La restaurazione
di Antonio Moresco
Nazione Indiana sta organizzando per il mese di maggio, alla Fiera del libro di Torino, un incontro sull’editoria e, più in generale, su quanto sta succedendo in questi anni nel campo della cultura e delle sue proiezioni. Questo intervento vuole essere un contributo iniziale alla discussione.
Viviamo in un periodo di pesante restaurazione. Siamo alle prese con un’intossicazione che attraversa le strutture della vita, dell’organizzazione sociale e professionale, delle forme economico-politiche e democratiche, delle finalità scientifiche e tecnologiche, della religione, dei media, del pensiero, della cultura, dell’arte…
La domanda è questa: dobbiamo aspettare 10 o 20 anni per vederlo scritto nei libri o lo possiamo, lo vogliamo, lo dobbiamo vedere e dire lucidamente adesso, mentre stiamo vivendo questa situazione?
E ancora -detto in un altro modo- abbiamo o no la responsabilità di mostrare la macchina in azione nel momento stesso in cui agisce o dobbiamo mettere la testa sotto la sabbia, tirare a campare e aspettare di vederla inoffensivamente descritta domani, come abbiamo letto -seduti in poltrona o prima di addormentarci- le narrazioni di altri periodi di restaurazione descritti da chi ci è vissuto dentro? E a leggere sembrava tutto chiaro ed era facile stare dalla parte dell’autore che ce ne mostrava il peso sulla vita umana e la sofferenza e il prezzo e ci dicevamo: “Cazzo, ma com’erano mediocri, ciechi, vili, trasformisti e corrotti gli uomini di quel tempo!”
Solo in politica?
In questi anni sembra abbastanza facile vedere e ammettere l’evidenza di questo fenomeno nel campo economico, politico, religioso ecc. E ci sono molti che, per fortuna, non hanno nessuna difficoltà a denunciarlo ai quattro venti e anzi a fare di questa denuncia parte integrante del loro status e del loro target. Ma provate a dire che le stesse cose stanno succedendo -e non da oggi- nel campo della cultura, dell’editoria, dei giornali ecc… e allora vedrete che le stesse persone cominceranno a fare mille distinguo, vi diranno che è un’esagerazione, che siete apocalittici o addirittura vi daranno addosso. Per pigrizia, per spirito di cordata e di gruppo, per conformismo, per paura di restare isolati, perché anche loro si sono trovati ormai il loro piccolo ruolo negli ingranaggi di questa macchina o dei suoi spazi residuali, perché, dopo averla inseguita per molto con la lingua fuori, sono arrivati finalmente ad avere la loro fetta di potere all’interno e se la tengono stretta. Anche se questo vuol dire essere del tutto funzionali alle stesse logiche imperanti che denunciano in altri campi ma che poi sposano quando si tratta del proprio piccolo campo. Conclusione triste, patetica -tra l’altro- per una generazione che si è nutrita di miti intellettuali critici e rivoluzionari e che ora o si è chiusa in un moralismo rancoroso, elitario e conservatore o si è ridotta a fare la mosca cocchiera e la guardiana dell’esistente e dello status quo e dell’abbassamento degli orizzonti nel campo nevralgico della cultura e dell’espressione artistica e di conoscenza, diventando addirittura, in molti casi, più realista del re.
Ai tempi di Stendhal sì!
Facile vedere questi fenomeni e la loro azione sulle menti e sui corpi nei romanzi di Stendhal, per esempio. Più difficile e doloroso vederlo oggi sotto il proprio naso. Se si parla di qualsiasi altra cosa, della vergogna politica e del disonore cui è sottoposta l’Italia dall’attuale lobby di governo, dell’uso scandaloso dei media, dell’arroganza, delle leggi ad personam, della macchina pubblicitaria e di manipolazione dispiegata, dell’economia criminale, della mafia, della camorra ecc… sono tutti pronti a indignarsi e non hanno difficoltà a vedere come stanno le cose in Italia in questi anni. Ma se si passa a parlare di logiche affini che attraversano quasi senza distinzioni di connotazioni politico-culturali il campo dell’editoria e il cosiddetto mondo della cultura, allora no. Lì non esiste restaurazione, lì va tutto bene, lì è come una piccola oasi dove tutto questo non avviene, la “cultura” è anzi una sorta di naturale antidoto e di zona franca e di opposizione negli anni plumbei che stiamo vivendo, non esiste anche qui una pesante restaurazione giocata sui puri meccanismi economici e monopolistici, sulla selezione di strutture e di forme, su enormi operazioni pubblicitarie sinergiche, su censure operate dalle leggi solo apparentemente impersonali del mercato, su autocensure introiettate e fatte proprie prima ancora che vengano esplicitamente richieste, sulle limitazioni di libertà reali mentre restano in piedi quelle di facciata.
I periodi di restaurazione fanno venire fuori il peggio dalle persone. La loro paura, la loro grottesca disponibilità al compromesso, la corruzione. Vedi con sofferenza le persone cambiare giorno dopo giorno, trasformarsi, piegarsi a certe logiche, dietro la maschera del buon senso o dell’arroganza. Si vive la continua sofferenza di assistere allo spettacolo di persone -anche sensibili e intelligenti e che avrebbero tutti gli strumenti per capire cosa sta succedendo- che invece si fanno prendere dalla paura di perdere chissà quale treno e quali occasioni e così si arrendono, si buttano via, entrano in logiche stritolanti. Vendendosi in molti casi per niente. Le loro stesse persone, i loro corpi e i loro volti e le loro menti subiscono una torsione, diventano rapidamente irriconoscibili, si cercano un’identità che pare a loro meno difficile da gestire nel bazar di quelle che vanno per la maggiore. Tanto più in questa epoca in cui la restaurazione non è giocata solo nella dimensione politico-sociale, come nell’Europa dopo il Congresso di Vienna, ma opera anche nelle strutture più intime e addirittura occulte, nel bios, resettando, deprogrammando, duplicando, clonando. Per questo è così difficile accettare di vedere quello che sta veramente accadendo.
Non che nei periodi opposti o che appaiono tali, sotto la spinta di forti dinamiche collettive e illusioni fatte proprie da molti siano meno pesanti i condizionamenti e le coercizioni. Non che, anche allora, le cause non possano essere illusorie o sbagliate e la mente e i corpi degli uomini non vadano altrettanto ciecamente all’ammasso. Ma questo non diminuisce di un grammo il peso della nostra responsabilità e il bisogno di lucidità nei periodi in cui, con ogni tipo di copertura pubblicitaria e di mistificazione e in una fase di ripiegamento e di distrazione epocale, si usa da parte di pochi l’arma della sopraffazione, del condizionamento sistematico, dell’inganno, dell’illusionismo e della paura per tenere in scacco le vite e cancellare in esse il ricordo stesso delle loro possibilità di creazione, di libertà e di invenzione.
Gli alibi
Nel campo dell’editoria e del giornalismo culturale, siccome il personale è formato da intellettuali, si coprono le proprie pratiche andando a ramazzare teorie del passato e usandole in modo improprio e grottesco in una situazione diversa. Alcune di queste sono così generalizzate da diventare luogo comune. Si leggono continuamente sui giornali ridicole professioni di gramscismo da parte di vallette del Festival di Sanremo, filosofi in disarmo ecc. Praticano l’ottundimento di massa e traggono da questo la loro mercede e poi dicono che sono “nazional-popolari”. Proprio adesso che -guarda caso- non c’è più né la Nazione né il Popolo! Se ne stanno al caldo dentro macchine di consenso drogate, in grado di sedare e rimbecillire il “popolo” che hanno sottomano oggi e di elargire laute ricompense ai propri servi, e questo sarebbe ciò che intendeva il povero Gramsci scrivendo dalla sua prigione. Tutte le epoche di restaurazione sono così, sia quelle che si fondano su strutture ideologiche e politiche scopertamente totalitarie e violente sia quelle giocate su altre forme di coercizione e consenso.
Nel campo dell’editoria si agita l’alibi che non ci sarebbe mai stato tanto pluralismo come adesso, che c’è posto per tutti, che ci sarebbero ancora spazi riservati a cose che si muovono in direzione diversa -e in un certo senso è vero che ci sono. Ogni funzionario editoriale addita a propria discolpa e alibi qualche buon libro che pure ha pubblicato, i suoi tre poeti, ecc -e anche questo è vero. Ma tace sul funzionamento generale della macchina in cui si trova e che pure conosce molto bene, che rende sempre più ristretto, aleatorio e inoperante lo spazio in cui si muovono invece le manifestazioni in controtendenza, per il funzionamento implacabile e invasivo della macchina e per l’occupazione atmosferica di gran parte degli spazi reali e delle sedi in cui si formano le strutture di giudizio.
Un “pubblico” manipolato e forgiato ed esibito poi come alibi, col quale vivere un rapporto servo-padrone rovesciabile all’infinito. L’annullamento della responsabilità individuale e la resa allo spirito del tempo e a ciò che sembra al momento vincente. Come se la narcosi generale fosse un alibi per non dire nulla, non cercare nulla, non creare nulla con la propria persona, la propria voce e la propria forma, per non assumersi la responsabilità di dire come stanno veramente le cose solo perché la macchina è forte o almeno così appare. E la vita è breve. E ce n’è una sola. E bisogna cercare di salire sui carri vincenti, o che sembrano tali.
Popolare sì popolare no o qualcos’altro?
Negli ultimi mesi si è sviluppato un vivace dibattito, sui giornali, alla radio e in rete, sullo stato dell’editoria e sulle sue logiche, dove però si è mirato in molti casi a spostare l’attenzione su altri temi (generi letterari sì generi letterari no, popolare sì popolare no, destra e sinistra, élite e masse, Gramsci ecc…) tentando di imbrigliare il dibattito dentro piccole griglie collaudate e fuorvianti. Per nascondere l’aspetto bruciante della denuncia e la radicalità e umanità che la muove. Una confusione di temi e di piani per dimostrare che chi dice certe cose non può che essere un passatista e un catastrofista elitario, come la seppia quando si sente individuata e aggredita emette attorno a sé una nube invisibilizzante di inchiostro. Ma, al di là delle pezze d’appoggio che vengono sempre usate in questi casi, occorre dire che, se guardiamo indietro anche solo al secolo appena passato, la situazione è tale che quasi tutti gli scrittori più grandi del Novecento (Kafka, Proust, Joyce, Musil, Faulkner, Beckett…) oggi non verrebbero più pubblicati dagli editori e dai loro funzionari (che pure continuano a venderli nelle edizioni economiche e a ricavarne profitto). Per ragioni di copie vendute e di tirature, per decisioni economiche superiori -vi diranno- quando non addirittura per un’idea piccola piccola, duplicata e parodistica di realtà. O sarebbero costretti in zone così marginali e asfissiate da risultare invisibili e inoperanti in mezzo alla massa cartacea pompata che si mangia tutto. Occorre dire che queste stesse persone che ricoprono ruoli significativi nell’editoria e che si sono magari formate su questi autori oggi si rifiuterebbero di pubblicare i loro libri. Andrebbero a Praga a dire a un signore magro e con le orecchie a sventola che i suoi primi due libri hanno venduto solo 200 copie, impossibile pubblicarlo. Perché i nuovi parametri editoriali parlano chiaro: con una previsione di meno di 5000 copie per un grande e medio editore non vale la pena di pubblicare. Andrebbero nello stato del Mississippi a dire ad un alcolista poco più che trentenne che ha già scritto L’urlo e il furore e Luce d’agosto che, in seguito a una ricerca in rete, hanno constatato che i suoi libri hanno venduto solo un paio di migliaia di copie nell’intero territorio degli Stati Uniti e nell’arco di molti anni, impossibile pubblicarlo. Ma che loro non si sentono per niente in colpa, tanto troverà comunque qualche piccolo editore che stamperà il suo libro e chi proprio lo vuole potrà alla fine trovarlo scaffalato in qualche punto più o meno nascosto delle librerie. Ma poi -detto in confidenza- nei suoi libri non si capisce un cazzo! Non se ne rende conto? Mi scusi, ma lei se l’è andata proprio a cercare! Chi si crede di essere? Non ha mica vinto il Nobel! Scriva libri più facili, più vicini al gusto del pubblico e a quella cosuccia che noi abbiamo stabilito essere “la realtà”, e allora vedrà che verrà premiato! Diventi anche lei un clone e vedrà che magari -se il caso non favorirà un altro clone più fortunato- un giro in giostra può toccare alla fine anche a lei.
A me tutto questo continua a sembrare inaccettabile, abnorme, spaventoso, agghiacciante, una situazione alla quale non ci si può rassegnare. Grandi macchine editoriali e produzioni cartacee cresciute a dismisura, attraverso le sinergie messe in atto coi media e altri usi pilotati dello spazio e del tempo, hanno svuotato o ridotto ai margini la felicità e la forza creativa configurante della nuda parola e della sua spinta di allagamento, percepita proprio per questo come inaccettabile, indomabile, incontrollabile, interferente.
Lo spettacolo che abbiamo sotto gli occhi è di una totale e grottesca ma anche liberatoria chiarezza. Cosa deve ancora succedere perché i realistici funzionari di ieri, scavalcati fatalmente sul loro stesso terreno, si rendano conto del piccolo ruolo che hanno svolto finora, delle nuove figure che stanno emergendo e sono anzi già emerse anche dal vuoto che loro stessi hanno contribuito a creare, che hanno lavorato soltanto per il re di Prussia?
C’è solo questo?
Per fortuna non c’è solo questo. Non tutto si muove in questa direzione. Esiste anche qualcosa che viaggia in una direzione diversa. E mai come adesso. Persone che -ciascuna a suo modo- scrivono senza arrendersi, librai che non accettano di trasformarsi in venditori di saponette, editori nuovi che nascono o si rafforzano cercando di seguire altre strade, singole persone che lavorano anche all’interno della grande editoria e dei giornali e della nuova frontiera della rete animate da un diverso atteggiamento e da una vera passione. Perché ogni gesto è importante, ogni persona -ovunque si trovi- può fare la differenza, gettare un seme, purché non si nasconda come stanno veramente le cose e com’è fatta la macchina in cui si trova e si muova dentro di essa con lucidità, cercando di cogliere le sue crepe, le sue fessure, liberando controspinte, fratellanza, coraggio. Esistono anche persone così, in questi anni, e allora può avvenire qualcosa di imprevisto, di incalcolato, qualcosa che non doveva nascere nasce, qualcosa che non doveva passare, passa.
Noi vorremmo andare a un confronto soprattutto con queste persone e queste realtà che si muovono controcorrente.
Nell’immanenza di questo incontro e di questo confronto le domande che caparbiamente bisogna porre sono: è vero o non è vero che questa situazione di restaurazione riguarda non solo la dimensione politica, economica ecc ma anche quella culturale e artistica e delle sue libertà e proiezioni? E’ vero o non è vero che chi opera in questo campo seleziona, cerca, promuove e quindi anche -implicitamente o esplicitamente- richiede un prodotto medio variamente stereotipato gestibile all’interno di queste logiche economiche e pubblicitarie e di questo orizzonte? Perché la pigrizia di un pubblico fabbricato richiede questo e solo questo, perché tutti i meccanismi economici richiedono questo e solo questo, con un’idea piccola, cieca e gregaria della nostra presenza nella vita e nel mondo.
Non è così? Bene, allora veniteci a dire che tutto questo non è vero, che è solo frutto di un’allucinazione solitaria, che non esiste restaurazione nel campo dove contate o credete di contare qualcosa.
Marameo!
Qualcuno, di fronte a considerazioni simili, attacca sempre il solito ritornello: questi qui si lamentano sempre, sono vittimisti, paranoici, invidiosi, hanno la sindrome dell’accerchiamento, dicono queste cose solo perché vendono poco ecc… Mostrando così di essere perfettamente interni e omologati allo spirito del tempo e alle sue logiche. Questo non è un lamento, è una sfida. A chi non vuol vedere, sentire. A chi fa un gioco sporco, truccato, a chi tira a campare. La loro ottusità e la loro malafede sono tali che l’unica risposta che meritano è: “Marameo!” Siete talmente miopi che non avete ancora capito la piccola parte che state diligentemente svolgendo, chi sono gli accerchiatori e chi gli accerchiati. Credete di avere vinto, di avere il mondo in pugno e invece siete solo degli esecutori, dei conformisti, degli ignavi. Ma è proprio in epoche come queste che si vede di che pasta sono fatte le persone. Dirò di più. I periodi di restaurazione sono dei periodi buoni per gli scrittori e per chi non si arrende, perché le loro parole e le loro azioni e le loro vite si possono caricare di un peso specifico e di un’intensità di pensiero e visione inimmaginabili a chi sta dentro il piccolo giro della rassegnazione allo spirito del tempo e delle sue gratificazioni. In tutti i periodi di restaurazione c’è stata una fioritura di opere e di persone che, in un modo o nell’altro e ciascuna secondo la propria natura, non si sono piegate e che hanno messo al mondo qualcosa di inversamente proporzionale e di proiettivo.
Siete sicuri che non stia succedendo la stessa cosa anche adesso, sotto il vostro naso?
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Pubblicato originariamente il 22 marzo 2005 qui su Nazione Indiana.
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Certo che succede anche adesso, ma non più di sempre o meno di sempre. Direi, anzi, che Internet abbia moltiplicato le possibilità di far udire le voci fuori dal coro.
Ho lottato ***duramente***, malgrado il 2005 sia l’anno di Andersen, per far pubblicare in italiano il suo “Kun en Spillemand” (alla lettera “Solo un musicista ambulante”, semplificato in italiano, per volontà dell’editore, in “Il violinista”), un romanzo che ruota appunto intorno all’eterno, angosciosissimo problema del Genio Incompreso e di come eventualmente evitarne lo Spreco. Tutti conoscono la frase di Andersen: “Non importa tanto nascere in un recinto d’anatre, quanto uscire da un uovo di cigno”. E tuttavia “Solo un violinista ambulante” tende a dimostrare che nemmeno questo è sufficiente. Bisogna che il brutto pulcino, ancorché nato in un recinto d’anatre, sappia poi spostarsi nel milieu giusto, o abbia la fortuna di incontrare qualcuno che l’apprezzi e lo valorizzi, perché possa davvero diventare un magnifico cigno.
Tutte cose che Antonio Moresco conosce molto bene, anche se non tutti concordono sul tipo d’uovo da cui è nato:-)
“Ma soprattutto”, aggiunge Andersen, “bisogna che Dio lo voglia!”, altrimenti non ci sarà sforzo umano che possa impedire al piú talentuoso degli uomini di rimanere un semplice musicista di strada. Va da sé che, al posto della parola Dio, Andrea Inglese e tutti gli gnostici in generale possono tranquillamente sostituire “la società”.
Sì, è vero quello che dice Moresco:
“Viviamo in un periodo di pesante restaurazione.”
Però il guaio grosso, il fatto tragicomico, più unico che raro, più italiano che mai è che abbiamo una restaurazione senza aver mai avuto uno straccio di rivoluzione.
I segni sono magnificamente evidenti da tempo e sono maturati dal 1989 quando crollò il muro e con esso nella testa di alcuni, forse molti, marxisti fantasisti crollò pure il pensiero che farsi i soldi con la politica fosse un male, che far politica per svolgere un servizio fosse una cazzata universale da lasciare qualche ingenuo cattolico e che in fin dei conti certi bei politiconi di mestiere avevano visto giusto da tanti anni.
Il tutto si installa su di un substrato/terreno di cultura sempre qui presente e fecondo di cinismo, scetticismo e mancanza di senso civico o comunitario.
“Macchè, dai, siamo pragmatici…macchè welfare state, dai, ognuno si deve tirare su le brache, cazzo, i soldi contano,e anche le scarpe di Ferragamo da 700 euro altro che le ceneri di Gramsci.
Macchè, dai ,con ‘sti scrittori infantilisti da due soldi, con la testa sempre nel sacco coi loro problemini delle ricerca letteraria, con il loro Pasolini e Gadda del cavolo, ma chi li vuole più!
Qui se non si vende, si va a picco, la “gente” è cogliona, vuole barzellette…sai che ti dico:
ha ragione il Berlusca quando dice che l’italiano medio è uno che le medie non le ha nemmeno finite, e per lui ci diamo il “prodotto”, per lui ci confezioniamo una bella polpetta colorata.
Macchè “letteratura”!
Parliamo di “scrittura”, orcoboia, la letteratura è quella roba là dei professorini del cazzo, lasciamola a loro, qui ci vuole un prodotto corrente, niente linguaggi di nicchia, roba da sfornare e poi via, poi un altra roba e via se no si muore.
Siamo in un epoca postmoderna no?!
Tutto corre rapidissimamente.
Se non ci adeguiamo, moriamo per strada.”
Così è (in parte)
se vi pare.
Per una volta tanto ( e ne sono felice) concordo con quanto scrive Moresco, più o meno parola per parola. Per non appesantire i commenti mi limito a rimandare chi fosse interessato alla mia opinione (con cui probabilmente, in parte almeno, credo che Moresco non sarà d’accordo) al seguente link
http://www.lellovoce.it/article.php3?id_article=320 e a segnalre l’intervento di Caliceti su Queer che certo la maggior parte di voi conosceranno, che pure batte territori paralleli. Il pezzo del cali è ora qui, su Lipperatura
http://www.kataweb.it/kwblog/page/CLIP/commento?anchor=20050375095220
La mia sensazione è che il periodo di restaurazione politico-sociale-culturale sia iniziato dopo la morte di Moro, si sia sviluppato al suo massimo con la politica del Caf, abbia avuto un’opposizione effimera in seguito agli scandali giudiziari e sia ricominciato, con maggiore velocità, con la “scesa in campo” di Berlusconi da una parte e con la politica riformista (e masochista) capeggiata da D’Alema dall’altra.
Fin dalla fine degli anni Settanta, infatti, mi pare di poter dire che la letteratura non abbia più perseguito scopi di analisi e di denuncia sociale, per lo meno per quanto riguarda i grandi temi politici italiani. Quanti libri ci sono, ad esempio, che parlano del terrorismo (ossia di un fenomeno che in Italia ha assunto un peso enorme nella società civile)? Io conosco solo l’apprezzabile tentativo compiuto da Ferdinando Camon con Occidente, del 1975.
Dagli anni Ottanta in poi non mi pare che molto sia cambiato… ma attendo opinioni da chi è più informato e/o coinvolto di me.
Ho detto come la penso nel post “Carmina non dant panem”. Condivido le conclusioni di Moresco nel senso che, secondo me, dobbiamo scrivere quello che ci preme dentro senza preoccuparci di infilare una scopata ogni ottanta pagine, un lieto fine e altre bellurie che, secondo gli editor, dovrebbero servire a vendere.
Ma dobbiamo anche accettare il rischio. Chi non fa del tiro a segno, ma vuole sparare alla selvaggina più rara, non può pretendere niente, neanche di fare centro, figuriamoci di essere pubblicati, vendere, essere contesi dal bel mondo, trovarsi le veline nel letto.
Nessuno è tenuto a pensarla come me, naturalmente, ma ad ogni rifiuto editoriale penso che il mondo esisteva anche prima di Dante e, tanto quanto, tirava avanti lo stesso. Figuriamoci se non può fare a meno di quel che scrivo io ! Sarà modestia (o miseria) mentale, scaramanzia o quant’altro: io la penso davvero così.
E’ nato FANTAPOESIA.
Primo Blog di indiscrezioni, voci, lazzi, scazzi, incazzi dedicato al variegato mondo dei personaggi più importanti della nostra poesia.
http://www.fantapoesia.splinder.com
Buona lettura a tutti.
Ciao da Aldo Rete
L’analisi di Moresco è senz’altro puntuale e difficilmente smentibile nelle sue idee forti. Tuttavia, resto ancorato a un concetto, un pò problematico, che è quello dell”impegno”. Io non so più cosa sia, e so che in molti su questo blog si arrabbieranno per quello che rischio di dire -magari senza neppure esserne troppo convinto – cioè che di fronte alla tragedia dell’omologazione, della violentemente imposta compatibilità tra Industria (Capitale finanziario) e Consumatore (Capitale umano), molte delle risposte degli scrittori delle nuove generazioni sono finite in nulla.
Spari a salve.
Il discorso sarebbe lungo e non credo di essere in grado di sostenerlo, cerco di riassumerlo in poche righe e con un libro soltanto: “Le mosche del capitale” di Paolo Volponi.
Secondo me, è l’ultimo tentativo di smascherare e contrastare il Grande Inganno, la tragedia dell’Uomo schiacciato sotto la sua stessa accumulazione di oggetti e simboli egoistici, narcisistici.
E il narcisismo, la risposta individuale, lamentosa, autoreferenziale, insomma diciamola tutta, ombelicale è il tratto distintivo di molta letteratura anche di chi frequenta questo blog e di alcuni scrittori di riferimento per esso.
Forse tutto questo sta già cambiando – e non voglio dimenticare “lettere a nessuno” di Moresco, per carità – ma, anche se vi sembrerò sciocco o ingenuo, la linea che va da Vittorini, appunto, a Volponi (e con quale differenza tra la fede ottimistica del primo e il senso dell’orrore del secondo!) è la meno battuta del secondo Dopoguerra in Italia.
L’unica spiegazione che mi so dare, ma non vorrei davvero fare slogan “facili”, è che Vittorini, Volponi, Giudici, anche Fortini se non ricordo male, e molti altri, e Sereni! – uomini che hanno avuto Potere, molto potere editoriale e/o culturale senza lasciare che questo li avvelenasse – in fabbrica ci andavano. Andavano a LAVORARE nelle aziende, si sporcavano le mani insomma.
Bisogna tornare là dove improvvisamente negli anni ’80 abbiamo smesso di lavorare.
Ma forse, io che non ho neppure 30 anni, scrivo tutto questo per sentirmi rispondere quel che ancora non so, o non ho capito.
Marco, ma che cazzo ne sai tu di dove sono passate o non sono passate le vite delle persone? Ma parla per te! Quello che ha “smesso di lavorare” sei tu. Parla per te, please.
Ineccepibile.
e grazie di cuore per aver anche parlato di librai, che infatti sono stati scavalcati, in quanto non funzionali, per completare la restaurazione.
Tutti d’accordo? Forse no.
I nomi citati come grandi del secolo scorso ebbere anche loro in vita difficoltà a pubblicare, no? Le conosciamo le storie dei loro calvari editoriali o no? E allora perché sempre questo prima edenico da rimpiangere?
Oggi si pubblica molto di più (per questioni di conto economico discutibili certo, cfr. Schaffrin Editoria senza editori), ma tra i 50000 titoli all’anno c’è più posto per essere pubblicati, almeno matematicamente.
Dove sono i geni incompresi che vengono cestinati dagli editori? Fuori i nomi, e non di quelli che poi alla pubblicazione ci sono arrivati, perché torneremmo solo agli iter tortuosi dei grandi sopra citati.
Che poi certe dinamiche di costruzione del best seller siano facilitate dall’uso dei media oggi, questo è un altro problema, che a mio avviso (che non ho letto Piperno, né Faletti, né Brown) si aggira parlando (soprattutto in rete) di altri libri, recensendo altri libri, presentando nelle librerie altri libri.
Allora: giù a segnalare ciò che sfugge per i tempi di vita sempre più brevi del libro. Questo mi sembra più condivisibile di tanta analisi apparentemente incontrovertibile, a mio avviso un po’ coda di paglia.
Un nome io ce l’ho, caro Squirt: Emilio Villa
Lello
Vi ho letto tutti con una certa fatica, anche quando condividevo. Perché non trovo quasi mai un po’ di buona e sana sintesi, soprattutto da parte di Moresco, lo stile serve anche a questo, o è diventata una parolaccia?
Aggiungo (ma è l’ultima volta che ci batto sopra) che ***nemmeno a livello di Nazione Indiana***, malgrado un ***formale invito***, è potuto passare un mio innocuo testo su Andersen. Per fortuna del ‘Violinista’ si parla altrove, per esempio nella prima pagina dell’inserto TTL de La Stampa di oggi. Hai voglia tu (e la Spalanchiusa tutta) a organizzare convegni sulla Restaurazione. Restauratevi prima voi:-)
Pardon, “de-restauratevi” prima voi:-)
Ora ci precipitiamo in edicola…
>
Alberto Savinio, nota 16 a Maupassant e l’altro, Adelphi, 1975, pag.98
condivido profondamente, dolorosamente quanto scrive moresco. ma lui vorrei proporre un supplemento al suo pezzo. io qui gli ho incollato alcune sue righe. Alla fine gli chiedo di fare dei nomi per ognuno di questi brani. in questo modo mettiamo i piedi nel piatto e poco importa se si rompe.
….perché anche loro si sono trovati ormai il loro piccolo ruolo negli ingranaggi di questa macchina o dei suoi spazi residuali, perché, dopo averla inseguita per molto con la lingua fuori, sono arrivati finalmente ad avere la loro fetta di potere all’interno e se la tengono stretta….
cinque nomi, per favore….
una generazione che si è nutrita di miti intellettuali critici e rivoluzionari e che ora o si è chiusa in un moralismo rancoroso, elitario e conservatore o si è ridotta a fare la mosca cocchiera e la guardiana dell’esistente e dello status quo e dell’abbassamento degli orizzonti nel campo nevralgico della cultura e dell’espressione artistica e di conoscenza, diventando addirittura, in molti casi, più realista del re.
tre nomi, per favore….
Si vive la continua sofferenza di assistere allo spettacolo di persone -anche sensibili e intelligenti e che avrebbero tutti gli strumenti per capire cosa sta succedendo- che invece si fanno prendere dalla paura di perdere chissà quale treno e quali occasioni e così si arrendono, si buttano via, entrano in logiche stritolanti. Vendendosi in molti casi per niente. Le loro stesse persone, i loro corpi e i loro volti e le loro menti subiscono una torsione, diventano rapidamente irriconoscibili, si cercano un’identità che pare a loro meno difficile da gestire nel bazar di quelle che vanno per la maggiore.
tre nomi, per favore
in una fase di ripiegamento e di distrazione epocale, si usa da parte di pochi l’arma della sopraffazione, del condizionamento sistematico, dell’inganno, dell’illusionismo e della paura per tenere in scacco le vite e cancellare in esse il ricordo stesso delle loro possibilità di creazione, di libertà e di invenzione.
cinque nomi, per favore
Ogni funzionario editoriale addita a propria discolpa e alibi qualche buon libro che pure ha pubblicato, i suoi tre poeti, ecc -e anche questo è vero. Ma tace sul funzionamento generale della macchina in cui si trova e che pure conosce molto bene, che rende sempre più ristretto, aleatorio e inoperante lo spazio in cui si muovono invece le manifestazioni in controtendenza, per il funzionamento implacabile e invasivo della macchina e per l’occupazione atmosferica di gran parte degli spazi reali e delle sedi in cui si formano le strutture di giudizio.
tre nomi, per favore…
Esiste anche qualcosa che viaggia in una direzione diversa. E mai come adesso. Persone che -ciascuna a suo modo- scrivono senza arrendersi, librai che non accettano di trasformarsi in venditori di saponette, editori nuovi che nascono o si rafforzano cercando di seguire altre strade, singole persone che lavorano anche all’interno della grande editoria e dei giornali e della nuova frontiera della rete animate da un diverso atteggiamento e da una vera passione.
sette nomi, per favore…
Credete di avere vinto, di avere il mondo in pugno e invece siete solo degli esecutori, dei conformisti, degli ignavi.
tre nomi per favore
Che bravo Moresco, sembra proprio il migliore del mazzo. Mi chiedo però se qualcuno avrà davvero il coraggio, la capacità e l’indipendenza (anche in termini biecamente economici e sociali) necessari a tracciare una mappa completa del campo di battaglia, facendo cioè i nomi ed includendo pure se stesso, e la propria parrocchia, nell’oggettivazione smascherante dei comportamenti e delle strategie.
Devo dire infatti che a me la stessa “Nazione Indiana” (ed i suoi satelliti alleati: Lipperini, Mozzi, Genna ecc.ecc.) sono sembrati costituire una sorta di “cordata” (ricordo che l’uso di questo termine, sul blog di Atelier, fece un po’ incazzare Tiziano Scarpa – allora in “visita di cortesia” – che sembrò quindi ricorrere proprio alla retorica del “risentimento” stigmatizzata da Moresco) impegnata più a pubblicizzarsi, imporsi all’attenzione, sgomitare ed allargare la propria briciola di “potere” che non a ricercare delle logiche di interazione autenticamente innovative e “liberatorie”. Dopo un poco di partecipazione, ho avuto infatti l’impressione che la stessa discussione che avviene in questo luogo sia alquanto “cosmetica”, anemica, subordinata ad una rigorosa distinzione tra “autori autorevoli”, che cerimoniosamente si parlano soltanto tra di loro, “garzoni di bottega” dagli atteggiamenti vagamente servili, e la “marmaglia” che commenta dal di fuori (con tanto di “mosche” guardiane – anonime – che fanno il lavoro sporco). Senza negare i lati positivi dell’impresa, rimango dunque abbastanza scettico sulla sua effettiva vocazione emancipatoria e demistificante: l’ipotesi di un marketing furbescamente paludato di idealità rimane ancora del tutto compatibile con l’osservato, anche se potrebbe trattarsi più di limiti intrinseci che non di cattiva volontà. Ma staremo a vedere. I’m here to stay :-)
Bravo Elio! Son quelli come te, che vedono marketing dappertutto (persino nelle imprese culturali senza un grammo di autopubblicità da parte di autori affermati, che di pubblicità non ne hanno alcun bisogno), a essere i paladini della restaurazione. Sono quelli come te che “hanno l’impressione” (ma, guarda caso, non la sanno mai articolare, non la spiegano mai, tranciano giudizi generici) a fare da solerte zavorra dello status quo. Sta’ pure a vedere, quelli come te questo san fare. Stare. Fermi. Immoti. A sparar giudizi. Senza muovere un dito.
Non lo biasimare, Julio. Il povero Elio Copetti sta parlando di sé. E’ lui ad autopromuoversi con un sito e un blog dove mette in rete i suoi dipinti. Quando parla di autopromozione, sa bene di cosa si tratta perché la pratica in prima persona.
Sì, certo Manlio – benché non ci sia valenza commerciale (ma non fingerò di farlo apposta) anche la mia è pur sempre “autopromozione”, non mi escludo affatto dall’analisi dei comportamenti. Quanto a Julio, ok, cercherò di articolare meglio le mie perplessità, non si tratta certo di temi facili.
Aggiungo soltanto questo: il mio intento non era quello di “sparare a zero” su Nazione Indiana & associati. Si tratta, dal mio punto di vista, di una “costellazione” di siti che irradiano una molteplicità di “rappresentazioni”, di non facile interpretazione e proprio per questo assai stimolanti. Inoltre, non detenendo alcun “potere” che oltrepassi ciò che scrivo, esprimo le mie reazioni con una certa libertà. Nell’intervento di Moresco, ho ravvisato una sorta di “chiamata alle armi”, un’appello spiccatamente “morale” che però non mi è possibile correlare sensatamente alle “rappresentazioni” fin qui colte, che mi parlano di personalità spesso brillanti ma abbastanza “mimetiche” da un punto di vista “filosofico” e quindi “politico”, e che non riesco quindi a discernere agevolmente dal “nemico” che viene evocato. Il mio “stare a vedere” non significava quindi l’intenzione di “non muovere un dito” bensì la volontà di provare a mettere gradualmente a fuoco queste differenze (attraverso una interrogazione che riguarda anche me stesso). Siccome non posso “esigere” delle spiegazioni” che ovviamente nessuno è tenuto a dare, mi limito ad esprimere questa mia particolare “fame epistemica”.
Riflettendo ulteriormente sulle parole di Julio&Manlio, direi che il concetto di “impresa culturale senza un grammo di autopubblicità da parte di autori affermati, che di pubblicità non ne hanno alcun bisogno” andrebbe approfondito, anche perché la pubblicità può benissimo essere implicita (come quella che mi sto facendo io ora) e perché di pubblicità non si fa evidentemente mai il “pieno”. Ma non c’è niente di male nell’autopromuoversi e nel cercare di guadagnare: nel bisogno economico non vi è certo molta libertà. Non contesto neppure l’ipotesi che si tratti di una “cordata” che lega in qualche modo i migliori (i più dotati, i più aperti, i più innovativi) tra i “giovani scrittori” sulla scena, io non posso giudicare, anche perché la narrativa italiana non è proprio al centro dei miei interessi. Ciò che mi sembra più interessante è come questi personaggi si stiano (valorosamente) guadagnando spazio ed attenzione sui media: tanti sono i riferimenti che uno incrocia che è quasi impossibile non venire prima o poi “dirottati” verso di loro, scoprendo quindi che i loro discorsi ed interessi non si confinano affatto nella letteratura, ma investono (anche in virtù della contiguità tra il ruolo di scrittore e quello di giornalista) il campo culturale e politico tout court, ovvero il campo del potere. Mi sembra quindi naturale cercare di capire quali caratteristiche abbia questa sorta di “movimento”, per poi magari decidere di sostenerlo, nel caso esse risultassero “compatibili”. Però ecco, la difficoltà maggiore sta proprio nel sistematizzare logicamente le rappresentazioni che si colgono: le mappe risultano spesso contraddittorie, spiazzanti, sembra impossibile raggiungere quel quadro di chiarezza – disegnando il campo di *tutti* gli interessi in gioco – che permetta all’interlocutore di comprendere le diverse posizioni e traiettorie, e relazionarsi di conseguenza. Certo, è la nostra stessa realtà ad essere complessa e quasi incomprensibile, tuttavia, come in molte altre “imprese culturali” anche questa sembra alla fine configurarsi su due livelli: quello rivolto alle “masse” (seppure a scolarizzazione relativamente alta) – semplificato, superficiale, “comunicativo”, sentimentale, carismatico, “modaiolo”, e quello degli “addetti ai lavori”: ultra-sofisticato, (auto-)ironico, cinico fino alla spietatezza. Una doppia configurazione che sembra fare il suo bravo lavoro, raccogliendo masse di “fans” ad un polo e selezionando una coda di sodali (iniziati a barlumi di comprensione “strategica”) dall’altro. Come al solito, le strategie sembrano in fin dei conti ben celate, tutt’al più se ne potrà parlare “di persona” – magari in quei mitici ritrovi al bar. Tutto questo, si badi bene, non mi induce ad una “condanna”, ma soltanto a mettere in forse la natura innovatrice ed emancipatrice che mi pare si tenda a dare a quest’impresa, che sembra fare uso di una retorica da “opposizione” abbastanza strumentale. O meglio, l’opposizione magari c’è, ma pare semplicemente finalizzata all’affermazione di una certa élite rispetto ad altre. Di conseguenza, un appello come quello di Moresco mi sembra se non altro prematuro, e insufficiente alla “mobilitazione” almeno di quelli, come me, che forse si ritrovano tra l’uno e l’altro dei due terminali, perplessi come l’asino di Buridano. Personalmente io mi aspetto da Internet qualcosa di molto diverso, qualcosa di “estremamente” più trasparente e radicale, ma si tratta ancora di utopie, di cui si vede soltanto qualche debole e parziale modello (come “l’open-source” nel software).
Sarà chiaro, a questo punto, che non sono ancora in grado di padroneggiare gli strumenti concettuali (sociologici ecc.) di cui avrei bisogno in questo mio tentativo di comprensione. Ma li sto studiando, e dunque il presente può essere visto come una specie di esercizio, che se magari non indurrà qualche “illuminato” a venirmi incontro chiarendo pubblicamente un po’ di aspetti, dovrebbe per lo meno illustrare meglio la natura del mio “interesse” e quindi, se non altro, a rendere l’ingiuria nei miei confronti (che non considero mai del tutto infondata) un poco più mirata, e quindi per me più interessante.
Elio, però è comodo dire che c’è la cordata e i ragazzi di bottega. Fai vedere tu la strada allora. Fai come Genna, come Franz, come Mozzi, come la Lipperini, come Wu Ming, come Sergio Baratto e metti su un tuo blog senza cordate e ragazzi di bottega.
Per il resto non so se Moresco è il migliore del mazzo come dici tu, però nella prima pagina de “Il vulcano” si legge: “Quando gli scrittori parlano di queste cose [un’idea di letteratura] tirano sempre e comunque l’acqua al mulino della propria “poetica”. Io non faccio eccezione.”
Secondo me non è marketing, è ambizione, perché se vuoi lavorare bene devi avere in testa quell’idea lì.
Sì, certo Andrea, quella dei “ragazzi di bottega” era una sbavatura, un po’ di cattiveria incontrollata che però non ritengo del tutto infondata – mi è infatti sembrato di intravedere una certa sudditanza psicologica negli interventi “minori”, una certa paura di “sgarrare”. Comunque a me non dispiace essere fatto oggetto di una simmetrica “cattiveria”, sempre che chi la esercita ritenga davvero di andare a pungere “sul vivo” (altrimenti è perdita di tempo). Ciò che non mi piace è piuttosto la “neutralizzazione” del pensiero critico che sembra conseguire da amicizie ed “alleanze”. Ad un simile costo io preferisco non stipularne (ed infatti ne conto davvero pochine). Quanto alle “strade”, io ne ho anche tentate, anche se operando in campo artistico, e finora sono tutte fallite: limiti personali e limiti ambientali, non saprei dire in quale proporzione, in fondo non importa. Una precisazione sul “marketing” – non si tratta di un insulto, e credo che tale concetto si possa applicare ugualmente bene alle transazioni tanto del capitale finanziario quanto di quello sociale e simbolico. Credo possa servire perfettamente a distinguere tra un parlare e ragionare “sul serio” ed un leggiadro menare il can per l’aia a scopo propagandistico, distinzione che sembra ormai del tutto sfumata in un ironico caos tipicamente postmoderno. Ma il fatto è che coloro che dispongono degli strumenti adatti a cogliere simili “strategie” dovrebbero impegnarsi a demistificarle ad uso dei più ingenui, e non accodarsi per usufruirne a loro volta. Quegli strumenti di “ottundimento delle menti” di cui parla Carla Benedetti, beh, devo dire che non mi sembrano poi tanto scandalosamente “inauditi” in questi ambiti. Tra i tanti esempi che proprio non mi tornano: Genna è forse un personaggio d’ “opposizione” come vorrebbe farci credere in “Carmilla”? Penso che non sia difficile stabilire che D’Orrico sul Corriere della Sera Magazine fa del marketing – ed anche particolarmente repellente nelle sue modalità implicitamente canzonatorie nei riguardi del pubblico – eppure Genna lo difende a spada tratta (ma certo, sono io a non aver colto l’ultra-meta-ironia che lo contraddistingue, e che gli permette in pratica di superare l’impaccio di qualsiasi coerenza). Genna scrive poi un vero sproloquio – una puttanata solare degna di comparire in appendice su “Frodi Intellettuali” di Sokal&Bricmont – sul Papa morente e la Lipperini prontamente lo linka e lo esalta nel suo blog, e così via … allora, dato che non si tratta affatto di gente di poco conto, chiedendomi “ci sono o ci fanno”? devo rispondermi “ci fanno”, e la cosa mi infastidisce un po’, perché una critica credibile – che voglia incidere sul piano sociale e politico – dovrebbe guardare il mondo a 360 gradi, senza dimenticare le proprie tasche e quelle dei propri amici. Ma anche questa è utopia.
infatti una scrittura che fosse tale dovrebbe tenersi lontana dall’editoria, ignorarla- penso al panella che disse “non mi darò che in musica” e che ha avuto solo un paio di perdonabili cedimenti con l’allora veramente minima minimum fax-
La novità della settimana è:
“La stroncatura di Nove [al romanzo di Piperno] è politica”
A me non pare proprio, ma è quello che circola su Lipperatura e su I miserabili, con buona pace di Elio che vede un blocco unico di arrampicatori e portaborse.
Beh … Andrea, io ero qui proprio per rendere più acuto il mio sguardo, per imparare a discernere ed invece … ho ci trovato qualcos’altro: la constatazione di essere stupido. Ho letto l’articolo di Genna che hai indicato, e mi ha annichilito: ehi, non è mica scemo come quello sul papa, anzi, mi ha fornito l’orribile impressione di una competenza reale, che se si estende anche al di fuori del suo milieu letterario … beh, sono fritto. Ho letto poi il sospirato pezzo di Luminamenti e lì mi sono reso conto che la mia capacità di operare con le cose astratte è terribilmente limitata, dopo due o tre passaggi al “meta” le mie risorse cerebrali si sono brutalmente esaurite. Alla luce di questi nuovi dati ho riletto alcuni articoli … ehi, ma qui tutti mi sopravanzano, di mille leghe. Dunque mi arrendo, me la batto, mi ritiro. Mi scuso sinceramente con Tiziano Scarpa per averlo trattato un po’ ingiustamente in passato, e con tutti gli altri per avere schizzato un po’ fuori dal vaso. Certo, continuerò a non leggere la narrativa italiana, ma adesso per motivi opposti a quelli che mi erano stati ispirati da Fahrenheit (con la acca in mezzo … giusto?) ovvero che gli scrittori fossero tutti delle personcine un po’ alla Sinibaldi, dalle quali era impossibile attendersi chissaché, ora mi sembrate tutti dei mostri, degli “uebermeschen” della cultura, dai quali mi potrei difendere soltanto mettendo mano (metaforicamente) alla rivoltella. Me la filo allora, in ambienti meno competitivi.
Ma dai, non spaventarti per così poco, quelli lì copiano le frasi dai bignanimi di filosofia e poi ci aggiungono qualche aggettivo d’effetto tipo “ermeneutico”, “epistemologico”, tanto per spaventare gli ingenui. In realtà, il più delle volte, spaventano solo la Lipperini:-)
uffa. BIGNAMINI.
Tu quoque Lucio, dunque controfirmi anche tu la mia patente di ingenuo! Ed io che avevo preparato un lacrimoso addio alla Stepan Trofimovic, nel quale peraltro esortavo N.I. a riconciliarsi con te, ammettendo qualche piccola colpa e pubblicando il tuo scritto, sicuro che anche tu avresti corrisposto con entusiasmo ad un simile passo … adesso sono più indeciso sul da farsi … quasi quasi torno indietro e ridò battaglia.
Troppo tardi, ormai il mio testo è finito qui:
http://www.filastrocche.it/contempo/angelini/lucio_it.asp
No, Lucio, non mi spavento se qualcuno mi dice “epistemologico”. Mi spaventa l’arroganza: a quella, nonostante la non verde età, non riesco ancora ad abituarmi.
Elio: no, la parola “cordata” non mi piace. Preferirei “affinità”. E quanto al linkare prontamente, credo che un blog serva anche a dare notizia di quanto di interessante si scrive sugli altri blog, appunto, affini. Non lo faccio solo con Genna o con Nazione Indiana, come, se hai la pazienza di sbirciare, potrai verificare da solo. Tutto qui
Sono contento che ti spaventi la loro arroganza, Lipperini. Hai visto con che improntitudine prima mi hanno invitato a mandare un pezzo, poi mi hanno detto: ‘Pussa via, cane rognoso!’
Pare che uno di loro abbia anche borbottato tra i denti (da latte): ‘Quel lurido negro, sporco ebreo, omosessuale, donna!’:-/
Da parte mia, voglio mettere fine al tormentone della “cordata” con un’ultima considerazione. Mi sembra strano che gente così attenta, sensibile e dotata, non trovi di straordinario interesse “l’attimo fuggente” in cui la “produzione simbolica” – propria della sfera personale – si “addentella” (o meno) ai giochi sociali. Non dico che lì sia la radice di tutto, ma dico che è lì che andrebbe indirizzato l’obiettivo più potente del microscopio. Invece, la questione viene sempre liquidata in fretta, oppure ne viene fatto motivo di inutile polemica (suvvia, cerchiamo di “astrarre” un pochino dalle nostre vicende personali) prendendone sempre la parte meno interessante. Non userò più dunque il termine “cordata”, che per chi va in montagna non è poi così spregevole, ma la questione rimane degna di interesse, almeno più del tipo di mutande che porta Piperno, credo. Beh, vedete un po’ voi…
Caspita, se la stroncatura di Aldo Nove è politica. Non solo: è anche politicamente scorretta. E comunque ottiene l’effetto contrario: perchè gli farà vendere anche di più.
Sì, Moresco convince quando, per definire i nostri temporamores, parla di restaurazione trasversale ai vari ambiti (dal politico all’economico al religioso), e chi può dubitarne? Ma non c’è bisogno di risalire al tempo di Stendhal o del Congresso di Vienna, basta sfogliare le pagine della nostra storia d’Itaglia della Prima e Seconda Repubblica, per vedere che le rotture antirestauratorie si possono contare sulle dita di una mano, sono durate una breve stagione e poi la restaurazione ha ripreso il sopravvento. Comunque, quelle rotture non si sono dissolte, si sono in qualche modo accumulate, magari in modo sotterraneo, e rispuntano fuori, in minoranze, finora, ma rispuntano in quelli che non hanno mai tenuto la lingua penzoloni nella corsa verso il potere. Però fare dell’oggi un momento eccezionale a livello di restaurazione, no, non mi pare proprio. La storia dei rifiuti che la grande editoria italiana, dal dopoguerra in poi,ha fatto nei confronti di molti tra gli scrittori stranieri che Moresco cita, da Proust a Freud, ai quali io aggiungerei anche quelli di casa nostra, da Tomasi di Lampedusa a Morselli (ognuno puo’ aggiungerci i suoi), non è una novità del nostro tempo. Semmai oggi ci troviamo di fronte a un cambiamento epocale, in cui gli intellettuali a livello di critica militante sono stati liquidati (o hanno fatto harakiri), e il potere editoriale, intellettuale, mediatico si è concentrato (potrebbe apparire un paradosso, ma parlo del vero potere, a cui si aggiunge poi quello diffuso studiato da Foucault, o quello rizomatico di Deleuze e Guattari)in poche mani. Purtuttavia sostengo che oggi non ci troviamo di fronte a Madame LA Restaurazione, ma a una fase storica, specifica, della stessa. Perché la restaurazione è lo status quo, il trend dominante, più o meno visibile a seconda dei tempi e delle situazioni, ma cose come la censura, per fare un esempio, non sono una invenzione del governo attuale o del patron delle Tv. Inoltre, come può esserci restaurazione nelle dimensioni politica ed economica e non in quella culturale? Le tre cose non sono mica a compartimenti stagni.
[…] Tra denunce infocate e alquanto reboanti dello stato di crisi e ragionevoli proposte di soluzione al problema, la diatriba si sviluppa da qualche tempo, equamente ripartita fra libri, riviste, rotocalchi e blog letterari. Impossiile per noi fondisti della lettura anche solo tentare di tener saldo fra le dita il filo di cotanta discussione. Meglio cogliere al volo un frammento del discorso, una scheggia tematica, una parola riassuntiva, e su quella imbastire una fugace nota a margine. […]