Io e le macchine
di giuliomozzi
Bartolomeo Di Monaco, in un commento all’intervento di Antonio Moresco Cosa è successo nel frattempo?, scrive:
Allora si dovrebbe fare una sola cosa, che richiede coraggio, perseveranza e sacrificio, anche economico.
Moresco, Scarpa, Benedetti, Montanari, e altri che frequentano N.I, anche Mozzi, che già sta facendo cose egregie in Sironi, se la sentono di mettere fuori un po’ di soldi, sottraendoli allo stipendio del proprio lavoro (immagino che siano impiegati da qualche parte; non credo vivano col ricavato dei propri libri) e fondare una Casa editrice che realizzi il loro progetto?
Per fare questo devono essere consapevoli:
– che lavoreranno, forse per sempre, in perdita,
– che dovranno terribilmente organizzarsi per sfondare sulla distribuzione;
– che il loro sacrificio di tempo e di denaro dovrà resistere alle difficoltà di ogni tipo e protrarsi negli anni.
A una proposta come questa io rispondo: sì.
Poi propongo alcune varianti:
(a) metter su una casa editrice “tradizionale”, cioè che faccia i suoi libri, li mandi in libreria, eccetera;
(b) metter su una casa editrice “non tradizionale”, che cioè faccia i suoi libri ma non li mandi in libreria e li distribuisca invece attraverso canali alternativi (la rete, ovviamente; e poi altri sistemi da inventare) (vedi l’osservazione di Lucio Angelini nello stesso gruppo di commenti citato prima);
(c) non metter su una casa editrice e trovare un accordo con una casa editrice già esistente e operante (accordo che può avere le forme più diverse: ad esempio potrebbe prevedere o non prevedere una partecipazione economica o un ingresso nella compagine societaria; potrebbe toccare tutta l’attività della casa editrice o limitarsi a una specifica collana ecc.);
(d) non metter su una casa editrice e inventare un modo per “sponsorizzare” pubblicamente (non con semplici recensioni in Nazione indiana, ma con altri mezzi più vistosi) libri che sembrino degni di attenzione;
(e) ecc.
Avviare un’iniziativa di questo genere, ovviamente, comporta una parziale accettazione del mondo. Non posso fare (a) senza accettare almeno parzialmente il mercato e le regole che esso impone. Non posso fare (b) senza accettare, almeno come punto di partenza, una condizione marginale. Non posso fare (c) senza accettare di convivere, giorno per giorno, con un’azienda che ha per suo fine, magari non esclusivo, il profitto. Non posso fare (d) senza accettare di fare solo un lavoro sull’esistente. Ecc.
Io oggi lavoro per una casa editrice. Questa casa editrice ha come suo fine il profitto. La cosa mi è molto chiara. Mi è molto chiaro che se la casa editrice riterrà, a un certo punto, che il mio lavoro non porti un decente profitto, il mio lavoro finirà. Mi è molto chiaro che, se il mio lavoro porterà alla casa editrice un decente profitto, il mio lavoro continuerà. Mi è molto chiaro che ci sono buoni libri che non portano profitto e buoni libri che portano profitto. Mi è molto chiaro che, una volta pubblicato un libro, riuscirò a promuoverlo, e quindi a farlo effettivamente leggere, solo se troverò delle alleanze. Mi è molto chiaro che le alleanze sono di diversi tipi: ci sono alleanze che si fondano solo sul libero giudizio, altre che si fondano sull’interesse, e altre che si fondano su un giudizio non del tutto libero e su un interesse non del tutto determinante.
No, caro Antonio, non ti oppongo (come tu hai scritto) “le inesorabili necessità della macchina”. Né mi sono sognato di sostenere che “il nostro compito di scrittori si dovrebbe esaurire nel dire che le cose stanno così e che quindi ci dobbiamo adattare a mangiare per sempre questa minestra così com’è”. Se conosci parole mie (queste che ho citate sono tue) in cui io dica questo, ti prego di citarle.
Ma certo esiste una scelta iniziale: stare, o non stare nella “macchina”. Io ho deciso di stare nella “macchina”, confidando che ciò che in questo modo produrrò di buono (buoni libri pubblicati, buone parole che circolano) sarà, una volta fatte tutte le somme algebriche, di più di tutto ciò che in questo modo produrrò di cattivo (consenso, anche solo passivo, allo status quo). Esiste un modo di stare nella “macchina” senza lavorare anche, oggettivamente, al di là di ogni intenzione e di ogni buona volontà, per la prosperità della “macchina”? Io credo di no. Le “singole persone che lavorano anche all’interno della grande editoria e dei giornali e della nuova frontiera in rete animate da un diverso atteggiamento e da una vera passione”, che tu ricordi di aver citate, sono, mi pare, persone che lavorano per la prosperità della “macchina”, e che ne hanno ben chiare le “necessità”: che talvolta appaiono “inesorabili” (e talvolta lo sono davvero, e talvolta no).
Io sospetto, caro Antonio, cara Carla, che queste persone (io sono una di quelle, spero) abbiano potuto agire, e abbiano trovato un senso al loro agire, anche perché questo loro agire è marginale. Il che non comporta che queste persone abbiano “un’idea rinunciataria e immiserita della letteratura e della cultura” (parole di Carla). Certo (ancora parole di Carla): “le macchine di potere dispiegate nella nostra epoca stanno cercando di inculcare negli stessi scrittori” un’idea “debole, immiserita, depotenziata” “della letteratura e della cultura”. Questo significa che con “la macchina” di cui tu parli, Antonio, o “le macchine” di cui tu parli, Carla (che non sono esattamente la stessa cosa, lo so), non si deve averci che fare, mai? Che non si deve mai approfittare (opportunisticamente o strategicamente) degli spazi che esse comunque lasciano più o meno sgombri, delle occasioni più o meno ambigue che offrono, dei compromessi possibili, delle ambiguità praticabili? Che non dobbiamo mai accettare “quel tanto” (e le scrivo con un certo orrore, queste due parole: “quel tanto”) di strumentalizzazione che subiamo quando cogliamo l’occasione di strumentalizzare le “macchine” a nostra volta? Che non si deve mai dissimulare?
D’altra parte, io vorrei anche confrontarmi con degli scenari (come si diceva una volta) comprensibili. Massimo Adinolfi, dice quello che intendo dire meglio di come io lo saprei dire, qui:
Ci sarà pure un clima di restaurazione, una cappa pesante e un’aria irrespirabile; mettete però un po’ di date: quando è cominciato e quanto è destinato a durare? Mi fate capire se è per voi un fenomeno epocale, oppure quinquennale, decennale, secolare? Mi pare importante: per la corretta diagnosi e per le opportuna contromisure. Ho infatti l’impressione (ma posso sbagliarmi) che in sede di diagnosi il fenomeno appaia gigantesco, ma che in sede di prognosi non si vada al di là di punzecchiature di penna. Se è gigantesco, le punzecchiature non bastano (e ha ragione Caliceti a parlare di marginalità, che non c’entra nulla con la rassegnazione: mi pare solo più coerente), e se non sono mere punzecchiature, è perché il fenomeno non è gigantesco (oppure: i fenomeni giganteschi sono altri).
Alla prossima.
[Se qualcuno ha qualcosa da aggiungere, può farlo qui, senza passare per l’archivio dei mesi.]
Tutti pensano che le cose urgenti o importanti da dire (nel senso della RIFORMA/RIVOLUZIONE in quanto opposte alla RESTAURAZIONE) debbano avere ciascuna la durata di un libro (200 o più pagine). E se bastassero testi più brevi? E se il genere letterario per eccellenza della nostra epoca fosse l’articoletto da home-page o il post da niusgruppo? Be’, in tal caso saremmo a cavallo, ragazzi. Nazione Indiana esiste già. La produzione è varia e ricca. Gli articoletti si susseguono a ritmo infernale. Non ci sono problemi di distribuzione o di prenotazione libraria. C’è financo uno spazio interattivo di prima accoglienza per il tanto bistrattato SOTTOBOSCO LETTERARIO (i cosiddetti rompicoglioni). Insomma MUCH ADO ABOUT NOTHING. Sarebbe giù tutto in piedi. Se solo si potesse eliminare quella piattola di Angelini:-)
Giulio, tu chiedi se “Esiste un modo di stare nella “macchina” senza lavorare anche, oggettivamente, al di là di ogni intenzione e di ogni buona volontà, per la prosperità della “macchina”?
La mia risposta è Sì.
Tu chiedi se “con “la macchina” non si deve averci che fare, mai? Che non si deve mai approfittare (opportunisticamente o strategicamente) degli spazi che esse comunque lasciano più o meno sgombri, delle occasioni più o meno ambigue che offrono, dei compromessi possibili, delle ambiguità praticabili?”
La mia risposta è:
Tengo ogni quindici giorni una rubrica di libri sll'”Espresso” e insegno all’università. Approfitto dunque degli spazi che un settimanale e un’istituzione pubblica mi concedono per parlare e esprimere qualcosa. Lo faccio con ambiguità? Giudica tu!
Tutto dipende, Giulio, da cosa ci scrivi dentro a quegli spazi, da cosa racconti agli studenti, e da cosa metti nei libri.
Non ho invece mai messo su una casa editrice. Ma io credo che anche in questo campo si possano fare cose belle e importanti, senza che i compromessi (talvolta inevitabili) arrivino a chiuderti la bocca e a vanificare il tuo progetto.
Un po’ di coraggio, Giulio!
E meno sensi di colpa!
Con tanti auguri per il tuo lavoro editoriale
Carla
Cara Carla: ma io non ho nessun senso di colpa. Tu dici: “Tutto dipende da cosa ci scrivi dentro a quegli spazi”. No, non tutto. Qualcosa dipenderà, immagino, dal fatto che l’Espresso è un settimanale fatto così e cosà; e che, scrivendoci dentro, tu lavori per la prosperità di un settimanale fatto così e cosà. E qualcosa dipenderà, immagino, dal fatto che l’Espresso “ti concede” (parole tue) uno spazio: ciò che hai “in concessione” non è tuo, è di chi te lo concede, e se può essere in una certa misura impiegato per i tuoi scopi, sarà pur sempre in una certa misura destinato agli scopi di chi te lo concede.
L’ambiguità è qui. E, secondo me, tu fai benissimo ad agire in questa ambiguità, nella quale agisco anch’io.
Mi piacerebbe se si riuscisse a parlare della “positività” del compromesso.
Carla, scusami se ti do del tu. Spero che me lo permetterai, scusandomi se ho preso questa iniziativa, non conoscendoti e avendo appreso di te soltanto da quello che stai scrivendo nel corso di questo incandescente, ma non inutile, dibattito.
Credo che tu, intellettualmente raffinata ed anche tenace, non sia però una donna pratica. Tu sai scrivere, sai argomentare, sai difendere le tue posizioni; sono sicuro che sai persuadere, anche se questo è il risultato assai più difficile. Ma non sei una donna pratica. Mozzi lo è. Anche lui, non lo conosco, se non attraverso le mie poche collaborazioni a vibrisse e alle poche e mail che ci siamo scambiate. Però, lui, la sua idea di letteratura, non solo la porta avanti e la diffonde con i suoi scritti (come fai tu), ma si è impegnato e si impegna anche per gli altri: coloro, ossia, che corrispondono a quella sua idea di letteratura.
Se devo credere (e perché non dovrei?) a quanto a volte racconta, passa presso Sironi parecchie ore a leggere manoscritti, molti dei quali forse pessimi, per trovare il modo di aiutare chi risponda alle idealità che si è prefisso. Passa qualche volta le notti a dormire su di una brandina in Casa editrice. Beh, tutto questo fa di lui un uomo non di chiacchiere, ma di fatti, assumendosi anche sacrifici che sono sicuro non sono compensati dai soldi che Sironi gli passa.
Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare, dice un antico e noto proverbio. Mozzi, si troverà, forse, ancora in mezzo al guado, ma le sue bracciate per arrivare sull’altra sponda le sta facendo.
Tu scrivi sull’espresso, su N.I. e insegni all’università. Oltre che insegnare, fai qualcosa di concreto, al di là dello scrivere, per portare avanti un tuo progetto sulla letteratura?
Vedi, io non sono più giovane, ho scribacchiato, e male, poche cose. Ma qualche anno fa, mi sono messo in testa una cosa: che la mia città di Lucca avesse bisogno di storie che l’aiutassero a farsi conoscere. Piccole storie. Un editore locale mi aveva suggerito un modo per realizzare il mio progetto, ma non mi piacque. Allora che cosa ho fatto? Mi sono messo a fare il piccolo editore (ma limitatamente a questo progetto) e ho stampato quei libriccini così come volevo io. Ho speso tanti soldi, credimi, e non so se li recupererò con le vendite, e chi sa fra quanti anni. Sono sicuro che ci rimetterò, anzi.
Ma Lucca ha ora a disposizione il lavoro in cui ho creduto (l’estate scorsa, nella mia città, ho vendute 277 copie nelle varie lingue in cui ho realizzato il mio lavoro: italiano, inglese, tedesco, francese e spagnolo).
se vai qui, su ibs,
http://www.internetbookshop.it/ser/serpge.asp?type=keyword&x=bartolomeo+di+monaco
lo puoi verificare. L’ho fatto io, quel lavoro, svenandomi economicamente, perché ci credevo, e sono passato dalle chiacchiere ai fatti. Certo, ora sono dissanguato, ma, credimi, sono contento di aver fatto qualcosa per la mia città, e soprattutto di aver fatto ciò che mi proponevo.
Per la letteratura, scrivo poco e quel poco è di scarso valore. Ma è, ancora una volta, un piccolo editore di Torino, Marco Valerio, che si è voluto assumere il rischio. Anche lui non guadagna coi miei libri, ma continua a pubblicarmi. Non posso che stimarlo e ringraziarlo, scusandomi con lui di non essere tanto bravo da potergli garantire il successo e una profittevole notorietà.
Un caro saluto.
Bart
Mozzi ha secondo me tagliato la testa al toro Moresco senza appelli, svelandone sia le ambiguità di fondo che le (evitabili) conseguenze.
E il concetto – pur scivoloso – di “positività dei compromessi” sa di cose fatte, di vita vissuta, di pratica che si prende la sua rivincita sulla teoria. Insomma, di realismo e di maturità.
Tutto sommato, l’utilità dei Savonarola sta nel farci apprezzare quel che i Macchiavelli (talvolta Magnifici…) riescono a combinare nei loro limiti e a darci la forza necessaria e vitale, perciò… a smentirli.
Come si evince abbastanza facilmente da tutto il dibattito il fenomeno è (e questo credo fosse quello che voleva sottolineare Moresco) perché quasi tutti la pensano come Giulio Mozzi, cioè che la macchina è dominabile dall’interno.
Peccato che ormai la “macchina” sia composta quasi esclusivamente da persone “marginali” e che la pensano più o meno come Mozzi.
Ma se la macchina è composta da tutti questi marginali e diventa sempre più schiacciante non lo si deve forse all’ambiguità di comportamenti di questi marginali da cui la macchina trae la sua linfa vitale?
E visto che non c’è mai nessuno che dica Questa macchina è fantastica voglio fare qualunque cosa per farla vivere, come mai non si è formata una macchina migliore pregna di tutte queste idee e praticità propugnate con grandi discorsi? In questo caso rispondo facilmente che i conti algebrici che computa il buon Mozzi forse non sono giusti, ed è per questo che non nasce una massa (che pure dovrebbe essere maggioranza) esterna alla macchina in grado di rifondare il modo di fare nel fare libri.
Come detto in altri post di commento (comprensivi anche della solita domanda: cosa vuol dire quando una casa editrice come Feltrinelli dice a tutti NON SI ACCETTANO MANOSCRITTI NON RICHIESTI? a cui nessuno se la sente di rispondere) non vorrei neanche trattare più di tanto l’argomento profitto, che è una bella bufala inventata da gente che non si è mai occupata di libri e quando ha cominciato a farlo l’ha giustificato dicendo “Perché solo dall’interno della macchina si può cambiare…”
Esempi ne ho già fatti, ma se proprio se ne vuole uno veramente fondato sulla logica del profitto (si parla di libri che diventano film) qualcuno mi spiega dove si trova la logica economica tanto sbandierata nei due film prodotti con esiti catastrofici tratti dai libri di Ammanniti, logica che dopo tutti quei soldi persi ha prodotto un nuovo film tratto dal libro di IO NON HO PAURA sui cui sono stati investiti soldi, Berlino e una regista “commerciale” come Salvatores?
E poi altre soluzioni ce ne sono, basta ad esempio che chi vuole scrivere libri scriva solo libri, non che sia anche editore, editor, uomo marketing, azionista, redattore, operatore culturale, critico, insegnante di scrittura creativa, collezionista di ossa, sceneggiatore etc etc…..immaginate quanti posti per nuovi libri pubblicabili si libererebbero, o no?
Battig, ti rispondo io. All’estero è ormai pratica invalsa, anzi LA NORMA, per una casa editrice, rifiutare manoscritti ***non vagliati*** da qualche agenzia letteraria di fiducia. Nelle varie redazioni (piccole e grandi) arriva talmente tanta spazzatura, insieme a qualche buona proposta, che ogni casa editrice tende a scoraggiarne tale invio come può. Dopodiché è ovvio che una sbirciatina ai plichi venga comunque data. A un occhio esperto, basta la lettura di una pagina o della semplice presentazione e sinossi di un’opera per capire se
vale la pena promuoverla al SECONDO LIVELLO di scrematura. Tieni presente, tuttavia, che se le opere valide dovessero assommare a diverse migliaia, non tutte potrebbero comunque essere pubblicate. Nessun editore stampa titoli all’infinito. Anche in editoria, insomma, ci sono i SALVATI e i TRAVOLTI. E figurati se i travolti se la mettono via e tacciono… La verità, come dice Tiziano Scarpa, è che “oggi, in Occidente, scrittore, scrittrice, intellettuale, artista, possono diventarlo tutti. Ci vogliono vocazione, talento, ostinazione, fortuna. Ci vogliono tutte e quattro queste cose”.
Tu sei a posto con i requisiti?
Editing:
– tende a scoraggiare
– se valga la pena
Caro Giulio, tu sai meglio e molto più di me, per ragioni professionali immagino, quante siano in Italia le piccole case editrici o quante ne siano nate negli ultimi anni. E tutte con il loro bel progetto, condivisibile, accettabile, sottoscrivibile. Che senso ha, dunque, aggiungerne una in più? Anch’essa con il suo nobile progetto dietro. Ma credo che anche queste varianti sul tema restaurazione e marginalità siano dovute al fatto di aver dato al concetto di marginalità un significato unico. Ossia che “poesia, letterarura, scrittore oggi sono in ruolo di marginalità”. Ma ciò significa solo constatare l’esistenza di un fenomeno. Il bello però del pensiero umano è quello di non essersi mai fermato alla descrizione del fenomeno, bensì ha smpre cercato di analizzarne le cause. Come dire: al mondo ci sono X poveri (o Y ricchi). Ma questo non basta. Bisogna poi vedere perché il povero oggi è tale, se cioè lo è per maledizione divina, o perché è stato impoverito-spossessato, o perché s’è giocato tutti i suoi averi alle corse dei cavalli. Per lo stesso motivo non basta constatare la marginalità. E’ sono un esercizio fenomenologico spurio se non porta ad altro. Per cui se alla marginalità sostituiamo emarginazione, credo allora che le cose (le analisi, la discussione) cambino. Perché allora ci si dovrà ben interrogare sulle cause. Ed emarginazione è un sostantivo dinamico, plurale, semanticamente forte, e, non ultimo, politico.
Pare che nessuno si sia accorto del piccolo gesto rivoluzionario compiuto da Mozzi: l’inserimento di quel pulsante per commentare velocemente. Mozzi non è uno che fa riunioni di condominio per lamentarsi e aprire un dibattito su una cosa che gli sembra sbagliata: se appena vede un modo pratico e veloce per risolverla la risolve (nel suo piccolo). Sarà perché è uno del Nord Est? Uno che ha imparato a scrivere nel covo degli imprenditori? La cosa riempie di invidia un terrone come me. Ma in quanto a chiacchiere vedo che Milano non scherza. Parecchie persone, dopo aver seguito per un po’ Nazione Indiana, non avevano idea che qui si potessero postare commenti. Forse è meglio, ce ne sono già troppi. Ma anche chi conosce il trucco deve fare un sacco di fatica per andare a cercarsi la buca per le lettere.
Mozzi non vuol rendere la vita difficile ai suoi interlocutori. Potrebbe anche cercare (gli scrittori lo fanno) di renderla difficile ai suoi lettori ma non è allergico ai commenti. E non c’è nulla di più autenticamente democratico di questo atteggiamento.
Adesso dovrei elencare un po’ di cose di Mozzi che non mi garbano, in modo che Angelini non debba venire a commentare (con la strada spianata, per di più) che lecco il culo a Mozzi. Ma non ho tempo.
Sai Giulio, ora mi pare che tu cavilli sulle parole.
Ma dove vuoi arrivare? A teorizzare la “positività del compromesso”? O la necessità di “agire nell’ambiguità”?
No, su questo proprio non ti seguo!
E sono daccordo con Robeh, se a marginalità sostituiamo emarginazione, le cose già cambiano, e anche la discussione. Diventa tutto più dinamico e anche sì, non ultimo, politico. Giusto.
Ho messo un pezzo su Pordenoelegge simile in fondo a quello di Giulio. A Carla Bendedetti dico che “cavillare sulle parole” mi sembra l’espressione che potrebbe usare uno che fa un lavoro pratico: dire “tu cavilli con le parole” è pur sempre “cavillare su un cavillo”.
No?
Carla, Andrea (Inglese) e anche Simone, Robeh ecc: anch’io penso che accettando di lavorare per una casa editrice abbia sottoscritto liberamente un patto di doppia lealtà: lealtà verso l’azienda e lealtà verso la letteratura. Queste due lealtà possono entrare in conflitto. Se domani, mettiamo, mi arrivassero contemporaneamente un clone tedesco di Dan Brown (ovvero un libro che non riuscirei a trovare buono neanche “nel suo genere”) e il più importante romanzo scritto in quella lingua da decenni, io leggerei a tambur battente il primo per essere certa che, se potesse “funzionare”, la casa editrice riesca ad aggiudicarsene i diritti, possibilmente nelle migliori condizioni. E nel frattempo conterei sul fatto che la letteratura tedesca è di consueto poco vendibile, cioè sulla sua marginalità come prodotto editoriale (ma i margini si possono spostare), nella speranza di arrivare in tempo per acquistare anche il possibile capolavoro.
E’ un esempio inventato, ma non più di tanto. L’autunno scorso sono riuscita a far prendere un libro che mi ha davvero entusiasmato ed è stato il quarto letto nella sua interezza, essendo i primi tre potenzialmente più commerciali (anche se almeno due mi sono piaciuti) e dunque più contesi.
Voglio dire: la lealtà all’editore è dovuta, la condizione a cui ti fanno lavorare, la lealtà nei confronti della letteratura la devi solo a te stessa.
Ha perfettamente ragione Simone quando dice che lui non ha mai incontrato qualcuno che lavora in una casa editrice disposto a sbandierare che non gliene frega niente dei bei libri, che l’unico suo obiettivo è quello di far fare quattrini con qualunque stronzata vi si presti. Cos’è? Ipocrisia del genere “si fa, ma non si dice” o il tipo di menzogna autoconsolotaria che ci si racconta da se?Il più delle volte, secondo la mia esperienza, non si tratta veramente né dell’uno né dell’altro. Credo che buona parte delle persone che lavorano come editor o consulenti editoriali (cioè quelli che fanno le scelte o contribuiscono a farle), ci arrivano perché amano la letteratura. Però magari, a furia di compromessi, in più sotto il peso delle molteplici pressioni e dinamiche di potere cui le persone si trovano sottoposte in qualsiasi azienda, possono perdere lo slancio, la voglia di rischiare e di lottare.
Dover leggere per lavoro, in continuazione e in velocità, è un attività che porta con se il rischio di un logoramento e quasi inevitabilmente “altera il gusto”. Uno legge così tante cose brutte o simili, noiose non fosse altro per la ripetitività, che quando trova un libro appena un po’ diverso per stile o argomento può sembrargli bellissimo. Oppure, d’altro canto, uno è così stanco delle proprie letture a cottimo che quando gli capita un libro grosso e difficile, uno di quelli che andrebbero letti lentamente, fa una gran fatica a concentrarsi ed è tentato di sbarazzarsi del compito gravoso additando “motivi editoriali”. Ci tengo a sottolineare che si tratta di reazioni opposte.
Credo che se io non sapessi raccontarvi queste cose, se non cercassi di esserne consapevole, il mio rapporto di lealtà nei confronti della letteratura somiglierebbe già molto a un vecchio matrimonio.
Ma so che non è così. So che quando trovo che c’è da sbattersi, mi sbatto.
Fin qui, mi rendo conto, non sto dicendo cose molto diverse da quelle che ha espresso Giulio, ma forse posso aggiungere un altro pezzo: il rapporto con i lettori. Io faccio il mio lavoro continuando a figurarmi i lettori come persone, non come meri consumatori, come numeri di copie vendute. Credo che queste persone nei libri continuino a cercare non solo l’intrattenimento, ma un’occasione per capire meglio se stessi e il mondo, per rispecchiarsi, per riflettere, per entrare in contatto con le proprie emozioni, per sognare. Saranno probabilmente sempre pochi i lettori che trovano pane per i loro denti nell’”Ulisse” di Joyce o nei “Canti del Caos”, anche se quei libri vanno loro consegnati in ogni caso. Ma fra questi esempi e i cloni di Dan Brown c’è di mezzo un mare dove la lealtà verso l’azienda e la lealtà verso la letteratura possono incontrarsi. Se ho scelto di lavorare nell’editoria, è anche perché desidero che le persone continuino a leggere, ciascuno a seconda delle proprie possibilità, non solo prodotti furbi, ma libri che abbiano le caratteristiche di cui dicevo.
E’ poi vero che c’è tutta una parte che va dal marketing al commerciale ai rappresentanti ai distributori che lavora solo o soprattutto per il profitto rendendo difficile la vita a chi compie le scelte, facendo di libri appena pubblicati dei quasi condannati a morte..
Per questo, per continuare a pubblicare libri importanti o semplicemente buoni che raggiungano i loro destinatari, abbiamo bisogno di alleanze FUORI: fra i critici (che come categoria contano sempre meno), fra i librai e,da un po’ di tempo a questa parte, anche fra chi scrive sul web.
Per Simone: scrivi che io penso “che la macchina è dominabile dall’interno”. No, non lo penso. E non l’ho detto.
Per Carla: sì, sto proponendo di pensare alla “positività del compromesso”, cioè di provare a pensare al “compromesso” non come a un male (intollerabile, tollerabile, accettabile a volte, inaccettabile ecc.) ma come a un bene (impuro, rischioso ecc.); e: no, non penso che proporre di pensare a questo sia un “cavillare sulle parole”. Tu dici che lo è: perché?
Perché NI non apre un un locale che si chiama “La ristorazione”?
Risposte varie e brevi:
a helena, condivido molte cose ma il punto rimane sempre lo stesso, chi decide cosa?
a fake di angelini, si, io sono a posto con i requisiti (la fortuna non la cosidero perché è data anche dagli altri), grazie delle spiegazioni ma già lo sapevo…al’estero non è proprio come dici tu…non è vero che si leggiucchia tutto (a volte le case editrici non sanno nemmeno dov’è il manoscritto) e comunque la tua didascalica spiegazione aggrava ancora di più la questione pratica e morale che la mia domanda poneva e cioè: ma se Feltrinelli, una casa editrice italiana ENORME non riesce ad organizzarsi per leggere dei manoscritti, fossero anche centomila l’anno, allora quello che esce in libreria esce per quali criteri?? Quali criteri? Quali sono I CRITERI se non si legge tutto. Perché succede, non a Feltrinelli ma a MInimum Fax, che Lagioia editor pubblica Lagioia scrittore e scherza con altri scrittori sulla sua scrittura…ma sono pazzi o fermiamo tutto che è meglio e ricominciamo?
a Giulio, bene se non hai detto che la macchina è dominabile dall’interno..mi sembrava che si potesse trarre quella conclusione dal tuo discorso..allora ne rimangono due di conclusioni….o non pensi e non dici nulla (ed è grave visto che ti sei gettato nella discussione…oppure pensi e dici che “la macchina non è dominabile dall’interno”, il che vuol dire che ci sei entrato sicuro di perdere, o peggio, sicuro di VOLER perdere.
Non capisco queste affermazioni di Paoloni (forse non afferro ironie o altri intenti):
“Parecchie persone, dopo aver seguito per un po’ Nazione Indiana, non avevano idea che qui si potessero postare commenti. Forse è meglio, ce ne sono già troppi.”
Perché troppi?
“Mozzi non vuol rendere la vita difficile ai suoi interlocutori. Potrebbe anche cercare (gli scrittori lo fanno) di renderla difficile ai suoi lettori ma non è allergico ai commenti.”
E perché mai dovrebbe?
ps: Helena Janeczeck propone alleanze interessantissime.
Lavoro da anni in Francia nell’editoria e posso certificare che nelle case editrici che conosco (Grasset, Seuil, Gallimard, Actes Sud, anche altre più piccole) i manoscritti vengono letti. Alcuni vengono scartati subito, si fanno certamente delle sviste, ma tutti passano per le mani dei “lettori”. Nessuna casa editrice si sognerebbe di affermare (anche se nella pratica lo fa) che “non accetta manoscritti non richiesti” perché sarebbe in contraddizione con la vocazione di un editore, che è quella di scoprire e diffondere opere letterarie.
Una lettrice di NI
emmina:
“forse non afferro ironie”
già
evidentemente i francesi hanno un senso etico della propria professione veramente encomiabile, qui in Italia invece basta far soldi e basta, la qualità delle cose viene dopo………moooolto dopo.
La mia frase “Forse non afferro ironie” era a sua volta ironica (sigh).
Perché (la spiego, vah) le affermazioni di Paoloni mi sembravano – messe lì così – vagamente inutili.
paolag
paolag@libero.it
A Giulio Mozzi e a Helena Janeczek vorrei dire che nell’editoria hanno lavorato e ancora lavorano persone molto più coraggiose di quanto voi dimostrate di essere con tutti questi rimuginamenti sulla lealtà all’azienda che sarebbe in conflitto con la lealtà alla letteratura… o con la necessità di fare compromessi, di muoversi nell’ambiguità. Shiffrin, per fare solo un nome, ha fatto un’analisi del mondo dell’editoria molto più chiara e radicale di tutti ivostri distinguo – ed era un editore! Salsano, che lo ha pubblicato, con una sua prefazione molto radicale e coraggiosa, era un editore. E non parlava di lealtà all’azienda né di compromessi. Non usava questi termini moralistici. Vedeva realisticamente le forze in gioco, dicendo e dimostrando cthe ci sono molti modi di stare nel mercato. Scommetendo su qualcosa. Prendendo posizione. Anche creando iniziative come quella di Slow book. A me invece la posizione di Mozzi, per lo meno quella che sta qui teorizzando, sembra molto ambigua. Ve lo ripeto. Dentro l’editoria ci sono state e ci sono ancora persone molto coraggiose. Se volete parlare dell’editoria mettetevi a quel livello. Altrimenti tacete e fate i vostri compromessi in silenzio!
Ho taciuto finora, ma ora dico che sono daccordo con Paola. A me le parole di Mozzi suonano ambigue, e anche un po’ superficiali. Si capisce solo che a lui il discorso sulla restaurazione non piace, anzi gli dà fastidio. Come se mettesse in pericolo la sua posizione!
Sembra che la cosa che gli sta più a cuore sia di dimostrare che non c’è niente di cui preoccuparsi. Non c’è nessun fenomeno preoccupante nella gestione odierna del mercato librario, né nelle concentrazioni editoriali, né nella distribuzione sempre più finalizzata ai bestseller, né in quei fenomeni che sia Shiffrin, sia Salsano denunciavano. Ripresi, e allargati anche alle pagine culutrali e alla critica, da Carla Benedetti in un intervento che è stato pubblicato qui su Nazione Indiana. No, non esistono. Tutto va per il meglio. Ma io sento in questa tranquillità solo una gran voglia di mettersi i paraocchi. Non c’è un’analisi nel discorso di Mozzi. Cosa ha da ribattere sui meccanismi della distribuzione per esempio? I “fenomeni giganteschi”, scrive in chiusura del suo pezzo, sono altri. Che ce li dica. Quali sarebero secondo lui.
Cara Paola, quelli che tu chiami “termini moralistici” io la chiamo etica della responsabilità individuale. Potevo fare anch’io un discorso molto più da testimone e da esperta, indicando tutti i titoli e autori che mi sono stati bocciati dagli editor perché troppo difficili o per ancora più astruse, ma vigenti consuetudini dell’editoria (perché troppo vecchi, loro, gli scrittori o perché i loro libri sono usciti- metti- un decennio fa e dunque sono vecchi anche loro, ma non abbastanza per poter essere riproposti come répechage; solo per darti un esempio). Per passare a descrivere come anche quelli riusciti a far acquistare, vengono poi sottoposti a un trattamento minimo sindacale dall’ufficio stampa, il commerciale se ne disinteressa, il marketing neanche sa che esistono e la distribuzione ne manda una due copie nelle librerie indipendenti mentre continua a riempirle di pile di Totti e simili, anche se il libraio non le vuole e sa che gliele rimanderà indietro per due terzi.
Sarebbe stato un discorso non meno attinente alla realtà, ma dal mio punto di vista meno coraggioso. Io non intendevo fare l’elogio del Compromesso assoluto né tantomeno del mondo editoriale come migliore dei mondi possibili. Io intendevo CHIAMARMI DENTRO perché se quelli che fanno il mio lavoro si stancano di proporre libri per ragioni non economiche, se perdono il contatto con quei variegati tipi di lettori che sono i loro simili e fratelli, si può chiudere bottega. E non mi sento ambigua, anzi ripeto: io ho scelto di fare questo lavoro per far arrivare al pubblico il massimo numero possibile di buoni libri e cerco di fare qualcosa, anche qui su Nazione Indiana, perché quelli pubblicati possano trovarlo. E so anche che non basta, che sarebbe bene inventarsi nuovi canali, nuove iniziative per tenere aperti e allargare quelli spazi.
Ma tutto partendo dalla premessa che se non ammetto che il lavoro nell’editoria esige compromessi, non riesco neanche a stabilire quale è il limite oltre al quale il compromesso non lo accetto più o a vedere che sono andata oltre, che non sono più leale alla letteratura, ma solo all’azienda. Infine non dubito che nell’editoria italiana ci siano tante persone coraggiose (più coraggiose di me) di cui certo faceva parte Salsano (il cui progetto “slow book” e molto interessante) e – basta che tu dia un occhio al catalogo Sironi- c’è anche Giulio Mozzi.
Come spesso (come sempre) Helena ha ragione e pone la questione nei termini in cui la metterebbe giù un Max Weber o, qualche anno dopo, Karl Polanyi. Si parla di libri, cioè di un comparto industriale; piccolo fin che si vuole, ma quello è. Ci si può lavorare dentro, mantenere la fedeltà all’azienda e, come fa Mozzi da qualche anno e temo di aver già scritto in altro post, inventarsi linee editoriali e addirittura marchi all’interno di strutture consolidate e destinate a pubblicare altro che romanzi o raccolte di racconti. Succede infine che Mozzi e Helena, avendo anche altro con cui impiegare il loro tempo, mettano in discussione se medesimi e il loro lavoro su NI e altrove. Non mi pare poco.
Secondo me Giovanni è Giulio Mozzi. Vedete come lo difende.
Perché non risponde Mozzi stesso alle obiezioni serie che gli ha mosso Paola?
Non ultima delle mie mende è quella di non essere Giulio Mozzi.
Giulia, tu cosa fai stasera? Rimani ancora un po; sarà quest’atmosfera, ma non mi dire no (D. Baldan Bembo, 1981)
come vorrei come vorrei amore mio, essere mozzi essere mozzi essere un dio, un editor della madonna e pure un grandissimo scrittor e con il blog e i tutti quanti che dicon oh oh cavallo oh oh cavallo oh oh
che stronzata!