Singoli, gruppi, relazioni, lotta
di Giuseppe Caliceti
Cara Carla Benedetti,
ti ringrazio per la lettera: per il tono in cui l’hai scritta e per quello che hai scritto. Ti dico quello che mi illudo di aver capito e cosa ne penso. In modo grossolano. Chiedendoti scusa anticipatamente perché la voglia di scrivere subito mi ha dato fretta e ho risposto proprio frettolosamente, scrivendo le prime cose che mi venivano in mente: d’altra parte il bello di scrivere in rete invece che su un libro è anche questo modo di scrivere qui, no?
1. Tu dici rivolgendoti a me: “Se dici che viviamo in un’epoca in cui la letteratura e la cultura sono marginali, hai già dato una descrizione non conflittuale della situazione in cui ci troviamo e la riconosci come necessaria, non modificabile. Invece dire “restaurazione” ti fa apparire improvvisamente l’esistenza di forze antagoniste”. Rispondo: sulla prima affermazione, ripeto che per me non è come tu dici; sulla seconda: secondo me esistevano forze antagoniste anche senza una descrizione dell’epoca come “Restaurazione”. A me la descrizione dell’epoca come “Restaurazione” mi pare invece abbastanza ingenua. In questo mondo per combattere occorre che io dichiari guerra? Chi lo ha detto? Io non sono un eroe. Però io so che combatterò e farò del mio meglio. E questo è tutto. Almeno al momento.
2. Tu dici: “Fa parte della restaurazione in corso la pretesa che non esista più il conflitto“. E’ vero, ma dire che “lo scrittore e la letteratura oggi sono in un ruolo di marginalità”, ripeto, non credo che voglia dire automaticamente negare un conflitto in corso, che io non ho mai negato. Anche se forse la parola “conflitto” non è la parola che preferisco. E non è solo per una questione lessicale o per mancanza di coraggio.
3. Anche su chi sta combattendo questo conflitto mi accorgo di avere idee più sfumate o forse solo più confuse delle tue: non credo infatti esistano da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, da una parte gli oggetti e dall’altra i soggetti, da una parte la macchina editoriale pura e dall’altra quella dello scrittore puro, ma mi pare che ci sia una collusione (pericolosa finchè vuoi), ma per me c’è, sia dentro che fuori il singolo individuo e la singola macchina; mi pare cioè che per esempio la Macchina Editoriale sia fatta anche di tanti scrittori, che non tendo a considerare tutti “collaborazionisti”. L’ho già scritto, per me questo è il mondo delle “relazioni” tra oggetto e soggetto, non dell’oggetto o del soggetto.
4. Sono preoccupato anche io, come te, della “normalizzazione delle forme di espressione che oggi si sta producendo a livello planetario” e nel mio piccolo reagisco scrivendo i miei libri come li scrivo.
5. Ti seguo quando parli del postmoderno e delle sue conseguenze, faccio più fatica a seguirti quando parli della neoavanguardia. Ha avuto tanti limiti, ma secondo me, per me, tu un po’ tu esageri. L’idea di letteratura di molti di loro che tu riporti, mi pare sia ferma a quella che scrivevano e dicevano almeno trenta o quaranta anni fa: non tutti sono morti giovani e alcuni, anche se a qualcuno può sembrare strano, invecchiando hanno detto e scritto anche cose diverse da quelle che dici tu e che dicevano. Per dieci anni ho avuto la possibilità di conoscere con tranquillità alcuni di loro e ti giuro che è così: altro che letteratura come “pratica morta” o “arte da museo” o “divulgazione militante della fine dell’arte”. Insomma, non tutti si sono suicidati a vent’anni. Né fisicamente né artisticamente. Anche alcuni che magari l’hanno proclamato.
6. Anche io penso che “con il postmoderno la rinuncia a un’idea ‘forte’ di letteratura è diventata del tutto pacifica, solo appena venata di un’ironica malinconia, o di un euforico cinsimo”, anche se non posso fare a meno che notare come spesso il Mercato Editoriale Postmoderno (scusami, per un attimo chiamiamolo così….), faccia subdolamente leva commerciale proprio su “un’idea forte” di letteratura, alle volte condizionando gli stessi scrittori almeno quando propugna “un’idea di pensiero o di letteratura debole”. Pensa per esempio a alcuni poeti della cosiddetta Parola Innamorata e alla loro idea-forte di Poesia. A volte simil-D’Annunaziana. Ti convince più della poesia degli ultimi vent’anni di Sanguineti o Pagliarani? Insomma, bisogna stare attenti alle sirene postmoderne da qualsiasi parte provengano. Proprio per la loro “postmodernità”. O no?
7. A proposito della mia parola “serenamente”. A un certo punto tu dici: “Sarebbe come dire che gli iracheni devono accettare serenamente l’occupazione U.S.A perché l’impero è più forte”. Mi accorgo che la leggi come un’accettazione supina allo status quo. E se poi la associo a un’idea di “marginalità” commetto quasi peccato. Cerco di spiegarmi. Intanto bisogna prendere atto che gli U.S.A. sono più forti degli iracheni. Serenamente. Perché quello è il punto di partenza, per me. E questo non significa che io giustifico l’occupazione. Né che la giustifichi serenamente. Semplicemente quel “serenamente” per me è la presa di coscienza di un punto di partenza da cui poi si può iniziare a pensarla e a combattere come si vuole. Ma solo dopo aver preso coscienza delle forze in campo. Altrimenti io temo che anche la Reazione, o movimento di Contro-Restaurazione, chiamalo come vuoi, rischi di partire o essere partito col piede sbagliato.
8. Per concludere, faccio partecipe te, gli altri idiani e i loro lettori di alcune sensazioni che ho avuto leggendo in questi mesi Nazione Indiana con più frequenza. Faccio la mia impura e frettolosa lettura, insomma. Allora. Da una parte mi sembra emerga la voglia di “fare gruppo”, nella consapevolezza che l’unione può fare alle volte anche la forza, o una forza maggiore; dall’altra c’è il mito duro a morire, per me romantico, della solitudine e dello splendido isolamento dello scrittore, del critico o dell’intellettuale. Non è facile dibattersi tra questi due poli di attrazione, che mostrano entrambi opportunità e fatiche. E che non sono per me inconciliabili, beninteso. Non credo neppure che i “gruppi”, specie quelli letterari, in passato siano stati tutti “positivi”, né “unitari”. Anzi, di solito il giudizio che si fa è proprio l’opposto: qualsiasi gruppo, anche “letterario”, è preso come una insidia per lo spirito libero (si presume) dello scrittore, una sorta di recinto, una inetta mediazione, una mezza mafietta, una scocciatura, una maledizione, una sottocultura, una roba da politicante trasformista o giù di lì. Spesso anche da chi vi partecipa o vi ha partecipato. Giuro. Nonostante questo, in Nazione Indiana, che per me è un gruppo di rete, ultimamente c’è questa tentazione di essere ancora di più gruppo, e per me questa è una gran bella cosa. Anche se molto difficile, se molto delicata. Sarò pessimista, ma credo che scrittori, critici e intellettuali siano le persone meno adatte a fare gruppo. E senza dubbio ci dovranno essere dei motivi, se questo continua a risultare così difficile in tutte le epoche. Caratteriali, forse. Poetiche. Ma non solo. Tuttavia, io continuo a ritenere che i giovani scrittori delle ultime generazioni – e sia chiaro, non parlo né di te né di Moresco – rischino di peccare di “individualismo” o comunque abbiano una certa difficoltà “a fare gruppo” ancora più di quelli che sono venuti prima di loro. Dirò di più: la mia sensazione è che non ne siano veramente interessati. Il gruppo non è visto come un luogo di crescita salutare. E l’idea che la creatività e anche la conoscenza si sviluppi meglio insieme, nel confronto e nel dialogo, invece che da soli, non è poi così “artisticamente” accattivante. Altrimenti l’avrebbero già fatto o comunque sarebbe più facile per loro provare a farne. Il gruppo è
una faticaccia, diciamo la verità. Per esempio si “consuma” un sacco di tempo a dover ascoltare gli altri, a dover farci i conti, a far i conti con i nostri limiti e i limiti degli altri, coi loro e nostri fraintendimenti quotidiani. Possibile che chi ha ricevuto (quasi) in dono una sorta di missione (quasi) debba perdere tempo così? Infatti il gruppo spaventa. Eccome. Niente gruppi. Questo non credo gioverà alla maggioranza dei giovani e giovanissimi scrittori. Neppure alla loro idea di influire sulla famosa “macchina editoriale”. Neppure sulla letteratura e la cultura di questo Paese, credo. Oppure, come sempre capita, a un certo punto ne salterà fuori uno che riscatterà tutti gli altri. Questa è la leggenda. Ma io faccio sempre più fatica a crederci. E mi interessa sempre meno.
P.S. Naturalmente spero vivamente di sbagliarmi.
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LA CAPANNA DELLO ZIO TONI (Moresco)
Se la ricetta per contrastare la RESTAURAZIONE è quella di produrre libri che facciano al nemico più danno di una guerra persa, non c’è bisogno di scervellarsi tanto. Basta riadattare ai tempi nuovi la vecchia, gloriosa ‘Capanna dello zio Tom’, con Antonio Moresco al posto dello zio Tom. Potremmo intitolare il nuovo romanzo: ‘La capanna dello zio Toni’. Ecco una possibile trama:
Lo zio Toni è una vittima della Restaurazione che serve fedelmente la famiglia Rizzoli. Per un improvviso dissesto finanziario del suo padrone, Toni deve abbandonare moglie e figli perché venduto a Giulio Mozzi, un losco trafficanti di autori alternativi.
Insieme ad altri nove compagni viene imbarcato su un battello diretto a Sud (quello dell’articolo di Saviano). Qui fa amicizia con Caliceta, una bambina molto malata, figlia di un ricco piantatore di berganotti. La bimba convince il padre ad acquistare Toni per il quale c’è finalmente un periodo di pace presso la casa del nuovo padrone “buono”.
Dopo la morte della bambina e di suo padre il saggio autore viene venduto all’asta e cade nelle mani di Berlusconi, un piantatore perfido, amorale e liftingato. Costui, per un futile motivo, lo fa frustare a morte e l’arrivo del figlio del suo ex buon padrone, che giunge con l’intento di riscattarlo, non cambia la situazione: egli riesce solamente a sentire le ultime parole di Toni che, nonostante il male ricevuto, perdona i suoi aguzzini. Il suo padrone, molto scosso dall’accaduto, decide di cambiare vita e libera tutti i suoi autori.
Scusa, Carla, più di te – o forse come te, perchè so che ne hai fatto uno simile – un po’ di anni fa, “col mio corpo” – wow! – da sola, ho fatto un gesto che suscitò un “forte scalpore”. Diciamo, un “Alt al mercato delle recensioni!”, per dirla dickensianamente? Ho identificato a mio modo un problema reale, e amio modo gli ho dato una risposta. Io non lo rimpango quel gesto – non penso di aver sbagliato a farlo – e credo che mi abbia fatto crescere. Però, ci sono state persone che non mi hanno più salutato, persone che mi hanno dato della matta, persone che hanno in tutti modi sminuito il mio lavoro. E’ durato anni. E’ finita? Non lo so. So che io me ne fotto. So che in quegli anni ho studiato, ho imparato “a fottermene”. Ma non giriamo in tondo. C’è chi le situazioni ha voglia di prenderle “di petto” e chi no. E io non mi sento di dare del vigliacco o di “quello che non capisce” a chi non abbia voglia di affrontare una strada tutta in salita per ottenere dei risultati “minimi”. Roba che viene equivocata, tu che vieni data in pasto ai giornali. No, io la penso come te su certe cose, ma non me la sento ripeto di dare del vigliacco a chi è più realista di me. Poi, magari chi ha dato a me della matta nel ’93 adesso fa “l’ubriacone” , o la “depressa”, o non sa che scrivere, ma io capisco che non abbia voglia di “scendere in campo”. Angela Scarparo
..su una cosa sono d’accordo con te. In campana! E’ una guerra vera!
Le guerre si possono soltanto perdere.
E pure le guerriglie.
Insomma,mi par di capire che gli abitanti della Nazione Indiana hanno scoperto che in corso c’è un conflitto (e altrove delle guerre)e che stanno dissotterrando il tomawak e sotterrando il calumet della pace. Personalmente non posso che rallegrarmi per questa presa di coscienza di una situazione oggettiva (che mi auguro continui più a lungo dei giorni del Salone torinese). Voglio solo ricordare che gli indiani d’America, ahimè, hanno perso oltre un secolo fa la loro guerra (drammaticamente reale, non virtuale), sperando che questa memoria storica li aiuti nelle strategie che metteranno a punto. Quanto poi, rivolgendomi a Caliceti, a constatare serenamente che i nordamericani sono più forti degli iracheni, io non ne sarei mica tanto sicuro. Sul piano militare astratto erano più forti anche dei vietnamiti, ma a vincere non sono stati i primi. E questa valga come osservazione “serena”, se così posso dire.
a volte – vedi gli indiani – le guerre le si perdono perchè ci si comporta con coerenza e onestamente. ma si rimane “nella storia” – sempre gli indiani – come il simbolo di qualcosa di buono, no Marco?
Caraarla, immagino che tu guardi anche di là, dalla Lippa, e però anche per concludere un po’ alemno epr oggi questo discorso sulla “conflittualità” te lo posto.
Questo “gioco” non è divertente.
Pensiamo alla “buona letteratura” piuttosto, (Taylor, Yehoshua, Dickens, Bowen…per me, in questo momento). Articoliamo dei discorsi su di essa, storicizziamo gli autori, parleremo di politica, senza cadere sempre nell’isterismo del “E’ tutta colpa di Berlusconi!”. Scriviamo – se ci riesce – “bei romanzi”. Un discorso sensato sulla letteratura sarà giocoforza anche un discorso sul potere, sui legami di potere, sui soldi, sulla corruzione, sull’amore, sulla “fanfaronaggine”, sulla debolezza, sui ricchi, sui poveri. Poi, se quando pubblichiamo il libro, abbiamo ancora l’età perchè qualcuno ci dica – maschio o femmina, è uguale -, “Sai come vanno le cose no? sei tu che non ti sai muovere! Vedi dove vuoi arrivare e decidi! Tu puoi decidere il destino del tuo libro…”. Lì, vedremo che fare. Però dovremo saperlo che anche se tutti dicono “Quella persona ha fatto sempre così, lo sanno tutti!”, ci sarà sempre qualcuno che dalla televisione griderà in casa vostra, “Questa/o signora/e è volgare! Questa/o volgare signora/e sta solo cercando di farsi pubblicità!”. E qualche altro che dalla carta stampata scriverà, “Questa/o signora/e non esiste!”. Starà a noi, se farne un libro dell’esperienza passata, rinchiuderci in noi stessi/e, farla finita o dire, “ma sì, ce’è tempo per farla finita! D’ora in avanti sai che c’è? Cerco di prendermela comoda!” Certo, se quanto ti succede hai da pochissimo superato i trenta, è dura. Ma se uno/a vuol fare lo scrittore/ice certe cose deve saperle no? Se no, perchè non fa l’avvocato/a?
datemi retta, liberatevi dei narcisi Moresco e Benedetti!
Premetto che se le mail dei due interlocutori sottostanti non si negassero a ricevere messaggi, non avrei postato qui questo post, col rischio di beccarmi i rimbrotti di Governi o rimpirlo di refusi à la Angelini.
Per Carla Benedetti.
Continuo a non capire (forse mi sono perso qualche puntata di post) il rapporto che fai o che vedi tra neoavanguardia e postmoderno. Ma questo è a sua volta marginale rispetto alla confusione che è sorta nel dibattito tra letteratura (e arte) ed etica (comportamenti, ruoli, ecc.) dello scrittore e/o dell’intellettuale. Non c’è niente da fare: il mezzo condiziona lo stile, oltre la forma mentis, e nel mio caso devo ancora abituarmi alla diversità di scrittura che impone un blog, un post. Comunque, se di emarginazione è lecito (e meglio) parlare rispetto alla staticità del fenomeno “marginalità”, allora la prossima mossa dovrebbe essere quella di re-interrogarci sul mandato e sul ruolo dello scrittore, ossia re-imPOSTare il tutto, magari ricordando anche posizioni troppo frettolosamente liquidate nell’era (spirituale) del postmoderno come quelle di Fortini (mi scuso con gli allergici). E tenere ben presenti i confini tra letterario ed extraletterario, ossia la specificità e la non-correlazione tra l’oggetto letteratura e il soggetto scrittore. Perché a mio avviso non si fanno passi avanti nel dibattito ricorrendo a metafore macchinistiche o ad allegorie sul funzionamento della macchina (il macchinismo lasciamolo al secolo in cui è sorto, ossia al Settecento).
Per Andrea Inglese..
Sono almeno tre decenni che quando si parla di marginalità (o meglio di emarginazione) saltano fuori i nomi di Emilio Villa o di Cacciatore. Li facevano tempo fa i romani (Filippo Bettini e quelli di “Quaderni di critica”), poi li ri-fecero quelli del Gruppo 93, sempre con un tono un po’ carbonaro, da commemorazione dei martiri. E adeso sono rispuntati su NI. Ma l’emarginazione, come processo culturale e politico messo in atto dalla
cultura dominante, in Italia sta tutta lì? Se non ricordo male Cacciatore doveva entrare, e a pieno diritto aggiungo io, nell’antologia I Novissmi, ma all’ultimo momento venne escluso. Se ciò è vero, si apre un
ulteriore scenario che indica come anche tra chi lottava contro l’emerginazione per affermarsi giocava un potere di esclusione non meno forte di quello dominante. Non solo, ma anni fa un piccolo editore (Manni) ha cercato di rimediare a siffatta emarginazione, e perfino il
Corriere si era scomodato a recensire positivamente il libro, quindi anche ai marginali i media, benché tardivamente, sono disponibili a conferire una laurea
honoris causa. Il che ci dice che la natura, le dinamiche, le “facce” del potere culturale dominante non sono così semplici da decifrare, e che bisogna mettere in campo elementi analitici che vadano al di là della semplice denuncia.