Un giro di pareri: Bagnoli, Parazzoli, Janeczek e ancora Moresco su la restaurazione.
di Jacopo Guerriero
Ieri ho pubblicato su “Liberazione” un giro di pareri che ho raccolto a riguardo del prossimo incontro organizzato da NI a Torino, durante la Fiera del Libro, presso la Sala Rossa, lunedi’ 9 maggio ore 16.30.
Buona lettura! J.G.
Il punto di vista più spiazzante è forse quello di Sante Bagnoli. Il direttore di Jaca Book, storica casa editrice milanese –in catalogo autori come Achebe, Soyinka, Lewis– che continua, tra mille sacrifici, a «fare editoria di cultura». Un’attività che dà fastidio, che incute timore. Non mancano i precedenti storici. «Ciò che ha fatto paura al colonialismo non sono state le lance africane o le frecce dei nativi nordamericani. Ciò che ha fatto paura è stato l’incontrare delle “culture”, delle convivenze tra uomini che compartiscono il mito e il simbolo, che danno un senso al territorio, che sperimentano una saggezza olistica dell’esistenza, che non accettano che il “modo” sia cancellato dallo “scopo”. Questo è quanto ha fatto paura al colonialismo e al suo figlio diretto, il liberismo. Oggi la paura di cultura è su un nuovo fronte. Tutte le culture sono a rischio di ideologia, ideologia in senso difensivo e aggressivo, come strumentazione dei rulers, dei conduttori della società, che possono clericalizzare le culture sino a produrre periodi di soprusi e violenza. Il tentativo è quello di rendere la cultura un feticcio, i rulers devono esorcizzarla, per questo le holdings entrano in editoria ».
Sono ormai accesi i riflettori sulla Fiera del Libro di Torino e riesplode, con veemenza, il dibattito sull’editoria. Ormai marketing oriented, schiava del profitto e del mercato, la denuncia di Bagnoli non è infatti isolata. Da circa un mese a questa parte il gruppo di autori che si raccoglie intorno al blog nazioneindiana.com, in rete dà vita ad un dibattito acceso che riguarda questioni analoghe. Chi è appassionato all’argomento ricorderà anche un articolo di Carla Benedetti, La fabbrica dei best-seller, uscito a gennaio su “L’espresso”. Ancora i redattori di nazione indiana, a Torino, presso la Sala Rossa del Lingotto, lunedì 9 maggio, alle ore 16.30, hanno organizzato un incontro dal minaccioso titolo La restaurazione. Il convegno fa seguito a un pezzo omonimo di Antonio Moresco in cui l’autore, peraltro, scrive:«Siamo alle prese con un’intossicazione che attraversa le strutture della vita, dell’organizzazione sociale e professionale, delle forme economico-politiche e democratiche, delle finalità scientifiche e tecnologiche. Ci sono molti che, per fortuna, non hanno nessuna difficoltà a denunciarlo ai quattro venti e anzi a fare di questa denuncia parte integrante del loro status e del loro target. Ma provate a dire che le stesse cose stanno succedendo -e non da oggi- nel campo della cultura, dell’editoria, dei giornali e allora vedrete che le stesse persone cominceranno a fare mille distinguo, vi diranno che è un’esagerazione, che siete apocalittici o addirittura vi daranno addosso. Per pigrizia, per spirito di cordata e di gruppo, per conformismo, per paura di restare isolati».
Siamo dunque destinati a morire di thriller e noir? Il genere prenderà il sopravvento oppure letteratura, poesia, filosofia, antropologia, storia, scienze sociali, religione, scienze della natura, arte, resteranno ancora nei cataloghi?
Secondo Ferruccio Parazzoli, uno dei più noti editor di Mondadori, per molti operatori dell’editoria italiana una sorta di Grande Vecchio, «gli ambiti vanno distinti. Se il tema è l’editoria non parliamo né delle sorti della narrativa né dei mutamenti della narrativa che stanno in parte avvenendo. Non parliamo di questo. Questo tema è autonomo. La narrativa va dove deve andare e cambierà se ce la farà, se la società glielo permetterà. Il punto è un altro: ci vuole un cambiamento sociale per mutare l’impatto della narrativa sul mondo.
Altro tema è l’editoria. L’editoria fa il suo mestiere. Produce una quantità di materiale deperibile ma vendibile, qualcosa di simile alle importazioni cinesi. Anche noi dobbiamo adattarci al mercato. Dire che questo mercato cancelli negli intenti degli editori la ricerca, la conferma di un certo livello narrativo (di medio alto livello) è sbagliato. Non è vero che gli editori non abbiano attenzione per le novità , non parlo di sperimentalismi (cosa diversa), parlo di mutamenti reali della narrativa ai quali gli editori sono invece estremamente attenti. E’ chiaro che, come Mondadori, non posso pubblicare tutto. Ma non mancano i coraggiosi. Vorrei ricordare che tra qualche giorno Sironi manderà in libreria Perceber di Leonardo Colombati, un volume dalla mole impressionante che è una vera e propria estremizzazione della ricerca. E’ un segnale molto positivo, tuttavia, che questa operazione venga compiuta da un editore che non ha pretese di mercato».
Ma se il gatto si morde la coda? Ovvero, se sono proprio le holdings a generare la crisi delle piccole case editrici?
«Il mercato è il mercato ed è fatto anche di distribuzione e vendita –risponde ancora Parazzoli-. Chi vuol fare l’editore deve coprire il circolo completo. Certo poi è vero che oggi la catena di Feltrinelli –ma è solo un esempio- prende e distribuisce e mette in mostra e vende quello che decide. Però questo è un aspetto in cui già la figura dell’editor c’entra marginalmente. Sinceramente questa è una polemica che io non vedo molto. Bisognerebbe tornare a letteratura contro industria…roba vecchia».
Ancora un altro punto di vista è quello di Helena Janeczek, scrittrice che da dieci anni a questa parte svolge anche attività editoriale. «Nella mia esperienza in editoria, ovviamente, non ho trovato meravigliosi tutti i libri a cui ho lavorato. Ma il fenomeno va visto nella sua complessità. Da un lato c’è da considerare che lo svuotamento intellettuale di realtà editoriali importanti ha lasciato spazi vuoti poi coperti da piccoli editori. Mi piace sempre parlare, per esempio, del catalogo di Frassinelli, che è pieno di libri importanti. D’altro canto non va dimenticato nemmeno che anche le holdings producono editoria di progetto, è il caso di Mondadori con la collana “Strade Blu”. Certo esiste un problema-editoria. Che è di distribuzione –non è soddisfacente pensare che anche libri veramente innovativi vengano prodotti per poi restare quasi invisibili- ma anche di pubblico, o, più in generale, di contingenza. L’editore deve sempre fare i conti con la situazione presente e con le persone cui si rivolge».
Quello che appare certo –quasi paradossalmente- è dunque che il libro ha ancora molto da dire. Solo il libro può salvare il libro. Se non diventa il fine ma il mezzo, il mezzo principe dell’educazione nel consorzio sociale, contestatore del feticcio talk show e di un provincialismo sempre arrembante. Al riguardo l’internazionalizzazione dell’editoria, da questo punto di vista, può essere più un pungolo e uno stimolo che un problema. Può forse essere un segnale positivo il recente passaggio di Teresa Cremisi alla guida di RCS dopo il lavoro con Flammarion, in Francia. Se il libro ha un futuro –che non va compromesso- è innanzitutto alla ricerca dalla sua origine: la trasmissione del sapere dei popoli, il racconto e la comunicazione tradizionale tra gli uomini.
PICCOLE CASE EDITRICI CRESCONO
Una nuova
casa editrice
non farebbe
che pompare
vieppiù
il soufflé
della giovane
editoria
bisognoso
piuttosto
di uno
sfiatatoio
Anche l’amico
più caro
e inoffensivo
(in apparenza)
può ormai
un giorno
farci sobbalzare
mentre magari
stiamo prendendo
un caffè
confessandoci
(proprio adesso
che i libri
sono sempre
più inflazionati
e vivono
– se vivono –
soltanto
lo spazio
di un mattino):
ho fondato
una nuova
casa editrice»
o (peggio ancora)
“una casa
editrice
alternativa”.
Ma che cosa
credono
di fare?
Un gesto
carico
di segreta
sacralità,
che attesti
la loro presenza
nel mondo?
Credono
– fondando una casa
editrice –
di esistere di più
o di esistere
veramente?
In realtà
chi fonda case
editrici
– ammonisce
Karl Kraus –
lo fa soltanto
perché
non trova
la forza
di non farlo:-)
senza il riferimento a karl kraus sarebbe stato solo l’ultimo respiro di un moribondo
In realtà citavo Frassinelli come esempio problematico. Dopo esser stata storicamente una casa editrice importante, F. si trova ora nella parte del “imprint” più letterario di Sperling & Kupfer. Ma non è questo il punto. Il fatto sconcertante è vedere quali e quanti libri buoni, anzi autori importanti pubblicano (due premi Nobel: Toni Morrisson e Elfriede Jelinek; scrittori considerati fra i massimi nei loro rispettivi paesi come l’australiano David Malouf, l’inglese David Mitchell, Ljudmilla Ulickaja, Nurredin Farah, Meir Shalev a altri ancora), ma che cio nonostante il catalogo Frassinelli non viene percepito come catalogo importante, anzi in assoluto come catalogo.
La cosa presenta due facce: da un lato questi libri CI SONO e quando dell’uno o l’altro viene segnalata l’esistenza -“Repubblica” sabato dedicava un paginone a “Legami” del somalo Nurredin Farah- possono uscire dal mucchio e raggiungere i loro lettori. Dall’altro è un incubo intitolato “sognavo che facevo editoria di progetto e nessuno se ne accorgeva”.
Se Adelphi pubblica “La lettera d’amore” o “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”, se Feltrinelli promuove via campagna pubblicitaria Saatchi&Saatchi “La Mennullara” e si butta su Moccia e simili, nessuno pensa che non si tratta più di una casa editrice letteraria. Frassinelli è il caso opposto: un editore che, se una vaga immagine ce l’ha, resta identificato con la produzione commerciale.
Solo per dire che per fare in maniera soddisfacente un’editoria di progetto, non basta pubblicare buoni libri e buoni autori.
Per Frassinelli (= per Busi, = collana Classici Classici) ho tradotto “L’angelo della tempesta (Villette)” di Charlotte Brontë, ma anche “Morte di un re del tango” di Charyn, a esemplificare il suo bene e il suo male:-/