Perdersi, ovvero: Le mappe mentali
di Gualtiero Tramontana
Immagino cosa possa significare girare e sperdersi di notte per questi corridoi. Anzi, non voglio immaginarmelo proprio per niente. Mi verrebbe paura già solo a pensarci. Corridoi lunghissimi, tutti uguali, tutti diversi solo per tracce insignificanti. E chi si ricorda quali? Ci sono grandi blocchi di edifici quadrati e altri rettangolari. In quelli quadrati, e lo so per esperienza diretta, ci sono corridoi esterni, ci sono quelli interni. Ogni lato è lungo un centinaio di metri, forse esagero, forse solo cinquanta.
Per i corridoi interni di metri se ne deve togliere qualcuno, ma pochi, e poi i blocchi sono tanti, A e C, e poi B1 e B2, e D1 e D2, D3, D4 … Ce ne deve essere qualcun altro di blocco, ma non so bene, ancora non ne ho la mappa mentale completa. E poi, e sempre al livello del secondo piano, ci sono i passaggi tra un blocco e un altro, e in mezzo, tra le file di blocchi, ci sono grandi stradoni alberati, e, perpendicolari a questi, altri stradoni, meno larghi, ma sempre stradoni. Alcuni di questi blocchi (provo a dire, non ne sono sicuro, il B2) sono trasversali, e allora i corridoi sono lunghissimi, il doppio. Duecento metri? Valuto male? Se si cammina nei corridoi esterni, ogni tanto, dalle finestre degli uffici (quasi tutte piccole stanze, corrispondenti ognuna a una sola porta, vetri azzurrati, dall’esterno specchi, da qui l’effetto è solo un leggero cambiamento di colore del cielo e del paesaggio) si vede una campagna silenziosa, nuvole, bianche oggi, che appaiono leggermente bluastre, e un quieto flusso di traffico. Quieto flusso solo perché tutto viene schermato, oltre che la luce e il calore anche il rumore. Scorre quietamente il mondo là fuori, bara un po’, corre invece velocemente e rumorosamente il mondo là fuori e qui lascia poca traccia di quel rumore.
Quelli che io chiamo blocchi sono invece chiamati corpi dalla scarsissima segnaletica interna. Corpo A e Corpo B2, Corpo C e tutto il resto.
Dentro è un’altra cosa. Non c’è grande traffico umano in questi corridoi infiniti. Forse chi sta nelle stanze, se proprio non è costretto da una riunione che si svolge, diciamo, in D4 mentre lui è nel corpo A, non si avventura a conoscere il mondo. Però è lo stesso un’alta cosa, si respira palpabile un movimento agitato, a volte sembra furioso, si sa che dietro una porta, a volte chiusa, più spesso aperta, si prepara una riunione, si mescolano le slides, si passa da una pagina web a un’altra, si analizza e si tenta di conoscere, si briga e si fanno trame, ma non sempre è quest’ultima cosa che dico, c’è pure qualcuno che fa perché ci sono compiti veri da portare avanti e doveri da compiere e persone da valutare per il loro essere persone. Anche questo mondo scorre. In modi diversi. In modi per lo più uguali. Che così sia.
Perdersi, dunque. E ci si perde se si deve andare, mettiamo, da B2 a C, dalla stanza 1022 alla 2104 per cercare Salvatore che ha detto ieri, dopo che mi ha ospitato nel suo ufficio, quando hai un momento libero fatti vedere. Perdersi eppure ritrovarsi in questi dedali. Si deve salire al secondo piano. Ci sono le scale, da una parte e dall’altra di ogni edificio, indistinguibile il lato su cui si è, ci sono gli ascensori. Ci sono – già detto – i corridoi interni e quelli esterni, e se dagli esterni si incontrano di tanto in tanto squarci di cielo, scorci di campagna, camminando in quelli interni ci si imbatte solo, e sempre di tanto in tanto, in piccoli cortili quadrati che non avevano intenzione di essere tali, ma solo scuse per dar luce limitata e vista nulla a qualche camera. E se si è al piano terra è in questi cortili che si vedono i fumatori reietti ormai sempre più rari e i loro resti di cicche che nessuno si preoccupa di eliminare, o così sembra.
È tra il corridoio esterno e quello interno di ogni corpo e di ogni lato che ci sono le sale riunioni, i magazzini che sono sgabuzzini più grandi di quelli che così chiamiamo nelle nostre case, ma che hanno analoghi disordini, ma più specializzati, di carte o scrivanie, di materiale per le pulizie o di schermi di PC obsoleti. Ma non continuo con un elenco di cose di cui non saprei cosa dire di più. Regolarmente poi, nei passaggi trasversali tra ogni corridoio esterno e ogni corridoio interno, ci sono le indicazioni per le toilette, regolarissime. Regolarità del bisogno, perfetto servizio all’utente che in questo caso è un impiegato un dirigente un consulente un sorvegliante un ospite in visita.
Quest’ultimo meno probabile, ma può anche capitare.
Mi dicono che questo complesso enorme che sta dalle parti dell’EUR a Roma, vicino al grande raccordo anulare, vicino alla strada che va verso Fiumicino, e anche verso la Magliana, in Viale Parco de’ Medici tanto per essere precisi; mi dicono che questi edifici quadratissimi impiantati su una squadratura precisissima, con viali curatissimi, con colonnati che non sono poi un pugno nell’occhio, con i piastrelloni dei viali che sono fatti di sassetti lisci di fiume ben cementati in amalgama resistentissima, lucentissimi se c’è bella luce di sole, magari un po’ consumati dal passeggio delle pause pranzo e un po’ meno dal vagare di impiegati e ospiti che vanno alla ricerca del blocco giusto; mi dicono insomma che questi grandi cubi non terribili a vedersi, che ospitano gli uffici della Telecom, e non so di quali uffici si tratti, se solo di persone dei sistemi, dei tecnologi dell’IT o anche di utenti, di persone del marketing, di supertecnici delle reti telefoniche e di commerciali; mi dicono che questo grande quartiere impiegatizio sulla cui entrata svetta il logo orizzontale e lungo a tripla striscia ad onda angolata dell’azienda, di cui una sola è sottolineatura al suo nome; mi dicono insomma, e qui quasi sfinisco, che fosse destinato ad essere ospedale.
Se così fosse stato, immagino, i flussi di persone sarebbero stati maggiori, penso agli ospedali torinesi di cui ho qualche pratica, centinaia o migliaia di persone ogni giorno in attesa del prelievo o del risultato di un’analisi, altre centinaia o migliaia in attesa di una visita, e persone che vanno a trovare parenti, e medici e infermieri che passano da un reparto a un altro. Reparto, e non certamente corpo, non sarebbe stato opportuno chiamare così ciascun edificio, al massimo la parola adatta avrebbe potuto essere blocco. Ma io credo meglio reparti, e non blocchi. Così si sarebbero chiamati questi edifici se fossero stati ospedale. Oppure reparti appartenenti a blocchi, o reparti di grandi dimensioni che avrebbero richiesto che più blocchi servissero alle loro necessità. E quante persone sarebbero circolate tra un blocco o reparto e un altro, all’esterno? E quante vagando per i corridoi? E quante si sarebbero perdute? Come mi sono perso io, tante volte, come mi perdo tuttora, perché una mappa mentale del luogo non me la sono fatta ancora.
Perché qualcuno la mappa mentale del luogo invece se la è fatta, qualcuno se la sta facendo in ogni momento, anche in questo. E se qualcuno se la fa o se la sta facendo, allora è facile concludere che è possibile farsela. Forse anch’io una me la farò. Non so quanto tempo richiederà, non bastano certo i circa dieci giorni lavorativi passati qui, ma potrà accadere. Oggi ho fatto una prova. Parto dal corpo B2, arrivo in A non so come, e qui corridoio esterno, sbirciata attraverso qualche porta aperta, ah, sì, sono qui, si vede un ponte dei sospiri, si vede la strada da dove entro la mattina, allora è là che è il corpo C, allora vuol dire che sto costruendo a poco a poco la mia mappa del luogo. Di qua, corridoio sempre esterno, poi mi aspetto l’indicazione con freccia che mi dica che di là c’è il passaggio al corpo C, annoto nella mia mente il numero della stanza che è la più vicina al ponte dei sospiri più lungo, respiro profondamente, mi inoltro nel varco. Ci sono delle vetrature attraversate dalle travi oblique della struttura, in parte oscurate, ma grandi abbastanza per poterci guardare di sotto e di lato, si vedono le scale che servono per andare nei parcheggi sotterranei, un altro mondo dedalico che evito di immaginare. Occorre fermarsi sul ponte, almeno per un po’, per sistemare il di qua e il di là, ponte, blocco o corpo che sia e paesaggio, bandiere che sventolano da qualche parte, oggi c’è un po’ di vento – che sia il ponentino famoso? – sono quelle che ho visto stamattina, e cipressi sottili mossi dall’aria leggera stasera, poi sì, laggiù ci sono le piante, ma sono tutte uguali nei loro vasi, rotondi nel centro dei viali, sopra le grate che danno aria ai garage, sono oleandri e allori, in prevalenza, ma ci sono anche ulivi costretti e invasati, e melograni, e quelli che a Torino si chiamano alberi di Giuda, con le foglie rosso scuro da sembrare quasi nere, e di lato, accanto alle pareti, altri vasi, ma sono rettangolari, contengono piante da siepe, senza nome per me, e tutto è uguale, non questo tutto è un bel nulla e non serve a creare differenziazioni che orientino, è entropia conoscitiva, va via dalla mente, neanche si appiccica un poco. E invece cos’è che guardiamo per migliorare la localizzazione? Non so. A poco a poco il metodo verrà. Avanti, si vada avanti, e così si sbocca nell’altro blocco, e qui comincia la stessa storia. Il blocco A è di là, io sono qua, forse alla fine del passaggio devo fare il corridoio a destra, sì è così, le stanze dalla 2010 alla 2088 sono da questa parte, ma io devo andare alla 2104, e per fortuna sono sul piano giusto, il secondo, la costante del passaggio tra un corpo e un altro. Poi saprò che non sempre è così, che ci sono passaggi interiori tra B2 e D3/D4 che si svolgono senza passare per ponti, e si svolgono al primo piano soltanto.
Però: il passaggio tra un corpo e un altro è una frase che mi passa per la mente di nuovo, e mi distrae, penso alla metempsicosi che qui non c’entra. Non devo perdere il controllo. Sono sulla buona strada. Al massimo invece di fare la strada corta, girare l’angolo e dire, sono arrivato, faccio quella lunga, giro tutto il quadrato, o rettangolo che sia, del corpo C, corridoio esterno, e sono arrivato. Arrivo, quasi, sono alla 2108, sono vicino. Ecco. Salvatore sta chiudendo la porta, sta per uscire. Gli dico che sto mantenendo la promessa, è questo mio arrivo complesso la risposta al suo: non ti perdere, quando hai un momento vieni a trovarmi; e io a dire, certo che verrò. Perdendomi un poco. Ma poi si è visto, si vede ora, che non mi sono perso del tutto.
Quel che doveva succedere è successo, poche parole, un caffè, un saluto, lui torna presto a casa stasera, ma presto per qui, mi pare che siano passate le sei, da un bel po’.
E poi storia inversa, il ritorno alla stanza da dove ero partito. Non però esattamente il percorso inverso. Per poter fare così mi servirebbe molta esperienza. Ancora non c’è. Poi, e ormai è già sera, si esce. Dal corpo B2. Si fanno le scale, si guarda la lunga infilata di porte. Ormai è buio là fuori, o quasi, si vede un atrio sul fondo. Si va.
Essere fuori.
Ora guardo con molta attenzione le fughe di pareti azzurrate, le piante diverse, ognuna ha il suo nome, io ne do uno solo a poche, il ligustrum, il cipresso, oleandro e alloro e ulivi e melograni già detti, c’è lo spiazzo con aiole e panchine, le petunie, i ciclamini giganti. Ma quante altre piante sono senza nome per me, quante persone sono le une per le altre senza un nome là dentro. Dovrò imparare, dire tu sei tu, e dirne nome e cognome, e saperne il colore degli occhi, anche al buio, magari passando di notte in un corridoio, quello esterno, corpo A, sapere il nome di una pianta solo dall’odore dei fiori, senza poterla vedere perché da qui esco tardi, come stasera, che poco si vede di luce, di là, verso il mare, io credo.
E ora mi chiedo cosa sia vivere tanto tempo rinchiusi nel chiuso di stanze così uguali, là dentro. Ora che guardo da fuori. E cosa possa diventare il senso della vita. E come si adatta e cambia la mente a doversi costruire la mappa mentale di un luogo così, a codificare con prove ed errori successivi strani procedimenti per muoversi da una stanza a un’altra lontana, e a quali deformazioni o indirizzamenti nel resto dei pensieri tutto ciò porti. Non può lasciarci immodificati il luogo dove viviamo, non è la stessa cosa vivere in tanto ordinatissimo caos oppure in riconoscibilissimi disordinati viottoli di un paese. E chissà quale stranezza dell’anima procurano un anno, o due tre, passati così, a ripetersi senza pensarci, ora a destra e poi in fondo, e laggiù c’è un passaggio, sinistra, si scende o si sale, e ancora si gira all’interno e si passa sul lato più stretto, e si dice ora sono arrivato.
Io so invece – immodestia o speranza – che ancora non sono arrivato, che un po’ sempre (per sempre?) io sono per strada.