l’ha (lo ammetteva anche landolfi il più grande scrittore s-graziato italiano, anche se la sua mancanza di grazia diventò, per miracolo, una scrittura fra le più originali).
Anch’io voglio fare una citazione, avoi indovinare chi sa l’utore:
********
Ora la letteratura è morta
perché la prudenza
le ha limato le unghie.
Eccola, è come vedere un insetto
che salta mille volte dentro un fiore
senza mai uscirne fuori
[…]
Il mio corpo dentro l’anima
ha paura.
Starne fuori
sarebbe un’avventura
*******
a inglese
Ora poi dico ad andrea inglese (e speriamo non si incavoli e mi metta in mderazione perchè qui sono tuttti suscettibilissimi:-) che sono felice che anche lui sia IPPOcondriaco perchè così finalmente capisco perchè si è imbizzarriito e ha scalpitato tanto mettendo bianchetto a messaggi innocui che che non erano stati di suo gusto (che brutta cosa la censura in un blog che si ritiene letterario. Solo le vere offese andrebbero cassate esmpre tenendo presente che anche cassare è unavera offesa) e vedo che arriva addirittura a minacciare autocensure:-))))))
Ora indosso l’elmetto protettivo e mi allontano prudentemente
georgia
@ iglesia e temperanza
caro Andrea in nome della nostra profonda amicizia ti invito pubblicamente a restituirmi le calze che Nabokov mi, ripeto mi, aveva regalato. Per quanto riguarda la libertà, ecco credo che esistano delle forme che permettono di trasmettere esperienze poetiche pur trattandosi di prose – ne “il dono” di Nabokov l’immagine dello specchio che traslocatori forzuti sospendono tra cielo e terra e che riflette un’esperienza visiva nuova per il narrante, ne è un esempio- ed altre che sollecitano altri registri. La traduzione era il termine tecnico usato dai primi incisori quando si cominciò a “riprodurre” le opere d’arte, ossia come tradurre in bianco e nero, ma soprattutto nei grigi e nella texture i colori dell’originale. Il romanzo europeo, quello dei grandi russi francesi inglesi, Balzac, Stevenson, Dostoevskj giusto per citarne alcuni, fu tradotto in italia col melodramma (il primo a scorgere questa anomalia italica fu Gramsci, credo). Insomma…
@ Erminio
Tutte le volte che un autore parla di morte la gente prima si tocca le palle, dandoti del portasfiga (il caso del nostro più grande cantautore, Sergio endrigo, ne è un esempio). Io non credo. E che la letteratura, come la filosofia, o la pittura, o quante altre attività nobili dello spirito, come l’ingegneria o le arti mediche, siano una risposta o la storia delle risposte a questo cazzo d’interrogativo, perchè morire, mi senbra di un evidenza lapalissiana.
Carissimo Andrea sinceramente non penso che il mercato condizioni a tal punto le scelte di un autore e per qunto riguarda gli editors,sarebbe bene che si ridimensionasse il loro ruolo, soprattutto quando ti dicono in un qualche giornale che Truman Capote, scriveva malissimo e che la sua fortuna era quella di aver un buon correttore ed eccetera. Io non credo che l’applicazione di un “foglio di stile” ad un’opera in corso di pubblicazione significhi dare uno stile, crearlo per un’opera che non ne abbia. Suvvia, non saranno le spaziature dopo la virgola e l’uso diligente delle sergentine a stabilire il valore letterario o no. Un buon lavoro di composizione, concertato tra autore ed editore serve a rendere l’opera più godibile, più fluida, qualche volta più in linea con le scelte editoriali della casa editrice. Non mi sembra che ci sia violenza in questo, da parte di nessuno.
finisco il mio papiello postandovi alcuni passaggi di una romanziera francese Elisabeth Barillè, per la rivista Sud ( nuova serie) E’ un lavoro inedito e la traduzione è di Cris Altan
Meno godo, dice lei, e più compro.
*
Capi di lusso esibiti davanti a specchi che inducono in colei che li avvicina desideri lancinanti di infinito.
*
Vetrine animate, visi atoni.
*
Le donne cercano nell’acquisto di oggetti a caro prezzo l’ausilio che non ottengono da ciò che – si dice, si legge, si anela – prezzo non ha…
*
L’amore, l’amore, l’amore, l’amore, l’amore, l’amore…
*
Quando compro, lei mi dice anche, non penso alla morte.
*
Eppure ci pensava, durante i saldi, di fronte alle carrettate di vestiti sacrificati, alle cataste di scarpe, ai gioielli a peso, a prezzi stracciati, tutti ammassi in cui si infiltravano emanazioni mefitiche di storia. Dappertutto ribassi pazzeschi, sconti rovinosi. Sulle mani delle donne spuntavano gli artigli. Stracciavano le etichette, si litigavano le promozioni, calpestavano i bambini. L’odore di nuovo saturava l’atmosfera; qua e là agonizzavano i deboli. Docile e confusa, accompagnava il movimento. Aveva la bocca secca, il ventre irrigidito, dei tremori da macello tra le reni e la nuca. Ad ogni nuovo acquisto il terrore aumentava.
*
Tra tutte queste scarpe, si diceva, un solo paio mi accompagnerà sottoterra, bisogna vedere quale. Ne derivava quella febbre di acquisti, quei modelli identici declinati secondo il colore, come una scaramanzia.
Ho visto che Effeffe mi ha compresa in una risposta, ma non ho capito perché.
E meno meno ancora ho capito cosa c’entri il fatto che traduzione fosse un termine usato dai primi incisori. Tradurre vuol dire tante cose.
E meno ancora ho capito perché Giorgio dice che Bernhard e Seebald hanno fatto una brutta fine a essere tradotti.
Ma a dire il vero non ho capito tante altre cose, per es. perché georgia dice che la scrittura ipocondriaca non è frutto di arcadia.
@ Tutti, non è che potreste essere un po’ chiari? Non nuoce alla salute, la chiarezza
Quasi OT: ringrazio Temperanza per aver detto ciò che penso anch’io: Autodafé=Corazzata Potemkin. Personalmente ci aggiungerei anche Senilità (salvo l’ultima pagina). E sia chiaro che la Corazzata Potemkin è tutt’altro che una “boiata pazzesca”, ma a furia di glorificarlo qualunque buon libro o film diventa insopportabile.
Ficchiamoci dentro anche Napoleon di Abel Gance. Sei o otto ore, non mi ricordo più, seduti su un gradino, senza poter neppure far pipì. Eh sì, se mi volto indietro mi rendo conto di aver fatto i compiti. E neppure quello era una boiata pazzesca.
Carissima temperanza, rispondevo – o tentavo di risponderti – a te e all’Iglesia su una questione sollevata poco prima. Ovvero:
temperanza says
La poesia può dire quello che il romanzo non può, certo, e viceversa.
Non vedo lo scandalo. E men che meno la strategia di diminutio.
Perché, qualcuno pensa che la pittura possa “dire” lo stesso della poesia? Già il fatto che non lo possa “dire” …
effeffe says
ecco, poichè si è parlato a più riprese qui e altrove del paradigma “traducibilità” come di una possibilità di distinguo tra opera poetica ed opera pittorica, ” Un quadro è fruibile universalmente, mentre una poesia o un testo scritto devono necesariamente passare per una traduzione” l’esempio che portavo degli incisori del cinquecento a salire, mi serviva per dire che alla stessa pittura necessitava opera di traduzione quando cambiava il supporto (tela o Cartone) e il numero di fruitori. Poi quando dici che un quadro non possa dire, a me gli strappi di Fontana parlano. E cosa dire di Ben? Ma quali parole?
Un romanzo dice cose che un altro romanzo non potrà dire, chissà.
Temperanza says
Insomma, non diamo la colpa solo all’editoria, e poi, smettiamola di pensare ai poeti come a una razza particolarmente eroica e magari pura. Sono stata a un incontro con una quarantina di poeti, qualche anno fa, bè, non scherziamo, ragazzi, tanti ego ipertrofici tutti assieme non mi era mai capitato di vederli, e alcuni erano eccellenti poeti.
effeeffe says
Per quanto riguarda l’editoria, ed in particolare gli editors ( a proposito, perchè la quasi totalità dei direttori editoriali sono donne?) facevo soltanto notare che in Italia ancora più che in Francia godano di una fama che a mio parere sia troppo sopravvalutata. Che poi quaranta poeti siano “insopportabili” messi insieme, lo stesso vale anche per gli avvocati o per gli assistenti sociali… Mescla, Temperanza, mescla…
@Effeffe
Grazie, adesso capisco meglio. E devo dire che sono d’accordo quasi su tutto.
Ma io intendevo “dire” nel senso di “dire con parole” non del farmi provare delle sensazioni, anche a me i tagli di Fontana “dicono”, nel senso che tu dici, e Burri e tanti altri. In questo senso anche la musica mi dice.
Nel senso in cui lo usi tu sono d’accordo anche sul tradurre, anche io se mi riferivo al tradurre nella sua accezione più usuale, tradurre da una lingua all’altra.
E sono d’accordo persino sugli editor, anzi, soprattutto.
E persino sulla purezza dei poeti, ai quali non chiedo di essere puri, ma di far passare un po’ più d’aria, e moltissimo sono d’accordo sul numero, infatti dopo i quaranta poeti ho tremato quando ho dovuto andare a cena con una ventina di ingegneri, ma, forse perché hanno più a che fare col “fare” o forse perché mi interessano di meno, mi hanno fatto meno impressione.
Cmq in generale sono d’accordo.
Che vuol dire mescla?
Peccato, Temp, non ci capiamo, o non vogliamo capirci. Non fa niente. L’unica cosa vera che dici in tutti questi chilometri di commenti che servono solo ad allungare il fallo di/ad Arminio, così come dal medesimo chiesto e implorato (“Commentatemi, commentatemi…!”), l’unica cosa che mi colpisce e mi pare vera – dicevo – è quando osservi che forse anch’io “cerco attenzione”. Forse non erri. Ma il resto è aria fritta, mi sa mi sa. Ciao.
La mescla è un po’ il senso dell’allegra brigata, cocktail di spiriti e competenze, curiosità ricambiate tra i mestieri del fare. Non partecipo spesso ai festival di poesia – perchè non m’invitano cosi’ spesso? – ma nelle pratiche che mi sono proprie – in parte le riviste di cui mi occupo, in parte le divinanze, happening culinario enologici con qualche reading finale, coi compagni Cepa, Iglesia, Raous, Mescitel et tant d’autres – mi piace ascoltare storie. Anzi, visto che ci siamo ti racconto quella che mi ha consegnato Cochi Ponzoni una sera a Parigi.
Milano primi anni settanta. Musicisti, pittori, banditi, tutti nelle stesse balere. Una sera rientrando con una scassatissima 2cv, con Fontana alla guida, questi frena di scatto in mezzo alla strada ed invita i passeggeri a osservare una cosa precisa:
” Cristo, lo vedete il regalo che ci ha fatto la luna? quel raggio di luce argentea come una spada lungo tutta la fila di macchine parcheggiate?”
Effettivamente un raggio di luna correva lungo le portiere delle utilitarie e la sorpresa era stata generale.
Fu allora che, mi raccontò Cochi, Fontana disse che voleva rendere all’eternità quel dono e premendo sull’accelleratore si fece tutte le fiancate delle vetture.
A me quel racconto piacque. Qualcuno, magari un assicuratore storcerà il naso. Quanto avrei pagato per avere la macchina scheggiata a vita dall’indimenticabile Fontana!!!
effeffe
ps
E’ sempre piacevole leggerti, o temperanza
ppss
Non ho la patente
pppsss
C’ho un dubbio tremendo. Questa storia l’avevo già raccontata su NI?
Appena tradotti, o quasi sono morti. Bernhard dopo qualche anno, Richler quasi subito e Sebald appena ha firmato il contratto una vettura l’ha investito. Non è riuscito nemmeno a vederla la traduzione di Austerlitz. Consiglio “Gli emigrati”. Massimo Bonifazi ed Emanuele Trevi (Il Manifesto, 18 dicembre 2001) gli unici ad accorgersi della sua morte. Ne avessimo di Sebald, Bernhard, Winkler, Johnson… Teniamoci stretto Alberto Arbasino, aspettando la quarta versione di “SORELLE d’Italia”… Ho letto un nome gigantesco, Michaux: ragazzi vuie pazziate… Ho chiesto a Winkler (tre anni orsono) di non scalpitare per essere tradotto in italiano, ha solo 53 anni, ne ha tempo per morire. Perchè affrettarsi?
@Effeffe
Beh, io non l’avevo letta, bella.
@ Giorgio Di Costanzo
Eh la madonna! però, ti prego, Di Costanzo, smettila di dirci tutti quelli che conosci, se lo facessero tutti qui, sarebbe un thread fatto solo di liste.
Caro Franco, non parlo del tuo bel testo (che conoscevo già e tu lo sai). ma esclamo di meraviglia (e contentezza) per la serie di commenti che hai saputo attrarre in questo sito. cosa che ha del miracoloso, te ne rendi conto? i tuoi interlocutori, cioè gli interlocutori della tua scrittura, mi sembrano tutti o quasi deliziosi, e senz’altro interessanti. (ho poi un debole per temperanza, per la sua magnifica rassegna di lettori e di respiri di lettura, che è quanto andiamo cercando alla cieca noi narratori non di trama (o di una trama o ordito diversi dal cosiddetto plot televisivo). Caro Franco, fatti sentire: ti ho appena mandato il mio nuovo indirizzo (postale, non virtuale). Un saluto e un rigraziamento a tutti per la bella lettura. Beppe S.
a me gli scrittori che piacciono solo quelli che si sporgono, che si mettono in bilico nel baratro che è in ogni corpo, anche in quelli degli avvocati e dei tabaccai. mi piacciono gli scrittori che disperano del loro corpo e del loro avvenire con questo corpo (mi pare che una cosa del genere l’ho letta nei diari di kafka)
poi ognuno può arrivare dove può e dove vuole: poesie, saggi, racconti, romanzi.
quanto ai commenti: registro con piacere la ricchezza delle suggestioni e dei movimenti che stanno venendo fuori. in fondo le offese e le interdizioni che pratichiamo ci lasciano sempre dove già ci troviamo.
Non avendo mai praticato finora il campo – in più mancavo dall’Italia quindici anni- da qualche giorno rifletto un pò sul corpo dei blog.
E sui testi. A me i commenti che piacciono sono quelli che emancipati dal flusso vitale, tempo strappato al tempo del lavoro, interstizi, canali, spesso semplici graffi, che ci si guarda manco fossero cicatrici, stabiliscono un nodo di puro passaggio – di informazioni, testi, sensazioni.
E di tanto in tanto quella comunicazione astratta dell’io – anche se annunciato dalla terza persona effeffe says-a un voi, immaginato, – chiama l’altro, in una ritrovata fisicità e risponde facendo appello ai nomi, e così Andrea parla a Temperanza, Giorgia ad Arminio …
Per questo gli ultimi due commenti (beppe S., Arminio,)mi lasciano perplesso. Cosa significa
registro con piacere che…
o
… i tuoi interlocutori, cioè gli interlocutori della tua scrittura, mi sembrano tutti o quasi deliziosi, e senz’altro interessanti.
Ma che siamo a scuola?
Perciò cari voi volate pure più basso, non ci saranno contraeree a spararvi contro, e se è vero poi che il corpo è sostanzialmente esperienza dell’altro..
a effeffe: la mia esclamazione di piacere e stupore deriva soprattutto fatto che in passato, sotto qualunque testo, seguivano spropositi e insulti sconnessi. non sto esagerando. da tempo non venivo in rete. anche le tue osservazioni sono interessanti.
carissimo beppe sono felice dell’eleganza delle tue osservazioni. Non ho esperienze degli insulti – forse perchè ” mi piace che mi grandino sul viso le fitte sassiaole dell’ingiuria”, cioè che non ci faccio caso, e spero di leggere presto altro di tuo.
ps
tanto più felice perchè quel beppe s. mi ricordava beppe savoldi, quello dallo stacco di testa inimitabile
caro beppe s. detto il cinghialetto, ti adoro…
Caro Beppe S. gli insulti grandinavano anche in passato, ma ai tempi di Luciano Anceschi (un secolo orsono) “Il Verri” pubblicava testi, non testicoli.
Perché, quando qualcuno sgronda giudizi con questo tono “definitivo” mi viene voglia di chiedergli il curriculum? Perché son cattiva, non c’è dubbio.
cattiva temperanza a parte, i testicoli dello scrittore, quando adeguatamente pieni, son più gustosi della cotenna nella cassoela
testi o testicoli, ognuno la pensi come vuole. in ogni caso la questione è seria e va ben al di à delle cianfrusaglie polemiche: io penso che siamo tutti in grande affanno e cominciare a riconoscerlo sarebbe un primo momento di affratellamento. se vogliamo fare non serve che stiamo qui a scrivere e a leggerci.
Che intemperanza! Berlusconi è solito accusare Veltroni, D’Alema ed altri avversari politici di non essere laureati. Ad essere più chiari: sono stato abbonato al “Verri”. L’ultimo numero che ho avuto sottomano è lo speciale dedicato al grandissimo Emilio Villa (Anno XLIII-7/8). Anceschi ci aveva abituati (male) a numeri monografici eccellenti come il 5/6 (settima serie) su D’Annunzio; 11/12 su Pound; 24/25 (sesta serie) su Michaux o il 4 (nona serie) con Omaggio a Spatola, il 3/4 su Tendenze della DDR-Literatur; il 29/30 e 31/32 sulla “Zaum”; il 22/23 sulla Teoria dei colori in Goethe o il n. 5/6 (ottava serie) sul Teatro musicale contemporaneo. Eravamo abituati (male) a leggere testi (poetici e non ) di Rubina Giorgi, Alfredo Giuliani, Walter Benjamin, Luigi Ballerini, Nanni Cagnone, il mio amico Ernesto Grassi, Cesare Ruffato, Andrea Zanzotto, Toti Scialoja, Adriano Spatola, Massimo Bacigalupo, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Niva Lorenzini, Guido Guglielmi, Ciro Vitiello, Gerald Bisinger, Franco Beltrametti, Giulia Niccolai, Milli Graffi, Giuliano Scabia, Gianni Carchia, Giangiorgio Pasqualotto…. Oggi viviamo in tempi di estrema miseria morale e materiale se prima di consentire il diritto all’espressione chiediamo il curriculum… Abbasso le professoresse (specialmente quelle che non hanno letto “Il porto di Toledo”)
Evviva le liste!!
Cmq, caro Di Costanzo, io chiedo il curriculum solo a chi se la tira:–))
Nulla togliendo a tante riviste, e nella fermissima convinzione che sono “il dietro le quinte” dei movimenti letterari, ricche di bei nomi e spesso bei testi – ma la cosa non è sempre così conseguente- quello che cerco nelle riviste non sono i “nomi” ma tracce, smottamenti di senso, detonatori, corto circuiti, e il più delle volte vengono da nomi che non si conoscono. Ancora. I grandi romanzieri , ne cito due, Saul Bellow e Milan Kundera, creano le proprie riviste per questa idea di progettazione di ponti, e di incamminamenti. News from the republic of letters, Atelier du Roman. Grandi poeti vi hanno dedicato la vita, cambiando essei stessi i nomi, come Pessoa, per tutti. Ma la lista è lunga . ‘n’est-ce pas ?’
Mi piace pensare a Nazione indiana così. Quindi non mi parlate di sacche e di wallere, per favore…
ogni volta che dici qualcosa ti dicono che il problema è sempre un altro. se scrivi qualcosa gli scrittori sono sempre altri. solo quando muori sei proprio tu a morire.
DAS GEDICHT AN DEN LESER
Che cosa ci ha allontanati l’uno dall’altra? Mi vedo nello specchio e me lo chiedo, poiché mi vedo capovolta e non comprendo più me stessa – una scrittura solitaria. In questo grande freddo dovremmo esserci date le spalle freddamente, nonostante l’inestinguibile amore che ci lega? Ti lanciavo parole fumanti, bruciate, con un cattivo sapore, frasi taglienti o, al contrario, opache, senza scintillio. Quasi avessi voluto aumentare la tua miseria e con la ragione cacciarti fuori dalla mia terra. Tu venivi, talvolta fiducioso, talaltra impacciato, a cercare una parola che colorasse il mondo; volevi anche essere consolato, ma io non sapevo trovare per te alcuna consolazione. E neppure sono capace di comprenderti a fondo.
Ma un amore inestinguibile per te non mi ha abbandonato, e adesso, tra le macerie e le correnti d’aria, col vento gelido e col sole, cerco le parole per te che dovrebbero gettarmi di nuovo tra le tue braccia. Perché mi sto consumando per te.
Non sono un fantasma, non sono fatta della stoffa che potrebbe coprire la tua nudità, ma solo degli scampoli di ogni stoffa, e nei tuoi sensi e nel tuo spirito voglio far brillare qualcosa, come le vene aurifere nella terra, e voglio illuminarti dal di dentro, quando il nero incendio, la tua natura mortale, irrompe in te.
Non so che cosa vuoi da me. Non sono fatta per il canto di cui potresti rivestirti per vincere una battaglia. Dagli altari mi tiro indietro. Tutti i tuoi affari mi lasciano fredda. Solo tu no.
Tu sei il mio uno e il mio tutto. Come vorrei poter essere tutto ai tuoi occhi! Vorrei seguirti, quando sarai morto, voltarmi nella tua direzione, anche se dovessi diventare di pietra, vorrei cominciare a risuonare e muovere alle lacrime le belve e far fiorire la pietra, estrarre il profumo da ogni fibra.
Ingeborg Bachmann
postare un pezzo come quello della bachmann è un bel modo di usare la nazione indiana. altro che i piccoli dispetti da scrittori frustrati!
arminio mi ha tolto le parole di bocca. grande france’.
sul pezzo della bachman condivido in pieno quanto detto da arminio però non capisco bene la battuta seguente … sarà per mia ignoranza, ma, frustrati a parte, l’unico scrittore a scrivere in questi commenti mi sembra sia stato proprio arminio, o sbaglio?
Chi è lo scrittore frustrato che ha fatto piccoli dispetti?
a me sinceramente sfugge.
Ad ogni modo sembra proprio che il mezzo induca sempre ad equivocare forse perchè nessuno di noi legge con attenzione.
georgia
a giorgio di costanzo (e a tutti) consiglierei la lettura di una vecchia storia di andrea pazienza, mi pare si chiamasse “le persone famose che ho conosciuto”. terapeutico.
*
e per non parlare solo di futilità, vorrei almeno dire ad arminio che questo suo pezzo mi è piaciuto molto. apprezzamento che resta futile, certo, ma sincero.
ho detto che sarei intervenuto sui commenti e continuo a farlo. uno che scrive ha un pò il dovere di sostenere le sue parole. se non le prendiamo noi sul serio, come possiamo pretendere che lo facciano gli altri. io sto con tutto il corpo nelle parole che ho scritto, forse sto più in quelle parole che nel mio corpo.
Le persone frustrate o anche gli scrittori frustrati sono quelli che invece di fondarsi su quello che pensano e scrivono, rischiando con semplicità il giudizio del lettore, si appoggiano alle stampelle delle persone autorevoli che hanno conosciuto per criticare il lavoro degli gli altri, evidentemente non hanno molta fiducia neppure nella propria capacità di argomentare, se devono fare riferimento a una presunta autorità al di fuori di loro, gente di questo tipo ce n’è moltissima, anzi, è il demi-monde della letteratura, Arminio invece è venuto qui con un suo pezzo, come ogni scrittore dovrebbe fare e ha chiesto il giudizio dei lettori, esponendosi in prima persona, ed è ancora qui a leggere, per quel che vale, lo ho molto apprezzato.
anch’io apprezzo arminio, e non da oggi (ha scritto bellissime poesie e mi piace la sua posizione da paesologo, quello esterno però) ma non sono d’accordo con te, temperanza, sulla descrizione di scrittore frustrato:-)
Per essere scrittori frustrati bisogna prima di tutto essere scrittori (e lì sta il difficile) e poi, in un secondo tempo frustrati ;-), non basta elencare i conoscenti come fossero le piume di un cappello per essere scrittori frustrati, nel caso si è frustrati (e forse un po’ pacchiani e maleducati) e basta :-))))).
Avevo fatto la domanda per sapere chi erano gli altri scrittori frustrati (soprattutto scrittori) che avevano fatto dispetti.
In base alle mia limtatissima conoscenza del settore l’unico scrittore che è intervenuto era, forse, quel Beppe S. (se è lui) che però è stato gentilissimo, quasi affettuoso e quindi lui è scrittore ma non può essere lui il frustrato.
Io purtroppo sono molto curiosa e siccome arminio parla sempre di morte, ma vedo che in fondo ha i vizi (lo dico con simpatia) diffusissimi tra i normalissimi vivi come quello di dare di scrittore frustrato a chi gli sta un po’sul c***, ha suscitato al mia curiosità e per questo ho posto la domanda.
Anche se mi accorgo che qui è peggio di un terreno minato, ogni cosa che uno dice fa inalberare qualcuno, il terreno qui è pieno di mine anti-nick che hanno lo stesso colore del discorso normale…
Il “conformismo marziale” ormai avvolge tutti.
Se non ricordo male, il titolo delle vignette (si trattava di una serie di vignette comicissime) di A. PAZIENZA citate molto a proposito da Raos, era – molto ma molto significativamente – particolarissimo, e cioè: “Le persone famose che mi hanno conosciuto” – e non banalmente “le persone famose che ho conosciuto”. Inversione ironica e micidiale che seppellisce in un momento tutte le balordaggini sulla fama e sulle recriminazioni conseguenti, su cui vedo che pure qui si chiosa e richiosa a iosa. Un po’ come quando Carmelo Bene diceva: “Sono apparso alla Madonna”. Il fatto è che bisognerebbe cominciare a parlare un’altra lingua, innanzitutto gli scrittori. Ma forse questi per primi – tanti di loro – hanno smesso ormai da tempo di immaginarsi altri mondi, altri rapporti umani, altri modi di parlare. GP
interessante gp quello che scrivi
Mi ricorda un interessante articolo di Eco che parlava della nuova lingua dei giovani (l’articolo deve essere degli anni 70) che parlava appunto dei meccanismi ironici e spiazzanti da te ricordati, e faceva notare come tali meccanismi da alcuni non venissero neppure recepiti, ma semmai immediatamente e automaticamente “corretti” nella versione più nota e rassicurantecome ha fatto appunto, inconsciamente raos con lo scritto di pazienza e come probablmente fanno i più (e come probablmente avrei fatto io)
E’ molto interessante il meccanismo e io la noto spesso in rete quanto moltissimi automaticamente mi correggono l nome in giorgia, fa parte di una sicurezza di essere nel giusto (dalla parte dei più) e quindi avere il diritto di correggere tutto quello che sbarella un pochetto nell’inconsueto, infatti non è che scrivono male il mio nick (che sarebbe fenomeno diffusissimo e normalissimo) ma danno per scontato che sia stata io a scriverlo male e me lo correggono.
Meccanismo interessantissimo e diffusissimo che denota sicurezza di sapere tutto e che si riflette anche nel continuo desiderio di voler far dire agli altri solo ciò che è “giusto” (cioè ciò che è giusto per loro) e da lì nascono poi sia ipersuscettibilità che gli atteggiamenti pedagogici per mettere ordine, nel disordine, anche attraverso eventuali pulizie mentali più o meno indotte
rimetto l’elmetto e me ne vado ;-)
georgia
P.S
C’è qualcuno che potrebbe postare lo scritto (o le immagini) di pazienza? Io purtroppo non lo conosco.
“Il fatto è che bisognerebbe cominciare a parlare un’altra lingua, innanzitutto gli scrittori. Ma forse questi per primi – tanti di loro – hanno smesso ormai da tempo di immaginarsi altri mondi, altri rapporti umani, altri modi di parlare”.
Questo pezzo mi pare cruciale e assai condivisibile. Io oggi non so bene cosa significhi essere uno scrittore, anche per questo mi sono autoproclamato paesologo. Se uno mi dice che io sono uno scrittore e subito dopo me ne cita altri cento, credo che abbia un’idea assai diversa dalla mia di cosa sia il leggere e lo scrivere.
Sicuramente ci sono pochi lettori puri tra quelli che hanno commentato il mio pezzo; immagino che molti scrivano e se mi sbaglio mi fa piacere, per me e per loro: scrivere facilita la crescita ma non la salute. Sulla storia della frustrazione magari ne possiamo parlare anche fuora da qui: il mio indirizzo è :farminio@libero.it
Io non scrivo, se dio vuole, il che, naturalmente, non mi rende immune dalle frustrazioni;-)
ma perchè parlarne “fuora”?
utile e anche salutare è proprio il dibattito pubblico.
altrimenti perchè saremmo qui?
altrimenti perchè ci sarebbero i commenti pubblici che sembrano pure dare tanto fastidio (anche se sembra che i più non ne possano fare a meno) a molti dei tenutari e degli utenti dei blog?
E poi il tema frustrazione lo hai tirato fuori tu e penso tu abbia fatto bene anche se io non gli avrei mai dato quel nome, ma semmai accidia, noia, eccesso di luoghi comuni, insofferenza, intolleranza, desiderio di apparire, di esercitare un qualsiasi piccolo potere sia nell’autocelebrarsi che nel reprimere, nel rimettere ordine, nell’igenizzare, e anche nell’esercizio, più legittimo, del contestare, ecc
georgia
hai ragione, la frustrazione è una brutta parola. e tu la scomponi assai bene. dietro ognuno degli esempi che fai tu si potrebbero incollare molti nomi di scriventi. Pensa, solo per fare un esempio a quanti scrittori propongono un eccesso di luoghi comuni.
mi scuso con arminio perché continuo a non parlare del suo scritto. e :
ringrazio gp per aver corretto la mia svista sul titolo del fumetto di paz – ma sono contento che si sia almeno capito perché lo citavo.
posso solo dire che quelle strisce io le avevo lette da ragazzino, cioè prima di cominciare a conosc… ops, ad essere conosciuto da gente famosa, e davvero penso che mi abbiano aiutato immensamente a muovere i primi passi nel mondo delle arti – tanto è vero che i primi passi furono quasi gli ultimi.
quel fumetto ha su di me effetti surreali, anche ad anni di distanza : ad esempio ancora oggi, leggendo le interminabili liste di arbasino (in uno qualunque dei suoi libri) sui grandissimi che lui ha conosciuto e noi poveri stronzi invece no, è grazie a (o per colpa di) paz che mi ribalto dalle risate (precisando che non ho nulla contro arbasino, è solo uno dei tanti).
è il contraltare comico (non “poco serio”; comico) delle tirate di zanzotto contro il mito dell’onniscienza alla eco (o arbasino appunto); è ricordare che siamo risibili e infinitesimali, non meno esilaranti perché tragici.
“proprio per questo adesso me ne vado a dormire.”
GP, sei Gipi? Quando uno che si chiama GP parla di fumetti mi emoziono.
Che poi, Gerogia, manco a farlo apposta, uno dei famosi che “lo conobbero” (il Paz) era Umberto Eco…
Quello che dici comunque è molto interessante, perché è proprio così, credo: il linguaggio serve inannzitutto a dare (false) sicurezze, perciò va continuamente messo in discussione e ribaltato, se si vuol ricavarne qualcosa di avventuroso, di profondo o di comico, come dice Raos.
No, Perplessa, non sono Gipi, sono Gustavo Paradiso.
Secondo me il Raus ha ragione ma aggiungerei qualche osservazione. Primo che la parola scrittore non è una malaparola, ma nemmeno uno statuto, men che meno uno stato, tutt’al più una nazione (e lunga vita sia alla indiana)
terzo: non capisco proprio perchè anche quando tutto fila liscio bisogna invocare il male o le passioni negative. Un poeta Arminio getta un sasso – altro che se le parole non sono pietre – e delle persone, uomini, donne, siori, siore, guaglioni, reagiscono. Molti di loro sono scrittori, cioè scrivono libri e riescono perfino a pubblicarne, quasi certamente li rendono pubblici – eppure la domanda che mi pongo incessantemente è quanti libri giacciono nel dimenticatoio della storia, di quanti classici non sappiamo nè sapremo nulla. Capita poi che ci siano dei lettori, cioè delle persone che leggono i libri, certamente leggono i testi postati e i commenti e il più delle volte non intervengono. E’ un mondo affascinante – nulla a che vedere con le maggioranze silenziose e i loro sogni, i nostri incubi. Che ci siano scrittori frustri è normale come dei panettieri insoddisfatti, dei ginecologi attanagliati dal rimorso. E poi, come l’ipocondria la frustrazione non blocca necessariamente il processo creativo. Sicuramente lo rende doloroso. Andrea Pazienza, il grande Paz, non è morto di risate, ma con un laccio al braccio in un lago di sangue e vomito. Chi ci dirà e cosa del suo dolore. Chi ci dirà della follia della Ortese, le settecento mila lire del vitalizio? Salgari, il grande Salgari, il primo scriba professional italiano si suicida perchè non pagato abbastanza, a fronte dei suoi debiti.Per quanto riguarda le diatribe chi sono io chi sei tu, chi conosci tu chi conosco io, ce l’hai Zoff, concordo col Raus: lasciamole agli altri, noi siamo gente seria, abbiamo fatto tre anni di militare a Cuneo, direbbe Totò e non Francesco Scaglione che a Cuneo ci è nato.
sì, sì, sì, però … raus si chiama raos ;-)
raus sarà più banale, ma è, connotato molto negativamente.
Anch’io unavolta l’ho chiamato roas, ma almeno roas non voleva dire nulla (almeno credo):-)
georgia
il andrea
effeffe
ps
tastiera italica
mèèèèèèèèèèèè
(traduz.= “bravo zisko; parole buone, perchè giuste e precise”)
mèèèèèè
Per effeeffe (o giù di lì). Non ho conosciuto Bachmann. Va bene? Quando venne sull’isola (scrisse “Canti per un’isola”, “L’isola delle cicale”, etc.) non ero ancora nato. Ma so dove abitò, dove andava a fare la spesa, cosa beveva insieme ad H. W. Henze, e fu anche molto felice su questo scoglio mefitico. Era l’estate del ’53 e a Forio dominava la coppia Auden-Kallman; Capote, Tennessee Williams (si odiavano) erano andati via e Allen Ginsberg sarebbe arrivato (per litigare con Auden) nel ’57. Cosa li attraeva in questo c…o d’isola? Solo la disponibilità dei ragazzotti? No, fino a, diciamo trent’anni fa, e trentamila autovetture fa, e cinquantamila appartamenti fa si viveva in un piccolo Eden….
Giorgio di costà
secondo me dovresti farti invitare da Marzullo.
La vulgata è colta
pertinente
e a me non dice niente
Io l’educai; di tante cure or mi compensa
di quanto fei, attendo da un pezzo merce’!
plena lecture dos cantos do caos
m i r a c o l o a m i l a n o
effeffe
Ich will dem Kind nur den Kopf abhau’n !
come uomo la lettura di “canti del caos” è una fucilata al cuore
come lettore la lettura di “canti del caos” è una fucilata al cuore
come scrittore la lettura di “canti del caos” è una fucilata al cuore
come libertario la lettura di “canti del caos” è una fucilata al cuore
come consumatore la lettura di “canti del caos” è una fucilata al cuore
come lavoratore la lettura di “canti del caos” è una fucilata al cuore
come esule, agitato, agitatore, vulcanico spento, e acceso, rarefatto, massacrato a colpi di mutuo e di interdetti, militante dell’incanto in mondo di disincanto, asserragliato, frequentatore di notti e di strangolamenti e ti manca il respiro, e tossisci solo per sentirti vivo, la lettura di canti del caos è una carezza al cuore come quella di lei, quasi distrattamente, all’alba
effeffe
ps
@ arminio
parole che ritrovo tra le tue parole
Si direbbero piuttosto fucilate al cervello :-)
e perchè no, anche al cervellowovoka
effeffe
Weimar, 21 settembre’60
La tua magnifica lettera, carissimo Riccardo, mi fece di nuovo respirare l’aria alta e pura dei monti. Tu sei ciò che mi occorre e me lo prodighi a piene mani
Franz
“militante dell’incanto in mondo di disincanto”
io mi sento così, ma i grandi cuori ormai disertano la letteratura, questa è la verità. tra gli scrittori abbiamo assai spesso semplicemente persone ben addestrate alla scrittura.
Non per insistere sugli in- canti del caos, ma è veramente la cosa più autenticamente scritta col cuore e colla pelle che mi sia capitato di leggere ultimamente in Italia. Mi colpisce la composizione geometrica dei dispositivi e come i personaggi li facciano ruotare a turno come in certi universi beckettiani, o del nostro, mi sembra qui amatissimo, Carmelo Bene. lo stesso narrante – ma si tratta per lo più di narratori- sono schiacciati da quel dispositivo ed al lettore il terreno letteralmente scivola via.
effeffe
ps
lo so che ci faccio un po’ la figura del picio nel trasmettere sensazioni su un libro che probabilmente da anni vive tra le vostre librerie, però, mi piacerebbe che varcasse le frontiere (ne esistono traduzioni in francese, inglese, spagnolo?)Antonio Moresco va molto oltre, vola molto più in alto di rockstar alla Michel Houellebecq, che gli inavveduti e spesso disncantati lettori autori invocano come quell’altro che diceva a d’Alema di dire qualcosa di sinistra (e di sinistro, aggiungo io)
ppss
Mi sono messo a correggere le maiuscole dei nomi sennò la Georgia mi fa il culo e sarebbe un peccato
che strano, a me nessuno ha mai risposto
Oh che bello, vengo parodiato. Sono famoso!!!!
Ma quel Riccardo Ferrazzi lì è proprio quello vero?
Ora gli scrivo…:-)
effeeffe ma che stai a dì?
io non metto mai le maiuscole (se le metto o è per sbaglio o per ironia)
;-)
se mai ti ho corretto è stato solo all’interno di un discorso precedene e …raus scusami era veramente un po’ bruttino e … il raos non se lo meritava visto che fino ad ora non ha censurato nessuno …se non per scherzo ;-)
georgia
P.S
in un messaggio ho citato due pezzi di poesia anonimi, nessuno di voi ha chiesto di chi fossero:-(
le avevete riconosciute?
caso mai non lo aveste fatto, e non osaste chiederlo: erano di arminio.
si,si,si, georgia,
si,si,
Andrea, ti prego, salvami tu da georgia…aiuto!!!!!
arminio> immagino che molti scrivano e se mi sbaglio mi fa piacere, per me e per loro: scrivere facilita la crescita ma non la salute.
In un mondo ormai affollato di dispositivi deleuziani e macchine desideranti, il problema diventa ovviamente il “copyright” del delirio. Bisognerà per forza istituire un delirio “buono” (che paradossalmente risulterà poi essere quello maggiormente inzuppato della più pedante e feticistica “filologia”) ed un delirio cattivo – cioè in generale quello degli altri – da assimilare piuttosto alla comune demenza, sia essa naturale (precoce o anagraficamente giustificata) oppure variamente autoindotta attraverso l’ampia gamma di pratiche che l’uomo ha escogitato allo scopo di sanare la sua dolorosa frattura dal mondo animale. Diventa allora interessante osservare, nei diversi discorsi, i piccoli smottamenti non tanto “del senso”, quanto dell’egotismo. Le piccole distinzioni, come questa di Arminio, che con amorevolezza un poco sospetta indirizza i “piccoli” alla salute del prorio obliarsi, riservando eroicamente a sé, e forse a qualche affine come ff, che prontamente gli ammicca, i tormenti della crescita. Ho trovato inoltre le “pose” delineate da questi discorsi piuttosto divertenti, specialmente quella dell’UOMO (pronunciato alla Gianni Minà) lettore, scrittore, libertario eccetera e del suo trip notturno moreschiano.
iuhuhu? sono muto (invisibile) e non so di esserlo?
Carissimo wowoka, osservazioni giustissime le tue, che dire. Ma provo a capire meglio, se me lo permetti, facendo un rapido passaggio anche sul “mezzo”(blog).
In un mondo ormai affollato di dispositivi deleuziani e macchine desideranti, il problema diventa ovviamente il “copyright” del delirio.
dici tu, per poi continuare, il tuo spinoziano distinguo tra passioni “buone”, tu li definisci deliri, e passioni negative.
Ora, appassionato quanto te delle letture Deleuziane, ma non solo, – anche se ormai si è fatto piazza pulita di Guattari, certamente più scomodo e meno assimilabile – mi sembra poco deleuziano fissare il dispositivo, e pretendere lucidità del discorso, neutralità della parola, chiarezza del pensiero, inducendo i più a pensare di essere i protagonisti più o meno inconsci di un dialogo alla Platone, o alla Leopardi. Lo ripeto, sono da poco veramente tornato in Italia, e nemmeno completamente, e come certi ospiti percorro con molta calma sentieri e corridoi rivestiti di benevolenza. E lo stesso vale per i blog, che restano per me ancora creatura misteriosa, e non sempre gratificante, dell’intelligenza o dell’esperienza che uno si porta dentro.
Non credo un solo istante che la letteratura sia un viatico alla crisi di crescenza, quanto una assai difficile arte dell’oblio – a una certa età solo i folli si trapiantano capelli per avere crescite “chiavi in mano”. E l’oblio può essere di sè, o degli altri, a volte di entrambi. Arminio invita a bere un bicchiere e io ci vado. Poi trovi che il vino sia buono, come le sue parole e per ragioni che non sto a cercare, provo una forma di “coinvolgimento” nella sua esperienza dell’abîme . Dunque si dialoga, si dicono cose, sensate, molte di meno, perchè poi si sa che le cose migliori nascono sempre all’improvviso tra mucchi di cazzate – prova ne è che i risultati migliori di conferenze e seminari avvengono all’ora di cena.
Per concludere, il blog è un pò come una faccia, alla maniera di Deleuze e Guattari, in cui smorfie e tic, si manifestano come segni della rivolta ad una maschera che si vorrebbe fissata una volta e per tutte.
Che poi Moresco sia un genio e che per carattere pure davanti a un Bric del Bandit mi metto a piangere dalla commozione, è un altro discorso.
caro wovoka,
non so se ha letto il mio testo o è partito direttamente dai commenti. quella frase che riferisce messa così mi rendo conto che non significa molto. io questi commenti li continuo a seguire perrché voglio vedere se trovo compagni. prima di considerarla eroica, io la mia impresa la considero nevrotico e in fondo cerco altri nevrotici non per coltivare l’isteria ma per provare a dissodarla insieme.
dissodare la nevrosi (meglio la parola nevrosi visto che isteria viene da istero che vuol dire utero) è impresa eroica, meglio quindi conviverci così com’è, non dissodata e non potata, a volte da pure buoni frutti
georgia
Suvvia però, quelle mie parole non rappresentavano certo una proiezione dell’interiore, ma al contrario un’interiorizzazione del fuori: non uno sdoppiamento dell’Arminio, ma un raddoppiamento dell’effeffe, non una riproduzione dello Stesso, ma una ripetizione del Differente, non l’emanazione di un Io, ma la immanentizzazione di un sempre altro e di un Non-io. Pensavo fosse evidente.
Su queste note estremamente fluide e autenticamente spontanee, io vi saluto e mi vado a fare un aperitivo in piazza vittorio alla salute di chi mi vuole bene. Au Revoir
effeffe
ps
in bocca al lupo al fraterno Iglesia
Quid est? Non son stato abbastanza deleuziano?
la nevrosi per me è uno strumento di lavoro, ma è un lavoro forzato, la nevrosi quando è grave è sempre tirannica e la vittima diventa anche complice del suo tiranno. queste cose dovrebbero riguardare molte persone, ma comincio a pensare che mi sbaglio, comincio a pensare che in fondo pochi se la passano tanto male come me.
Anch’io penso a volte di passarmela male (come in questi giorni). In quei casi rimetto sul comodino “Risvegli”, di Oliver Sacks, oppure Arcipelago Gulag (“Eos dalle rosee dita…”) – questo solitamente mi aiuta a regolare la mia macchina desiderante su regimi più sostenibili.
bel tema: i libri che riusciamo a prendere in mano nei momenti peggiori
LUNGO LE TORRI DI GUARDIA
parole e musica Bob Dylan
“Dev’ esserci una via d’uscita”,
disse il giullare al ladro,
“C’è troppa confusione,
non riesco a trovare sollievo.
Uomini d’affari bevono il mio vino,
contadini scavano la mia terra,
nessuno di loro lungo il confine
sa quale sia il valore di ciò”
“Non c’è motivo di allarmarsi”,
disse il ladro gentilmente
“Ci sono molti qui tra di noi
che pensano che la vita sia solo un gioco.
Ma tu ed io sappiamo tutto ciò
e non è questo il nostro destino,
perciò, basta parlare in maniera falsa adesso,
l’ora è tarda.”
Lungo le torri di guardia,
prìncipi osservavano
mentre tutte le donne andavano e venivano
anche i servitori scalzi.
Fuori, in lontananza,
un puma ringhiò,
due cavalieri si stavano avvicinando,
il vento cominciò ad ululare.
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ALL ALONG THE WATCHTOWER
words and music Bob Dylan
“There must be some way out of here,”
said the joker to the thief,
“There’s too much confusion,
I can’t get no relief.
Businessmen, they drink my wine,
plowmen dig my earth,
None of them along the line
know what any of it is worth.”
“No reason to get excited,”
the thief, he kindly spoke,
“There are many here among us
who feel that life is but a joke.
But you and I, we’ve been through that,
and this is not our fate,
So let us not talk falsely now,
the hour is getting late.”
All along the watchtower,
princes kept the view
While all the women came and went,
barefoot servants, too.
Outside in the distance
a wildcat did growl,
Two riders were approaching,
the wind began to howl.
effeeffe
mi raccomando, volume altissimo, raccomanderebbe Carmelo Bene
Che siamo sbadigli paralitici/alleviati solo dal fiato storto che ci abbuona l’usuraio/ Morte che ritorna due o più volte/e ci risucchia/nelle vene di madre che si danno all’anestetico sonno/io madre di madre che aspetto/rinasca/ Che siamo luce che ritorna/orfani di vita sulla strada/affaticati dalla cura dei denti/dal riconoscerci negli alvei delle occhiaie criminose/o nella pelle caffeinica/che a prostituta si spalanca/sui marciapiedi dei giorni catarrosi/ Che siamo chiazze che la morte asciuga. (un campo di battaglia, sì. e sempre mostri per ospiti.)
@ilaria
touchè
effeffe
Dal libro di Sacks in precedenza citato (che ho veramente risfogliato) ho tratto queste parole di W.James, che alimentano il mio sospetto che poesia ed assimilati siano l’alcol dei colti:
Il passo successivo nel mondo degli stati mistici ci porta in un regno che l’opinione pubblica e la filosofia etica hanno da lungo tempo bollato come patologico, sebbene la pratica privata e alcuni generi lirici sembrino confermarne la validità. Mi riferisco allo stato di coscienza prodotto dagli inebrianti e dagli anestetizzanti, e specialmente dall’alcol. L’influenza dell’alcol sul genere umano è indiscutibilmente dovuta al suo potere di stimolare le facoltà mistiche della natura umana, generalmente piegata al suolo dalla fredda realtà e dall’arido criticismo dei momenti sobri. La sobrietà sminuisce, discrimina e nega; l’ebbrezza espande, sintetizza e afferma. Nell’uomo, infatti, essa è il gran sacerdote della funzione “Sì”: porta il devoto dalla gelida periferia delle cose al loro nucleo radiante; lo rende per un momento tutt’uno con la verità. Non è per mera perversità che gli uomini la perseguono. Per il povero e l’ignorante, infatti, l’ebbrezza occupa il posto dei concerti sinfonici e della letteratura; il fatto che le tracce e i bagliori di ciò che immediatamente riconosciamo come eccellente debbano essere concessi a tanti di noi solo nelle prime, fuggevoli fasi di ciò che, nell’insieme, è un avvelenamento tanto degradante, ebbene, questo fatto resta parte del più profondo mistero della vita.
E riguardo ad etere e protossido d’azoto:
A chi li inala sembra rivelarsi una profondità più profonda del vero. Ma questo vero impallidisce o sfugge al momento di essere raggiunto …
mhm, davvero gente, mi sa che è davvero tutto qui. Se non ne siete persuasi andate su Google, sezione “immagini”, digitate “autopsy”, ed esplorate un po’ ad intuito, cercando di coglierne la profondità macchinica, più profonda del vero.
il russo di guerra e pace diceva che la vita senza ebbrezza è ciurmeria, stupida ciurmeria
(Di ebbrezze). o. Vite infette. “La luce d’oriente un po’ prima del buio/avvisa ipotesi di vite infette/avvisa feritoie d’appartamenti maleodoranti dove/un cane assiste accecato/al flash di traduzioni esatte/al diluirsi lento strisciante/sul dorso acquatico della circonferenza/perfetta./Netta nascondiamo una domanda/sull’ora in cui s’incontrano i due punti/se prima o dopo il chicchirì del gallo.”
generose le ebbrezze che verrano. vogliamo. aspettiamo.
di chi è questa poesia?
dimmi qualcosa di te, ilaria.
la scultura di ilaria del carretto a lucca è una delle meraviglie di italia.
“d’indolenti dipendenze”. la mia piccola breve ustionata storia. di ebbrezze attese. perdute. balbettanti. mai arrivate. “vite infette” è piccola creatura da poco nata. ilaria del carretto mi aspetta ancora.