Prefazione alla Gara poetica presso il fiume Mimosuso di Saigyô
di Fujiwara no Shunzei
traduzione di Andrea Raos
Per quanto riguarda i costumi del nostro Paese dove il giunco cresce rigoglioso [i.e. il Giappone], dato che i canti della baia di Naniwa [i.e. la poesia in giapponese] sono un mezzo per consolare il cuore degli uomini, è probabile che chiunque sia in grado di comporne uno. Tuttavia, quanto allo stabilire con chiarezza quale poesia sia buona, quale cattiva, né io né nessuno è in grado di dirlo.
Eccone il motivo. Tralascerò la Raccolta di diecimila foglie, composta all’epoca in cui la Capitale era a Nara la verdeggiante [non dopo il 759 d.C.], perché quest’opera è antica e difficilmente imitabile dai cuori degli uomini di oggi. Dopo di essa, viene però la Raccolta di poesie antiche e moderne [completata nel 905], compilata da Ki no Tsurayuki, Ôshikôchi no Mitsune e altri, che può essere considerata con il più grande rispetto come il fondamento della nostra poesia. In questa raccolta, le poesie sono paragonate a una donna in un dipinto, al profumo dei fiori secchi, agli abiti [troppo] lussuosi di un commerciante od al riposo di un contadino all’ombra dei rami fioriti. Se si riflette su questi diversi motivi, è probabile che le poesie non fossero distinte sulla base delle diverse forme, ma [[scelte se erano buone sotto l’uno o l’altro di questi aspetti]]. Dopo questo periodo, il Gran Cancelliere del Quarto Viale, Kintô, chiarì numerose vie possibili alla poesia e – sia ordinando delle gare di poesia in quindici turni sia mettendo in competizione trentasei poeti -, stabilì i nove gradi della poesia in giapponese. Queste poesie sono tratte per la maggior parte dalla Raccolta di poesie antiche e moderne e alcune vi sono classificate come “grado superiore maggiore”, altre come “grado inferiore minore”. Certo, una tale classificazione non è del tutto convincente, ma siccome è stata concepita da un maggiore, è al di là delle mie capacità di comprensione. E quanto agli uomini di oggi, sono ben lontano dal capire quale poesia sia buona, quale cattiva.
Gare di poesia sembra che ce ne siano state sin dai tempi più antichi; sarà dunque semplicemente che non furono tramandate sino a noi? A partire dall’epoca di Teiji [l’imperatore Uda, 867-931, in carica dall’887 all’897], invece, furono messe per iscritto, ma talora non si indicava il vincente ed il perdente, talora li si indicava, ma senza redigere i verbali [che giustificavano le decisioni]. A partire dalla Gara di poesia dell’era Tentoku dell’epoca dell’imperatore Murakami [926-967, in carica dal 946 al 967], si cominciò a mettere per iscritto i dettagli degli arbitraggi; da allora, a partire dalle epoche Eishô [1046-1053] e Jôryaku [1077-1081], [non solo nelle gare di poesia ufficiali ma anche] nelle gare di poesia private, divenne normale indicare il vincitore ed il perdente e redigere verbali. E dunque, che si celebrino i voti presi in un tempio [buddhista] o che si ordinino in turni delle poesie per invocare la protezione della divinità di un santuario [shintoista], da lungo tempo ormai si aggiungono degli arbitraggi – e ciò sino a me, povero, stupido vecchio, che seguendo da vicino, malgrado la mia insufficiente comprensione, le tracce degli antichi, di questi arbitraggi credo di poter dire che ne ho redatti in gran numero.
Se penso che i maestri ormai scomparsi di quest’arte mi guardano, mi viene da sprofondare dalla vergogna. Più ancora, che io mi trovi sotto lo sguardo benevolente degli dei, prima fra tutti la dea di Sumiyoshi [divinità protettrice della poesia], è arrecare un disturbo per il quale non mi scuserò mai abbastanza. Inoltre, dato che ormai entro nell’estrema vecchiaia, dimentico la sera ciò che ho visto al mattino, ciò su cui ho riflettuto la sera disteso sulla mia stuoia imbottita, lo dimentico all’alba, la testa contro il cuscino. Di conseguenza, ho un bel leggere ed ascoltare le poesie tramandate in esempio dai tempi antichi, come anche quelle di oggi – non una parola me ne resta. Da qualche tempo, avevo dunque espresso un voto molto rigido, di non occuparmi più di tutto ciò; ma sono in relazione con Saigyô [1118-1190] da quando eravamo ragazzi ed abbiamo così tessuto un legame fra noi che durerà anche nella nostra prossima vita. All’approssimarsi della vecchiaia, lui ha abbandonato i fiumi e le montagne [i.e. la vita mondana], ma non posso in alcun modo dimenticare l’affetto che ci lega. In più, questa non è una gara di poesia condotta secondo le regole mondane ma che al contrario ha un obiettivo ben preciso; è per questo che, benché abbia dimenticato ogni regola, vi apporrò le mie insensate osservazioni.
Tuttavia, in questa occasione c’è un pensiero triste che non mi abbandona mai e che non posso tenere per me. Molto tempo fa, a partire dalle ere Tenjô [1131-1132] e Chôshô [1132-1135], mi impegnai sulla Via della poesia seguendone le tradizioni, e coloro che talora si rifugiavano all’ombra dei fiori sul monte Hakoya, così come coloro che mi ero abituato a vedere alla luce della luna al di sopra delle nuvole [i.e. la Corte imperiale], tutti ormai sono solo un sogno del passato – in un mondo siffatto, ancora mischiato all’esistenza benché abbia abbandonato le mondanità e mi sia fatto monaco, a questo interminabile scritto che qui prolungo aggiungo, accanto alla mia porta di giunco, la rugiada delle mie lacrime, alle mie maniche la schiuma del mio pianto; così se, col favore di un vento sollevato dalla divinità che qui non oso nominare, queste parole, sparpagliate come alghe in preda alle onde, sulla riva del fiume Mimosuso cadessero all’ombra delle striscioline votive legate ai rami dell’albero della saggezza, potrà forse accadere che anche uno solo dei monaci di qui si commuova di fronte all’entità del mio sgomento?
[Ho presentato per la prima volta questo testo in una traduzione italiana – parziale e in più punti gravemente scorretta – apparsa in Ákusma. Forme della poesia contemporanea, Fossombrone, Metauro, 2001. Ho poi corretto il tiro con una traduzione francese, integrale ed ampiamente commentata, inclusa nel primo volume della mia tesi di dottorato, Forme et histoire : les “concours individuels de poèmes” (jikaawase) à l’époque du Nouveau recueil de poèmes anciens et modernes, Paris, INALCO, 2004, vol. 1, p. 7-36. Propongo ora un secondo tentativo di versione italiana.
Nei tre casi, mi sono quasi sempre attenuto al testo apparso in Inoue Muneo (a cura di), Chûsei waka-shû [Raccolte poetiche medievali], Shinpen Nihon Koten Bungaku Zenshû, vol. 49, Tokyo, Shôgakkan, 2000, p. 18-24.
La suddivisione in paragrafi è mia. La frase fra doppie parentesi quadre è di difficile interpretazione, a causa forse di una corruzione testuale.
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Sono anni che leggo e rileggo questo scritto di Shunzei (1114-1204), composto nel 1187. Continua a sembrarmi, oltre a mille altre cose, una riflessione di una rara pertinenza sulle modalità, i limiti, i rischi della produzione letteraria, nonché sui rapporti mai semplici, mai univoci fra “individuale” e “collettivo”, “pubblico” e “privato”. a.r.]
Innanzitutto il testo mi sembra bello. È banale, lo so, ma è la prima cosa che mi viene in mente.
Poi, rileggendo, ho l’impressione di avere a che fare con una meditazione profonda e umanissima sui limiti dell’arte (della poesia) e su quanto di inesorabile c’è nella vita (e nella morte).