Endoglosse
Di Marco Giovenale
The notion of some infinitely gentle
Infinitely suffering thing
[ T.S. Eliot ]
I.
Non c’è necessità di premere contro il nervo per vedere cristalli dietro oggetti. (Le esegesi esatte). (Riflette: endogenesi).
I colpi dal piano di sopra. Passa fuori un’acqua e senza dubbio qualcuno bendato per scherzo.
Come non avessimo già abbastanza vuoti di memoria e potere, ora questa pioggia sottilissima
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II.
Aspetta che il delatore faccia il suo dovere. Intanto spolvera col ramettino certi festoni di rena in lutto, standosene seduto in faccia al mare che gli solletica raro le dita.
Poi riflette che in definitiva avrebbe prima dovuto ‘commettere’ delitto, scappare, e avanti. È intorno alle malefatte, più in generale, che fioriscono poi falliscono delatori e altri. Così, non ha senso aspettarlo, pensare che arrivi. È innocente, tutto considerato. (C’è tutta un’innocenza, eccetera).
Per fortuna pensa anche (sùbito) che il mondo, più vecchio di lui che è comunque assai vecchio, parla la sua stessa retorica, usa stessi cenci, si forbisce il riporto ematico con la medesima luce a buon mercato. Pazienza, pazienza.
(Gira) di lato la testa, solo un po’. Già lo capisce capovolto. Campisce.
Si mette freddo. Lo chiamano
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V.
1.
È nel semibuio o così si sostiene. Le pareti, quanto a immaginarle, ci saranno pure, da qualche parte, ma non da qui se ne vede una. Stessa osservazione per il soffitto. La terra c’è, invece, questo è sicuro, dato che lui ci si inginocchia sopra. È scuro. Non si rialza, sta giù sempre, se prova è per smettere: ha un inginocchiarsi continuo, smette.
Al collo il cappio è morbido, la fune sale indolente ma così rilasciata che non viene mai impiccato, nemmeno minacciato. Ha le mani libere e giusto per questo non si toglie la corda dal collo
2.
Distesa, la donna. Ha un soffitto che la fa rimanere supina, le tocca lo stomaco, la tiene sempre ovunque schiacciata schiena a terra. Ma anche qui non ci sono pareti. Può strisciare liberamente verso qualsiasi punto cardinale
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VII.
Sente di dover fare corpo tra il luogo – quello spazio breve – e il fatto che non abbia senso restarci.
Gli mette tristezza l’abbandono, quella nicchia, il giro mal completato delle scale, il fosforo di chiocciole intorno, pezzi di rami, dell’anno prima, o parecchie ore. E si decide.
Decide: si sposta. Non può vivere sempre lì. Non può passarci tutto quel tempo. Nemmeno è vicino casa; lo osservano, lo additano.
Anzi: non può neanche dire che ci vivrebbe sempre; è vero perfino il contrario, è a disagio; però gli accade di desiderare sempre di dire (o sentire che) «qui potrei viverci sempre».
Non si può lasciare, è un posto abbandonato
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XV.
Il gelo intensifica le mani fino a dissiparle.
«Le non le sento le più le dita le…» – scherzava il figlio di Federico sotto il getto debole di inizio fiume; non aveva avuto paura del viaggio; né della sorgente ora
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XVIII.
(Se) sta piovendo molto forte. La felce e la palma sono nel cortile. C’è una differenza tra le mani. La lastra di vetro che separa due semi. Passando davanti, specchiando, il bambino si fa segno
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XIX. (Contro Augusto)
I pontili, i nomi delle cose, o comunque i gradi di inclinazione della fodera di mare tra qui e ancora qui. Le curve invece non calcolabili se c’è lo stupido che danza. Il sole basso in fondo al mappamondo slitta sciupìo lungo le rigature piatte del porto niente capanni; solo ieri in qualche immobilità era il primo di gennaio fragilmente, una stella stilizzata sparava 10 petali led – qualcosa appena possibile. Adesso il macellaio è rientrato sciolto; volo controllato, protetto dai soliti. Sta in patria sull’attenti senza sedia igienica.
Le circa duecento ossa le slegherà la tomba forse.
I veri morti restano quelli che speravano
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Biagio Cepollaro E-Dizioni, 2004: link diretto:
http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/GioTesto.pdf
o dalla pagina di Poesia Italiana Ondine:
http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/E-book.htm