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Editoria o letteratura?

di Florinda Fusco

Essendosi ricreato un po’ di spazio nella memoria di NI, ripropongo il testo di Florinda Fusco che ero stato costretto a cancellare alcuni giorni fa. Da un lato, per un’elementare forma di correttezza nei confronti dell’autrice; dall’altro, perché lo considero di assoluta rilevanza rispetto agli ultimi accadimenti interni a Nazione Indiana (era peraltro questo il motivo per cui l’avevo postato la prima volta). L’ultimo paragrafo, in particolare, esprime meglio di quanto saprei farlo io stesso cosa è stata per me, sino ad oggi, Nazione Indiana.
Si sta cercando di organizzare una riunione per discutere di quanto è accaduto. Rispondendo a quanto dice Carla Benedetti nel suo post, spero vivamente che lei, come tutti gli altri fuorusciti, vorranno parteciparvi. Lo ritengo anzi essenziale.
In attesa di questo incontro, non postero’ più nulla su questo sito.

Saluto e ringrazio, con tutto il cuore, le lettrici e i lettori che hanno seguito con generosità ed attenzione il mio (il nostro) lavoro.

Andrea Raos

Oggi si è arrivati ad un punto d’incontro-scontro tra due potenzialità coesistenti nella realtà letteraria contemporanea. Da un lato, le cosiddette “morti” della modernità, il superato antagonismo tra avanguardia e tradizione, la crisi delle poetiche e della critica, portano gli scrittori ad un’estrema libertà di movimento, che significa poter disporre di un patrimonio enorme di esperienze da poter guardare con occhi nuovi, liberi dalle costrizioni di ogni tradizione o criterio imposti. Dall’altro, l’industria culturale impone nuove invisibili mura: regala una libertà illusoria a chi si muove tra le pareti di una ristrettissima stanza. Questa ristrettissima stanza è figura di quello che Hannah Arendt avrebbe definito l’assenza di pensiero. I tempi e i cliché della grande Fabbrica dell’editoria letteraria minacciano ogni spazio di possibile meditazione, nel senso di dialogo silenzioso con se stessi, momento essenziale e indispensabile per il vero dialogo con l’altro. Ecco l’incontro-scontro tra la possibile estrema libertà di pensiero e di scrittura e l’impossibile libertà culturale all’interno della macchina della produzione.

La moltitudine dei libri prodotti crea un chiasso assordante, una difficoltà di orientamento tra le nuove merci (presupponendo un enorme spreco economico, come in ogni settore consumistico), ma l’abbondanza e la pluralità apparenti mascherano in realtà criteri coercitivi che uniformano entro schemi ben definiti il prodotto. I criteri confluiscono in una reductio ad unum, in un unico macrocriterio: la facile vendibilità del libro. Credo che oggi sia innegabile l’omologazione, così come la scarsissima qualità del lavoro artistico e intellettuale che la grande editoria produce. Ma d’altra parte come potrebbe essere il contrario se gli editor oggi sono, quasi nella loro totalità, operatori di mercato? E se l’ambizione ad un ruolo sociale da parte dello scrittore sostituisce la silenziosa ricerca conoscitiva? La cosa che bisognerebbe mettere in dubbio è il possibile funzionamento di questa grande macchina, che a me appare come una macchina che gira a vuoto, e pertanto destinata al collasso, specchio di una società politica, non solo subordinata al capitale, ma dominata ideologicamente sempre più dal dio lavoro (rimando al Manifesto contro il lavoro del gruppo tedesco Krisis, DeriveApprodi, 2003), nel momento storico in cui il lavoro è reso sempre più superfluo. Così come la società dominata dal lavoro crea ogni giorno di più gli “esclusi” dal lavoro, così la società delle grandi produzioni editoriali crea un apartheid di scrittori e intellettuali che restano, a me sembra, la fonte di maggiore vitalità in questo organismo assopito: letteratura che ancora cerca di esplorare ed esplorarsi, di conoscere e di conoscersi, letteratura che cerca di costruirsi autonomamente un’identità. La catastrofica situazione della realtà letteraria di mercato non esclude, dunque, che in questo momento in Italia ci siano intellettuali e scrittori di grande qualità. Il problema è che la loro posizione è, tranne rarissime eccezioni, di paria, la loro voce è inascoltata. Pensare, d’altra parte, alla fine della letteratura, credo sia un atteggiamento culturalmente egocentrico. Cosa rappresentiamo noi nell’infinito ciclo della storia e delle arti? un piccolo punto, a cui seguirà un altro punto. La situazione già riscontrabile in generazioni passate, di paria intellettuali, mi sembra si stia moltiplicando, sia diventata la situazione definitiva della scrittura che cerca di dire qualcosa.

Credo che oggi ci siano autori la cui scrittura e la cui vita siano tutt’uno con il sociale e il politico. Ci sono scrittori e intellettuali per i quali ogni giorno la vita è una lotta politica e una lotta per la sopravvivenza in una cultura di questo tipo, una cultura che ha come etichetta destra e sinistra, ma che sostanzialmente si regge sulle stesse leggi di mercato e consapevolmente o inconsapevolmente idolatra lo stesso dio “lavoro”.

La società politico-letteraria ha bisogno di comprare e vendere non solo la letteratura, ma gli stessi scrittori; prima ancora che di letteratura-merce, si può parlare di letteratura-possesso. È tensione al possesso reciproca, forse circolare.

Credo che la vera letteratura parta da una forte coscienza etica, che è coscienza di liberazione da tutto questo. La letteratura non è assoggettabile a regole, o è libertà o è niente. Libertà è libertà dal gusto del pubblico, dalle imposizioni culturali, libertà dal potere finanziario, amministrativo, istituzionale, politico che sta dietro la grande editoria, libertà da qualsiasi modello o pressione, da qualsiasi automatismo. È resistenza, un cercare di stare in piedi, un cercare di comunicare nonostante la grande sterilizzazione dei canali di comunicazione attuata dai mass-media. Letteratura non può essere servizio, intrattenimento per il pubblico o investimento per il capitale. Questa letteratura non subordinata è sempre esistita in tutte le epoche. Credo che sia una necessità umana, una necessità di vita, e che la sua negazione sia una negazione di vita.

Questo tipo di letteratura sta vivendo un’enorme solitudine. Ma spero che da questa solitudine possa nascere una tensione alla collaborazione tra cellule isolate per riprendere un dialogo intellettuale in una realtà che ammutolisce il confronto. Letteratura come confronto tra paria. Non sono d’altra parte, i paria, anche sul piano politico, come ha affermato la Arendt, la vera avanguardia della società?

Editoria o letteratura?

testo già comparso in
http://cepollaro.splinder.com
e fatto circolare da “bina” (bina_posta@yahoo.it)

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