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Restaurazione, repressione, marginalizzazione…

di Beppe Sebaste

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Lo scorso febbraio ero intervenuto on line nello strano dibattito che, chissà perché, dopo la denuncia di Carla Benedetti del tentato “genocidio culturale” in atto da parte dell’industria editoriale (non solo nella produzione dei titoli, quelli che ingombrano l’accesso alle librerie, ma anche nella distribuzione, che discrimina piccole librerie e piccole case editrici sempre meno visibili), aveva virato sulla questione della “cultura popolare”. Il dibattito non era tuttavia privo di passioni, e già questo, in Italia, è degno di nota.

Ora, il dibattito seguito all’articolo sulla “restaurazione” di Antonio Moresco, che scopro essere l’input a una manifestazione di parola alla fiera del libro di Torino, se naturalmente mi trova d’accordo con lui e Carla Benedetti quanto al situarmi, mi vede perplesso sull’uso di certe parole. Per esempio, “restaurazione”.

Il fatto è che (è quasi banale dirlo) si parla di restaurazione quando qualcosa di rivoluzionario arretra e cede, perde posizione, quando “l’orologio della storia va all’indietro” (come si diceva a scuola retoricamente a proposito della restaurazione dell’“ancien régime”); e mi accade allora lo stesso di quando una volta si parlava di “riflusso”: l’idea cioè che devo essermi perso la spinta “rivoluzionaria”, l’andare in avanti. E quindi: restaurazione rispetto a quale innovazione, a quale “rivoluzione”? Gli autori citati da Moresco, i suoi “esempi”, mi suonano forse anche per questo fuori contesto, privi di quel senso trainante di utopia (o di programma) che hanno i riferimenti che invitano all’azione o al risveglio. Pur essendo, o immaginando di essere, d’accordo con lui, il suo discorso non mi offre “prese”. Per questo abbandonerei questa parola (“restaurazione”). Meglio parlare direttamente di genocidio, o di messa al bando, o di un (vertiginosamente accresciuto) impoverimento: sapendo che ogni impoverimento sul piano del linguaggio è sempre impoverimento dell’esistenza, della vita di ognuno, della sua possibilità di vivere e riconoscere esperienze. Ed è di questo che si parla anche quando si parla di letteratura.

La situazione presente è nota: al restringersi di linguaggi che non siano quelli omologati e “performativi”, manageriali o d’intrattenimento glamour, al sostituirsi di quella che una volta era la politica, intesa come aggregazione di umani che scelgono insieme degli stili di vita e altri ne rifutano, con una competizione di “governo” privata di programmi (di stili di vita, orizzonti, valori ecc.), corrisponde anche un’occupazione di prodotti ipervisibili, in senso televisivo, dello “spazio della letteratura”. Chiamo “spazio letterario” quello spazio fisico e mentale, fatto di desideri, progetti, utopie, linguaggi, su cui occorrerebbe, con calma, davvero soffermarsi: perché non fare un dibattito su questo tema, con questo titolo? (Sì, lo so che la formula era di Maurice Blanchot, identificato ahimè in un monumento letterario che non fa paura a nessuno; ma se si leggono gli scritti “politici” – volantini, giornali ecc. – di Maurice Blanchot editi da poco da Cronopio col titolo Nostra compagna clandestina, ci si accorge come sia stato tradito e disinnescato dai suoi lettori ed esegeti, che lo hanno ridotto al mormorio ininterrotto e iperletterario dei suoi libri più celebri).

L’omologazione è tuttavia un problema non nuovo, per quanto accresciuto dal nuovo potere pubblicitario. La diagnosi, che ormai mi si incolla alla bocca a furia di ripeterla, è la perpetua e voluta confusione tra ciò che ha successo (cioè qualcosa che si constata) e ciò che ha qualità e valore (che è qualcosa che si giudica). L’eclissi della facoltà di giudizio (di critica) è tutt’uno col predominio della constatazione di un successo, che richiede ben pochi sforzi cognitivi. Ovviamente tutto questo non c’entra nulla con la categoria storico-letteraria (De Sanctis-Croce-Gramsci) di “popolare”, cui aveva alluso Edoardo Sanguineti, e altri con lui. L’ovvietà che cultura sia tutto, anche le sorelle Lecciso, omette il compito di valorizzare e scegliere da che parte stare, e mette il catalogo dell’esistente sullo stesso nastro scorrevole, come in una fabbrica, o come un certo significato di “post-moderno”. E se il mondo e il tempo in cui viviamo non si incontrano colla ricerca di valori, anche linguistici, che orientano certe opere – opere a loro volta concepite per rendere la vita un po’ meno esposta alla banalità, alla noia e alla barbarie – non vuol dire che tali sperimentazioni minoritarie siano da accantonare, ma al contrario che siano da intensificare. Sarebbe come se l’assenza di referenti dovesse far desistere le religioni o le utopie, e non invece sottolineare la loro potenza critica nei confronti della cosiddetta “realtà”. Questo per quando riguarda i conflitti.

La prudenza viceversa nei confronti della merce più venduta (il “popolare”) si confonde nell’apologia del “comune sentire” che sta oggi riabilitando sia la difesa a oltranza delle “opinioni” (il sillogismo di Galli Della Loggia per difendere Oriana Fallaci: “se vende tanto vuol dire che ha ragione”), sia l’attacco ai giudici da parte della destra più estrema (vi ricordate? le sentenze devono essere “popolari”). E’ inquietante una così sfacciata apologia del consenso, del successo, dello “spirito del tempo”. Possibile che anche nel campo di chi sperimenta linguaggi, di chi racconta “storie”, si rischi questa deriva?

Tornando alla “restaurazione”, o repressione, a me pare però che essa prosegua quanto in corso da parecchio tempo. Ciò che in politica fu detto la rivolta dei ricchi contro i poveri (dallo scrittore Max Frisch), occupa ogni sfera della vita, anche e soprattutto la semiosfera. Sia nella politica che nella cultura, un’opposizione vera dovrebbe contestare il criterio stesso della valorizzazione; per esempio, contestare la ricchezza piuttosto che rivendicarla; o contestare il “berlusconismo” non perché non sia riuscito a realizzare il suo programma, ma in nome di un programma qualitativamente diverso (e sì, anche rilanciare la “povertà” come valore, riparlare di consumi e di stili di vita). Nella letteratura, quindi, non si tratta di sostituirsi a Faletti e a Dan Brown, perché un diverso modo di concepire il linguaggio e la narratività (o la poesia) non può non accompagnarsi a un diverso modo della loro ricezione, e quindi a una diversa modalità di quello che significa essere lettori (o fruitori) di un libro. Per questo mi dà sconforto sentir ripetere anche da parte di amici e scrittori l’invito tra il malinconico e l’ironico a non occuparsi di politica (Filippo La Porta), quando non esiste discorso, o desiderio, che non si incontri colla politicità dell’esistenza.

Al restringimento degli spazi di parola, alla loro curvatura, all’imposizione di un vettore unico di senso, in questi anni ho reagito scrivendo sulla nuova Unità, oltre a continuare a scrivere cose che diventano libri. Non voglio che suoni moralistico, ma mi piacerebbe che ognuno pensasse a quello che, nel proprio fare, nel proprio ambito di azione e di vita, contrasta contro questa repressione, o censura, o come la chiamate voi “restaurazione”. Molti voi, di noi, scrivono su giornali (quali? con quale target, in quale mescolanza di linguaggi?), lavorano nelle case editrici, queste ultime difficilmente innocenti, se è vero che ancora oggi si selezionano i libri da pubblicare per confermare le collane, e non viceversa. (E sto parlando di letteratura, cioè di qualcosa che deve sempre andare un po’ oltre gli orizzonti di attesa dei lettori, non confermarli, come fa il presunto “popolare”). Oppure lavoriamo in scuole e università, luoghi dove ormai occorre pesare, letteralmente (e non nel senso del “saggiatore” di Galileo), i libri da far leggere agli studenti, perché il sistema dei “crediti” e dei “debiti” didattici investe ormai il numero delle pagine da apprendere, e l’unico criterio vigente è quello quantitativo. Altro che lotta contro la semplificazione, altro che difesa della complessità, o “appello contro la guerra all’intelligenza”, come mesi fa in Francia. In Italia, più che altrove, l’arretramento è tale che viene da pensare che dopo il divieto della fecondazione eterologa e la chiusura delle frontiere, possa seguire una messa al bando di qualunque comportamento o gioco linguistico anomalo o suscettibile di seminare perplessità, cioè pensiero. Insomma, la parola genocidio non mi sembra davvero esagerata. Solo, ripeto, non penso che si tratti di restaurazione, ma di onda lunga, tsunami di un processo avviato da molto tempo.

Mi viene in mente che, quando ero molto giovane e pieno di energia, avevo fatto una casa editrice (si chiamava Aelia Laelia) per pubblicare libri felicemente belli e impubblicabili, incollocabili (uscirono tra l’altro le ultime poesie di Amelia Rosselli, e il poema, l’unico edito, di Patrizia Vicinelli). Lo dico perché all’epoca per me erano scontati la frattura e il conflitto tra l’establishment editoriale e le cose vive della letteratura. Si viveva in una zona di affermatività, di sperimentazione di linguaggi e forme di vita. Erano gli anni in cui la musica si divideva tra quella che riproduceva e confermava “il rumore del tempo di lavoro” (l’alienazione) e quella che, il tempo, lo “liberava”. Che cosa ha fatto sì che si perdesse di mente, che si dimenticasse tale conflittualità? Che cosa (ci) ha fuorviato tanto da far sì che oggi ci si esprima su una “restaurazione”? Quando è cominciata – non la “restaurazione” -– ma la normalizzazione che ha sradicato quei campi di esperienze? Forse, con l’illusione di qualcuno di avere avuto successo. Forse, con il mischiarsi di tanti nelle mediatizzazione, che non è mai neutrale né innocente. Allora, forse, “restaurazione” è il nome appropriato per dire l’illusione da parte di alcuni che, negli anni scorsi (quali?), si fosse annullata o sospesa la conflittualità, la “marginalizzazione” della letteratura e della ricerca di forme di linguaggio, di vita, di espressione. Insomma, la grande e brutale semplificazione.

E’ vero, oggi tutto questo appare più grave, più compiuto, più chiuso. Con lo stesso senso claustrofobizzante di chiusura, di mondo piatto, pre-galieliano, che danno la globalizzazione e un certo uso del post-moderno (in larga parte ormai sinonimi). In un’epoca in cui un ministro dell’istruzione propone di leggere i giornali in classe piuttosto che Dante (parlo di Luigi Berlinguer, non Letizia Moratti), come stupirsi della penuria di parole, e quindi di esperienze e di sogni? Il senso dell’esilio è talmente connaturato alla vita quotidiana, che la Tv traduce perfettamente le ombre della caverna di Platone, e chi scrive qualcosa di diverso si sente ai margini come un alieno. Del resto, vi ricordate il grande Moloch di cui parlavano Kerouac, Ginsberg, ecc.? Ovviamente è sempre lì, pronto a fagocitare, annullare, assimilare. E ho già ricordato altrove di quando anni fa nella vetrina a Parigi della stilista Sonia Rykiel vidi campeggiare copie di No logo di Naomi Klein, incorporata alla pubblicità del proprio marchio. E tuttavia è proprio per inventare linguaggi altri, storie altre, affermazioni diverse (di natura, non di grado) dall’impasto mediatico che ci circonda e inghiotte (la “semiosfera” di cui parlava decenni fa Roland Barthes), che continuiamo a fare, pensare, leggere arte e “letteratura” – storie, libri, frasi. Non per inseguire astrattamente “verità” e “bellezza”, ma per almeno un po’ abitarle. Per disegnare mondi. Ancora una volta, credo che la fame di luoghi, di spazi in cui tutto questo sia visibile e vivibile, il bisogno di esperienze condivise, sia l’esigenza sottintesa alla denuncia di qualsiasi “genocidio culturale”.

P.S. Dopo aver scritto questo pezzo, sul sito di Loredana Lipperini, ho letto un suo invito – o sfida – a dare una definizione di ”letteratura”, compito impossibile, dice, senza cadere nella dogmaticità. Da allievo di Luciano Anceschi, non oserei mai racchiudere in una definizione checchessia. Eppure non mi è difficile rispondere col criterio che adotto per conservare i libri a casa (sempre troppi): conservare solo quelli che, anche virtualmente, anche solo per un vago fantasma di possibilità, potrei rileggere (senza parlare di quelli che non ho ancora letto). E’ facile accorgersi che gran parte dei romanzi (chissà perché quasi tutti italiani e americani) cadono fuori di questo raggio, best seller compresi. Non so se sia una definizione di letteratura, ma di certo esclude quei libri che hanno fatto anche trascorrere del tempo piacevolmente, ma sono soltanto oggetti di consumo, e altamente deperibili. D’altra parte, mi sembra di andare incontro così alla definizione che delle poesie diede una volta Ezra Pound: “news che restano tali anche dopo averle lette”.

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37 Commenti

  1. Intervento lucido, semplice e chiaro. Partite da qui, a Torino, più che da “La Restaurazione”.
    Grazie Sebaste.

  2. Beppe Sebaste dichiara di essere “perplesso” sull’uso, oggi, della parola (è anche un concetto) “restaurazione”, anche se poi si contraddice scrivendo che il termine “restaurazione o repressione” è “in corso da parecchio tempo”. E dice che preferirebbe parlare di “genocidio”, “messa al bando”, “impoverimento” (culturali, of course). Ora, questi termini “altenativi” mi paiono solo indicare aspetti parziali del fenomeno, fanno cioè parte del problema ma non sono la sua soluzione. Sul fatto però che un fenomeno negativo sia comunque in corso mi paiono concordare in molti. La divergenza, dunque, riguarda l’analisi di detto fenomeno. Volendo, si potrebbe allora passare dall’uso del temine “restaurazione” a quello di riflusso, prendendolo a prestito dalla dinamica dei liquidi. Ma anche su questo termine Sebaste è perplesso. Però io trovo che riflusso sia meno impositivo o marcato politicamente, e spiegherebbe meglio il fatto che il riflusso è un ritorno indietro rispetto a certa situazione politica, economica o culturale non necessariamente rivoluzionaria, ma “semplicemente” ed effettivamente riformista, e sarebbe imparentato con i corsi e ricorsi di vichiana memoria e la ripetizione della storia (anche intesa marxianamente come ripetizione in farsa di ciò che era tragedia). In ogni caso, a livello fenomenico, credo che due recenti avvenimenti, il Berlusconi bis in politica e l’elezione a papa di Ratzinger in ambito ecclesiastico, pongano dei seri problemi a chi è contrario ad accettare l’idea di una restaurazione o un riflusso in corso. Inoltre, sul piano culturale e letterario non credo possa darsi un riflusso se un processo analogo non è in atto, parallelemente e contemporaneamente, anche in altri ambiti storici del fare umano come l’economia e la politica. E per l’appunto negli ultimi decenni in campo economico abbiamo assistito al riflusso dal keynesismo e dal welfare state alle politiche liberiste otto-novecentesche del laissez faire e al mercato unico (che non erano niente di rivoluzionario ma solo riformiste). In questo caso il riflusso non si configura come fedele e meccanica riproposizione delle politiche economiche liberiste, ma quelle sono state integrate dalla specificità innovativa di fase (nuove tecnologie, nuova geografia politica, nuovo colonialsimo ecc.) della globalizzazione neoliberista. Inoltre, sul piano sociale e lavorativo, la perdita di diritti e garanzie del lavoratore, le “nuove” figure del lavoro minorile a livello mondiale, i nuovi schiavi, i nuovi impoverimenti indicano insieme un riflusso a scenari ottocenteschi (annullando in buona parte le conquiste del moderno o tardo-moderno novecentesco) e una situazione di relativa novità legata alla fase capitalistica attuale. Ragionando in termini-mondo, questo riflusso è fenomeno prettamente europeo e nordamericano, che si esprime con le nuove guerre di conquista per impadronirsi delle nuove vie della seta (un simbolo per tutti: la Bush dynasty). L’Africa è drammaticamente fuori-gioco, ma in America Latina gli avvenimenti da dieci anni a questa parte del Chiapas, dell’Argentina, del Venezuela, della Bolivia e, in questi giorni, dell’Ecuador ci dicono che lì il riflusso è al contrario un flusso di nuove proposte politiche e sociali. Un altro esempio di riflusso lo abbiamo nella divisione e spezzettamento di quello che veniva chiamato il movimento di movimenti che, dopo i fatti di Genova e la guerra in Irak, non ha retto all’impatto e in molti sono rifluiti alle proprie parrocchie o ai nuovi partiti. Quindi, mi sembra che i sintomi della Chose (riflusso o restaurazione) siano ben visibili, si tratterebbe adesso di definirla, anche (e non solo) in ambito letterario.

  3. Il 23 Aprile 2005, organizzato dall’associazione Tentacolo Art / Campi Sociali, è in programma a Bazzano, (BO) il primo INDIPENDENT PRESS FEST. Interverranno Le case editrici clandestine o indipendenti ASSCULTPRESS, da Pistoia, IFIGLIBELLI di Roma e la SMITH & LAFORGUE, padrona di casa. L’evento è un’occasione per far incontrare e al tempo stesso divulgare una forma di sopravvivenza della letteratura che con l’avvento di Internet ha permesso alle persone di trovarsi con più facilità, ai contatti di rendersi raggiungibili, agli eventi di essere pianificati su larga scala senza bisogno di muoversi. Le case editrici indipendenti o clandestine si collocano nell’underground e tengono letture in tutte le parti d’italia, si scambiano libri, li stampano, li regalano, ma soprattuto: li pubblicano. Le forme del linguaggio più recenti e innovative, da sempre sbarrate dalla diga dell’editoria ufficiale che le blocca in partenza in favore di sempre più assillanti logiche di mercato che devono corrispondere al gradimento della massa, (purtroppo sempre più spesso indentificata con il pubblico televisivo), ora trovano sbocco nelle pubblicazioni clandestine, sempre più curate, sempre più diffuse, che hanno cominciato a sviluppare numeri, per ciò che riguarda la poesia, che s’equivalgono se non addirittura superano quelle della vendita delle poesie in italia da parte dell’editoria ufficiale. L’Indipendent Press fest vuole far incontrare e mettere a confronto realtà differenti che nel corso di questi anni sono cresciute da sole, trovando modi sempre differenti per aggirare le evidenti difficoltà dovute dalla scarsezza dei mezzi, ma hanno investito sulle idee e sui poeti, hanno tenuto e stanno tutto’ora tenendo reading un po’ dappertutto, enoteche, campi di grano, pub fumosi, arci, centri sociali, teatri, librerie, corti medioevali, concerti rock, ville dell’appenino, avvolte dalla nebbia. Ci sarà la possibilità di ascoltare letture dal vivo, di capire le possibilità di diffusione se si decide di affidarsi ad una casa editrice clandestina o indipendente, di capire come farsi i libri da soli (è previsto un intervento di manifattura nel corso della serata) come farsi una casa editrice propria, o solamente bere del vino o addormentarsi sul divano. Va da sé che se pensate di venire e chiedere che se pubblicando con la Smith & Laforgue i libri finiranno da Feltrinelli sarà meglio che optiate per la riviera, per trascorrore magari un weekend al sole, poiché perdereste il vostro tempo, mica per altro. Se invece scrivete per la scrittura, detestate le file e i tempi lunghi, la burocrazia e i salotti letterari, potete venire a dare un’occhiata. Vi vogliamo.

    http://smithandlaforgue.splinder.com
    Info: smith_laforgue@yahoo.it

  4. per correttezza, mosca, io non sono legata a quelle case editrici autonome, né il post parte da loro. Io ne stimo il lavoro, e credo che farne girare i link sia importante, anche nella non appartenenza, e lì, di mediocrità ce n’è poca, cosa che non direi nel tuo commento ;-)))))

  5. di cosa state parlando? di foto o di case editrici o dei cazzi vostri? sembra radio radicale aperta al delirio di chiunque… il genocidio di cui parlano carla benedetti e beppe sebaste sembra compiersi anche qui. quella di sebaste è un’analisi lucida sulla situazione della cultura nel nostro paese. da commentare senza buttarci dentro anche il giudizio sui libri che ha scritto (che sono un’altra cosa e che a me peraltro sono piaciuti molto). insomma, apriamo gli occhi su quello che ci circonda e riguarda e facciamo un dibattito sensato. e vero

  6. direi che l’articolo è di tale densità e compiutezza che la mosca ne resta scamazzata per gravità non appena vi si accosta – fra l’altro non punge nemmeno, infastidisce solo con l’insistenza e la dappocaggine

  7. > L’omologazione è tuttavia un problema non nuovo, per quanto accresciuto dal nuovo potere pubblicitario.

    Già, ma d’altra parte, grazie ad Internet, la “semiosfera” sta conoscendo anche una straordinaria esplosione di bio-diversità. Perché allora vi ossessiona tanto il potere pubblicitario? E perché riservate la discussione autentica ai vostri convegni – certo non accessibili a tutti – e snobbate visibilmente, con mezzi tecnici ed “engagement” chiaramente inadeguati, questo mezzo di confronto, tanto più democratico ed egualitario?
    E perché nella vostra “controcultura” replicate così fedelmente i meccanismi di esclusione e distinzione tipici di quello stesso “sistema” che, con posa tanto nobile, contestate?
    Rifiutate con sdegno qualsiasi oggettivazione sociologica, affettando sempre il più aristocratico dei “disinteressi”, e vorreste al tempo stesso far credere che i “valori linguistici” – di vostra pertinenza, assumano automaticamente le più essenziali valenze sociali, e che dunque tutti quanti dovrebbero sorbirsi, con la massima attenzione, le “narrative” della vostra parrocchia, anche quando dichiaratamente “stravolgenti”, quasi fossero l’unico antidoto alla “banalità, alla noia e alla barbarie”? Ed in base a quali auto-attribuzioni parlate sempre a nome dell’intera “letteratura”? Insomma, io sarò soltanto un “dilettante”, però il livello intellettuale della vostra impresa non mi sembra adeguato alle vostre continue auto-congratulazioni, che mi ricordano a volte il “multilevel marketing”.

  8. salve. ho visitato il sito di elio-c (come ti chiami, esattamente?), e mi interessa molto. grazie del suo commento, anche. e grazie a tutti i commenti. mi rincresce solo l’uso dell’anonimato (ma è una vecchia questione che non scopro certo io). come scrive cherubino, sì, sarebbe bello un dibattito serio, o almeno vero. buon 25 aprile, beppe s.

  9. Buon 25 aprile anche a te e grazie della visita, caro Beppe. Confido anch’io che la discussione possa prender quota superando il minuetto delle “articolesse” che rispondono sempre alle stesse domande prefabbricate (distinzioni sui termini, microrotture e microriconciliazioni, riepilogazioni infinite delle stesse cose). Io comunque le mie osservazioni le faccio a scopo “edificante”, non distruttivo. Anzi il fatto stesso che hai risposto (cosa inattesa) mi fa persino pentire di avere usato dei toni un po’ insolenti. Sono proprio come l’uomo del sottosuolo:
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    Ma lo sapete, signori, in che consisteva il punto fondamentale della mia cattiveria? Proprio lì stava tutto il nocciolo, proprio lì era racchiusa l’infamia peggiore: che in ogni momento, perfino nel momento della rabbia più accesa, vergognosamente riconoscevo dentro di me che non solo non ero un uomo cattivo, ma neppure ero inasprito, che spaventavo soltanto inutilmente i passeri e così mi consolavo. Ho la schiuma alla bocca, ma portatemi un bambolotto, datemi una tazza di tè con un po’ di zucchero, e magari mi calmerò. Anzi, il mio animo s’intenerirà, anche se poi`, probabilmente, digrignerò i denti contro me stesso e per la vergogna soffrirò d’insonnia per diversi mesi. Ormai ci ho fatto l’abitudine.
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    Elio Copetti

  10. Elio Copetti forse non si rende conto che Nazione Indiana è fatta da scrittori tradotti in mezzo mondo, che scrivono qui senza alcun compenso per un senso di impegno culturale e civile, e che non hanno alcun bisogno di farsi pubblicità. Evidentemente il mondo del marketing è penetrato talmente nella sua testa da considerare qualsiasi mossa come una questione di autopromozione. Non ce la fa, è più forte di lui riuscire a immaginare battaglie culturali al di fuori dell’autopromozione. Forse non gli è chiaro che tutto questo è fatto per volontariato e senso dell’impegno. Questo spazio aperto anche per lui, dove anche lui può venire a mettere le sue critichine lo deve a Nazione Indiana. Dove sono le congratulazioni reciproche? In Nazione Indiana non si recensiscono i numerosi libri pubblicati dai membri di questa rivista, come invece fanno pressochè tutti gli altri autori in rete (basta fare un giro), e come fa Copetti stesso che si autocongratula mettendo in rete le proprie opere artistiche. Quali sarebbero i mezzi tecnici chiaramente inadeguati? Si propone di pagarli Copetti, quelli più potenti? E quale sarebbe la misura dell’engagement insufficiente? E’ insufficiente perchè i membri di Nazione Indiana non rispondono ogni giorno alle sue critiche faziose, inesatte e chiaramente maldisposte? Alle sue analisi farneticanti? Chi altri organizza, in Italia, convegni, incontri, letture, pagando di tasca propria come quelli al Teatro i? Adesso un incontro alla Fiera del Libro è diventato una cosa elitaria? Bisogna inventarsi l’ubiquità, altrimenti fare le cose a Torino significa essere antidemocratici verso Trieste Pescara Imola e Reggio Calabria? Ma di che vaneggia quest’uomo? Va tuttavia apprezzata la sua sincerità: è un uomo da tè e biscottini, lo dice lui stesso. Le polemiche culturali e l’impegno civile non sa che cosa siano.

  11. Al cinghialetto Sebaste non piace la letteratura americana, chissà perché. Forse perché gli americani sanno “narrare”, se ne fottono delle fumisteria della lingua, sono spesso veri romanzieri e veri narratori, scrivono cose che restano, al contrario dei libri del cinghialetto che invece spariscono appena pubblicati come scorregge!

  12. Chissà cosa succede nella mente, o anche negli occhi, di un lettore costretto da ciò che sta leggendo a constatare l’inadeguatezza della propria intelligenza. Possibile che una scelta importante come quella del silenzio debba essere ormai vissuta allo stesso modo di un dramma esistenziale? E possibile che ai tanti un tempo capaci di tale scelta debbano oggi sostituirsi i tanti capaci solo di esprimere sguaiataggini? E possibile che a nessuno di essi venga il sospetto di essere al centro del discorso che, a modo loro, stanno contestando? L’uso dissennato di una lingua non è sempre sintomo di libertà culturale. Anzi, spesso è proprio da qui che una civiltà comincia a decadere.
    p.s.
    Essendo il suo editore, posso testimoniare che i libri di Sebaste vanno piuttosto bene.

  13. Caro “Zorro”, quando si passa agli insulti bisognerebbe almeno avere la decenza di togliersi la maschera. Tra l’altro, tu sei l’idiota che mi ripete sempre le stesse stupide formule, risparmiatele, ed ignorami: tu non mi interessi, e io non scrivo certo ogni giorno su Nazione Indiana, solo quando ne ho voglia. Quanto alle mie analisi, non è certo da un “piccolo fan” come te, totalmente ingenuo, che mi attenda qualunque sorta di “legittimazione”.

  14. non capisco tanto accanimento contro Sebaste. Non sarà un genio, d’accordo, è uno scrittore di modeste risorse, d’accordo, è legato a una concezione della letteratura vecchia di 30-40 anni (parla ancora di sanguineti e compagnia cantante), ma in Italia e in questo stesso sito ce ne sono molti altri di scrittori mediocri come lui e come lui antiquati e reazionari. Secondo me il cinghialetto andrebbe lasciato in pace, non fatene per favore un capro espiatorio. D’accordo lui incarna bene la restaurazione, ma ripeto ce ne sono molti altri…

  15. Eh già, non dovevo lasciarmi trascinare a mia volta nell’insulto. Ma diopoi, vengo qui ad esercitarmi al burdivista dilettante [ma Bourdieu non è dei “vostri”, in teoria?] con tutta la fallibilità ed autoironia di questo mondo, squadernando, attraverso il link al mio blog, tutti i miei “piani” reconditi e la loro genealogia, affinché anche questi possano essere “colpiti” con il massimo agio ed il più implacabile rigore. Ci gioco la faccia, accetto il rischio del ridicolo (altissimo, nella “pretenziosità” dell’outsider) e mi appresto, rendendomi antipatico, ad essere aspramente redarguito – però “nel merito” – da dei “veri” intellettuali … ed invece … invece mi ritrovo tra i piedi soltanto queste risposte da [lasciamo perdere]?
    Comunque, dato che non riesco a convincervi della mia “buona fede”, del carattere di radicale sperimentalità (fino all’autolesionismo) della mia “azione”, ci rinuncio. Nazione Indiana sembra attualmente uno dei posti più interessanti della semiosfera (locale), ma tuttavia non mi soddisfa, e mi ingegnavo quindi a “stilettarlo” proprio nei punti dai quali vorrei veder sgorgare un poco di sangue, e non certo per uccidere la bestia, un piccolo salasso usualmente è benefico, se l’animale è sano.
    Si trattava forse di un insulto? Oh menti raffinate, si trattava al contrario – implicitamente – di una attestazione di profonda considerazione: cercavo di iniettare una piccola dose di “mezzo di contrasto” dentro ad un “gioco” che supponevo di una qualche rilevanza culturale, così da poterlo osservare, soltanto un pochino, “in trasparenza”. Ed invece culturale non sembra proprio essere (almeno qui – al convegno non so): sarà forse anche lodevole, darà una prospettiva ai giovani, tutto quello che volete, ma si tratta di un’imitazione superficiale della cultura, di una “vulgata” – interessata o meno che sia. Mi dispiace, voi non fate certo nulla di male, con naturalezza incosciente e, suppongo, del tutto innocente, vi “appropriate” dello “status quo” quando vi sta bene e adoperate l’occhio acutissimo della critica soltanto sugli ostacoli che si frappongono al vostro sacrosanto cammino. Tutto normale, normalissimo: è così che gira il mondo! Vabbé, createvi un partito, così vi daranno anche i soldi. That’s all, folks.

  16. Ma c’è qualcuno che possa o voglia entrare nel merito delle cose che scrive Sebaste, e prima di lui Moresco Benedetti Caliceti eccetera, insomma il “dibattito”? A Vanni Prudente: che Sebaste sia antiquato e reazionario perché cita Sanguineti fa ridere. E allora Sanguineti cos’è? Ma oltre a sputare sentenze senza argomenti, qualcuno li legge i libri, e se sì, perché li legge? Per dire cazzate contro gli autori? Non parlo della mosca, che chissà in che trip infelice si trova, sembra proprio una mosca impazzita, ma lo ha letto il Vanni Prudente quello che ha scritto Giuseppe Genna su Sebaste (www.miserabili.com?). Ma chi cazzo di gente frequenta questo sito?

  17. Il testo di Sebaste è importante e andrebbe discusso riga per riga, ma qui e altrove nessuno ha mai tempo per niente. Dico una cosina solo su questa faccenda dello scrivere romanzi o comunque libri che gli editori classificano come romanzi. A me pare già un modo di partecipare alla restaurazione e dei romanzi pubblicati in questi anni non sono riuscito a finirne uno, figuriamoci se mi metto il problema di rileggerli. Certe volte penso che chi sente veramente lo sfinimento in cui siamo caduti, non ci pensa neppure a scrivere un romanzo e forse non pensa neppure a scrivere un libro. Gli accadrà semplicemente di scrivere, di abitare in questa curiosa ossessione di salvarsi dal tempo che passa passando il tempo a rovinarsi la vita scrivendo.

  18. Arminio, uno che non sa leggere e (quindi) che non sa scrivere. In poche parole: un ignorante mezzo sfinito, per dirla con parole sue.

  19. Mamma mia, che gioco al massacro… Ci si chiede da dove viene l’urgenza di scrivere parole inutili, insulti, giudizi sommari (come questo berti). O come quello che dice che Sebaste è rimasto alla letteratura di venti e trent’anni fa, come se fosse un insulto, anzi come se parlasse di una hit parade da discoteca, o come se scrivere fosse legato al tempo o alla durata o alle mode (a me piace la letteratura di qualche secolo fa, nuovissima rispetto al “nuovo” che c’è in giro). Mamma mia che ignoranza desolante…

  20. O mio prode Cherubino
    se ti rode il sederino
    gratta gratta il tuo buchino

    Le menate sulla lingua
    Di Sebaste il cinghialetto
    le buttiamo sotto al letto

    Gli Arbasini e i Sanguineti
    Lor figlioli e nipotini
    Ci hanno rotto i maroncini

  21. Grazie a Sebaste per il bel pezzo. E grazie anche perché mi ha fatto leggere, pubblicandolo, un libretto dinoccolato e felicemente distruttivo come “Le birre sonnambule” di Marco Papa!

  22. Le Birre sonnambule dell’immenso Marco Papa sono state ristampate? Che bella notizia. E dove e quando? Ricordo che dopo la prima, semiclandestina, uscita presso Aelia Lelia, le proposi a Theoria, che le ripunnlicò nell’87. E ora, dove le posso ritrovare? Bravo Sebaste, quel libro è un piccolo capolavoro.

  23. In che senso, Mosca? non capisco. Di granitico ho proprio poco. Piuttosto, leggiti questo bellissimo libro di Marco Papa, uno scrittore eccezionale.

  24. “Immenso, bellissimo, eccezionale…” Vacci piano con gli aggettivi, Lodoli! Non ti sembra di esagerare?

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