Laureata, 40 anni, 250 euro al mese
di Aldo Nove
Parla con pacatezza, la mia interlocutrice. Nella sua voce ci sono l’orgoglio di una storia privata che ha da sempre cercato di dare un senso all’esistenza nella sua integrità, nel privato e nel sociale. Continuando a testimoniare valori che per troppi, nella nostra generazione, sono vaghi, lontani. Anche per necessità. Per impotenza reale. Eppure esistono persone incapaci di smettere di lottare. Come trapela da questa conversazione.
Incominciamo?
Incominciamo pure. Allora, mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, vivo a Roma, guadagno 250 euro al mese…
250 euro al mese?
Lavoro in una scuola paritaria. Una scuola di studenti lavoratori, aperta dalle 18 alle 22.30. 250 euro è quanto ho guadagnato l’ultimo mese. E’ quasi nulla. Vado avanti in questo lavoro quasi per inerzia, per fare punteggio. Ho un contratto ad ore, un ex co.co.co. che però ancora è rimasto tale, che dovrebe cambiare e resta così, nel caos ministeriale. Su quaranta docenti che lavorano nella mia scuola venti sono in regola, gli altri lavorano in nero.
Com’è possibile?
E’ una scuola potente, e quindi ha protezioni e non ha subito ispezioni…
E a parte questa esperienza?
Ho riversato le altre energie, assieme ad una mia amica, mettendo in piedi un’agenzia di stampa di donne, per donne, che si chiama Delta news. Abbiamo una pagina web che aggiorniamo ogni notte. Questo è il mio impegno più gratificante.
Quanto guadagni, dall’agenzia?
In termini economici, nulla! Adesso abbiamo contattato un account che sta cercando di migliorare la pagina web e vendere l’agenzia come prodotto.
Cosa altro fai, per vivere?
Per ora, insegno anche in un corso regionale, di pomeriggio, un pomeriggio a settimana. Però è un impegno per un numero preciso di ore, cinquanta, che inevitabilmente finirà. Poi ogni quindici giorni collaboro con un’altra scuola, dove abbiamo ideato un corso di giornalismo per ragazzi. Sono attività che in realtà mi piacciono tutte, ma essendo sporadiche, pagate in modo irregolare e poco, non mi danno nessuna forma di sicurezza…
Come arrivi, a fine mese?
Quando non ce la faccio proprio, mi aiuta mia madre. E’ difficile, vivere così. Cerchi di pensare che siamo in tanti, a vivere in queste condizioni, ma il pensiero non è sufficiente a combattere l’ansia che ti dà una precarietà così forte. E quando investi la maggior parte delle tue energie nell’organizzazione dell’esistenza quotidiana è difficile, è molto difficile immaginarsi una progettualità. Anche le passioni, anche l’amore per quello che fai sono duri da sostenere.
Con l’ansia della sopravvivenza si posono fare poche cose…
Purtroppo è così. E quando, come me, sei cresciuta con la passione per la politica, ti trovi a doverla abbandonare perché devi pensare solo a sopravvivere. E’ una continua aggressione della realtà nei tuoi confronti. Ti rendi conto giorno per giorno che la tua laurea, i tuoi decenni di esperienza non hanno nessun valore contrattuale, che sul piano del lavoro non sei niente. A quarant’anni poi cominciano i primi bilanci. Magari pensi “ok, adesso posso lavorare anche sedici ore al giorno per pochi soldi, lo faccio perché mi piace, ma fra qualche anno non ce la farò più fisicamente”. E allora inizi a pensare, a logorarti…
Come ti immagini, tra dieci anni?
E’ una domanda difficilissima. Non riesco a immaginarmi con qualche sicurezza. Mi auguro di trovarmi in una situazione un po’ meno dolorosa da organizzare. Quello che so è che tra dieci anni non avrò la stessa forza che ho oggi per gestire tutto questo. Già adesso ci sono dei momenti in cui sono molto, molto stanca…
Hai accennato all’impegno politico, all’agenzia web… E poi le difficoltà del quotidiano… hai mai pensato di mollare tutto?
Sì, certo, ho pensato di mollare tutto. E’ una stanchezza rabbiosa che talvolta ti prende, che ti dice di andartene.
Dove?
Dove non mi devo sbattere quindici ore al giorno per pagare l’affitto. Lontano da una città invivibile come Roma. Ho pensato di andarmene anche dall’Italia, facendo richiesta di insegnamento all’estero, ma non essendo di ruolo è molto difficile. In questo momento, se fossi in grado di farlo, me ne andrei ovunque potessi pagare un quinto dell’affitto che pago. Questa città, che ho scelto vent’anni fa quando dalla Calabria ci sono venuta per fare l’università, l’ho sempre amata. Ma ora viverci è diventato davvero difficile.
Un tempo, mi pare di capire, non era così…
Sono venuta qua a studiare, e qua ho deciso di rimanere. Con grande investimento di passione, con entusiasmi. Dandoci tutta me stessa. Tutto quello che ho costruito è qui. I miei amici, le relazioni. Ma il tempo di una giornata, con i suoi problemi immediati, è talmente predominante che tutto quello che hai costruito in decenni poi non riesci a vivertelo, giorno per giorno. Non ce la fai. Esco alle dieci e mezza di sera da scuola, non vedo gli amici, non vado al cinema… Poi arriva il fine settimana, quando cerchi di ricucire i fili, ma se sei distrutta dalla fatica…
Torniamo per un momento ancora più indietro, ai tempi del liceo…
L’ho fatto a Cosenza. Lì ho iniziato a frequentare i primi collettivi femministi, a 14 anni, in seconda liceo. Ricordo che eravamo vicino all’8 marzo e io, completamente digiuna di esperienze politiche, andai a una manifestazione. Ne rimasi affascinata. A casa mia il dibattito politico era molto acceso. Mia madre era una convinta democristiana, mio padre attivista del Pdup. Non si discuteva, si litigava. Comunque mio padre, pur essendo lui impegnato politicamente, non voleva che mi interessassi di politica, perché sottraevo tempo allo studio. Se sapeva che dovevo partecipare a un collettivo mi rinchiudeva in stanza… Mentre mio fratello, più grande di me di cinque anni, di politica non si interessava.
Qual era, allora, il tuo sogno?
In realtà, sognavo di scappare via dalla provincia, e fare la scrittrice. Volevo scrivere romanzi. Poi per fortuna non l’ho fatto… Al di là dell’impegno politico, a Cosenza, l’unico mio pensiero era abbandonare la provincia, e venire a Roma a fare l’università.
Com’è stato l’impatto con la metropoli?
Entusiasmante quanto impegnativo. Erano anni molto vivaci. Cominciai a frequentare gruppi di donne, partecipando a un giornale del movimento femminista. Una esperienza bella. Formativa. La politica mi ha dato tanto.
E oggi, la politica, cosa ti dà?
La complicazione della vita privata, il problema della sopravvivenza, come ti dicevo già prima, ti inaridiscono. Mi rendo conto che non riesco a essere attenta a quello che succede. Bisogna stabilire un limite, fare delle scelte…
Ad esempio?
Ad esempio… la maternità. Sono andata alla manifestazione per la liberazione di Giuliana Sgrena e delle mie amiche, con figli piccoli, mi hanno detto che invidiavano il fatto di averlo potuto fare, di essere potuta scendere in piazza senza la preoccupazione di un bambino piccolo da accudire, mentre io invidiavo loro il fatto che avessero un figlio di cui occuparsi! C’è una situazione di malessere generale, di senso quasi tragico, di uno smacco, nonostante tutte le battaglie che abbiamo condotto…
Pensi che le donne paghino maggiormente questo malessere?
Penso di sì. Al di là dei piccoli privilegi astratti ottenuti nel tempo, che a volte non sono astratti ma anche reali, lo vivo e vedo nell’esperienza diretta. Le donne fanno più fatica. In una condizione di precariato te lo scordi, di mettere al mondo un figlio, questa è la verità. E chi i figli li ha fatti, si trova magari a rendere conto ai propri bambini delle proprie nevrosi, delle proprie insicurezze. Siamo tutte un po’ raffazzonate… C’è una parola che forse riassume tutto…
Qual è?
Inadeguatezza.
Cioè?
Il senso di non riuscire mai a far fronte alle cose nel modo migliore, con serenità, con il necessario distacco. Credo che sia un problema di tutti. Ma da parte delle donne significa anche la responsabilità di non potere essere una madre come l’esistenza ti chiederebbe di essere. Allora provi rabbia, tristezza. E ogni tentativo di creare delle cose diverse fallisce. Ti senti sola. Ci sentiamo tutti soli.
Torniamo a te, agli anni dell’università.
La mia famiglia non è mai stata benestante, quindi ho sempre lavorato e studiato nello stesso tempo. Sempre lavoretti precari. Anche per questo motivo ci ho messo un sacco di tempo a laurearmi.
E dopo la laurea?
Avevo dato vita a una piccola agenzia, lavoravo in una scuola privata, sempre con l’aiuto di mia madre.
Tua madre, oggi, cosa pensa di te?
E’ angosciatissima. E’ una persona molto apprensiva, ed è ovviamente molto preoccupata della mia precarietà. Ho sempre disatteso le sue aspettative. E lei ha sempre cercato, comunque, di non giudicarmi. Mi aiuta. Ma è molto tesa. Anche perché a questo punto, alla mia età, dovrei essere io, a aiutare lei.
C’è stato un momento in cui hai sentito che le cose erano cambiate per sempre?
Negli ultimi due anni. Ho incominciato sempre più a pensare di ritornare a casa e non è facile, quando in tutti i modi hai cercato di costruire qualcosa, per decenni… Vent’anni non sono nulla. Continuo ad avere legami affettivi forti, a Cosenza. Quest’autunno ho pensato seriamente di chiudere tutto e tornare là. Ma il problema è il lavoro.
E’ peggio che a Roma, a Cosenza…
Molto peggio. Perché qui facendo 44 lavori contemporaneamente e lavorando 15 ore al giorno sopravvivo, mentre in Calabria il lavoro non esiste proprio. Ho pensato anche che era un peccato mio d’orgoglio, il rifiuto di tornare indietro, ma più che orgoglio è proprio la realtà. In Calabria lavoro non ce n’è. In realtà, più che tornare, era il desiderio di potermi fermare, di poter riposare a spingermi al pensiero del ritorno…
Pensiero pienamente legittimo.
Legittimo. Ne ho un gran bisogno. Ma non me lo posso permettere. Se mi fermo adesso che succede? In realtà, la fuga è dal quotidiano. Ma il quotidiano è dappertutto. Se avessi i soldi per farlo lo farei. Ma sono così stritolata dal circuito della vita al dettaglio che non riesco ad alzare il tiro delle previsioni per il mio futuro… Da qualche anno a questa parte penso ad avere un figlio, ma non lo posso fare, un figlio. Non posso proprio.
Perché?
Perché non sono autonoma. Non è solo un fatto di soldi. Trent’anni fa facevi un figlio e anche senza soldi c’era una struttura che ti reggeva in un ruolo. Adesso sei sola. Completamente sola. E’ una sensazione di vuoto pneumatico. Anche solo vent’anni fa non era così. Oggi, fare un figlio è un lusso. Un lusso inaudito. Le statistiche dicono che ci vogliono 230.000 euro per crescere un bambino. E un’altra tristezza ancora si aggiunge a tutto questo.
Quale?
Sentire che il desiderio di avere un bambino, oggi, è semplicemente illegittimo. Perché tutti te lo ripetono. Perché tu stessa hai interiorizzato questa cosa. Così alla fine non capisci neppure più quali sono i tuoi desideri. Ti senti irrisolta emotivamente. Ti senti una bambina di 40 anni. Non credo che anche solo una generazione fa le cose fossero così.
A questo punto mi viene da farti una domanda alla Marzullo, ma credo che dopo questa conversazione abbia senso: cos’è la felicità, per te?
E’ la possibilità di prendersi il tempo di capire. Di prendersi spazio per comprendere che cosa sta succedendo senza correre per sopravvivere. Significa potermi fermare per farmi una domanda sulla mia esistenza che non sia schiacciata dal peso condizionante della quotidianità che deforma tutto, che ingloba tutto…
Ancora, e sempre, la quotidianità…
Sì, le cose scorrono e io non riesco a collocarmi in una posizione di senso. Il che non vuol dire che ciò che faccio non mi piaccia. Ma ogni tanto arriva la domandina cattiva: “Che senso ha tutto questo? Come ti collochi nello spazio e nel tempo, come ti collochi qui?”. Ecco, la felicità, per me, adesso, è trovare le condizioni per articolare una risposta a questa domanda che si fa sempre più pressante.
E appunto in questo quotidiano, se le condizioni per trovare questa risposta non ci sono, come si fronteggiano le sue pressioni?
In tanti modi. Senz’altro ricorrendo all’autoironia. E’ un’arma fortissima. Riuscirsi a non prendersi troppo, sempre sul serio è una forma di salvezza empirica. Funziona. Ma alla fine ci vuole un equilibrio notevole.
Sei sempre stata di sinistra…
Sì.
Cosa vuol dire, oggi, essere di sinistra?
Accogliere con estremo rispetto la domanda che sorge non solo nel tuo immediato circondario ma dappertutto, nel mondo intero, di giustizia, di rispetto per la vita umana. Per me essere di sinistra significa anche che un cambiamento è possibile. Ancora. Malgrado tutto.
Dall’altra parte, a destra, oggi cosa c’è?
Il cinismo. L’ipocrisia dei valori. Della stessa parola “valore”. Mi fa orrore pensare che Roma sia tappezzata di manifesti che inneggiano all’idea della “patria”. E’ difficile attivare un antidoto a questo malcostume, a questa volgarità.
Tu insegni. Come li vedi i ragazzi di oggi?
Smarriti. Condizionati da una semplificazione della realtà che è difficile da reggere perché non è la verità, e ciò crea ansia. Allora come insegnante inevitabilmente mi chiedo: “Come inserire dei margini di dubbio, di criticità in delle persone che sono già terrorizzate?” Oggi i ragazzi sono aggressivi perché hanno bisogno di un riconoscimento umano, affettivo. Per collocarsi nel mondo senza terrore. Per pensare appunto che un cambiamento sia possibile.
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Pubblicato su Liberazione, marzo 2005
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Mi sento nello stesso (identico!!!) stato d’animo, sebbene io abbia lasciato l’Università (praticamente alla fine) per accalappiare “appena in tempo” un contratto a tempo indeterminato e salvarmi le chiappe.
Stesso senso di inadeguatezza, di incertezza. Stessi problemi nel pagare l’affitto. Stessa difficoltà a “collocarmi in una posizione di senso”.
capisco molte delle difficoltà di questa donna…ma trovarsi un lavoro che dia uno stipendio decente non è certo difficile anche a roma…se certo decidi di aspettare tutta la vita un lavoro ideale che forse non arriverà mai mi sembra un vivere in una dimensione parallela di sogno…farsi mantenere dalla famiglia a 40 anni è quanto meno una forma di scarso rispetto per se stessi e per i familiari…anch’io ho lavorato durante l’università dai 23 ai 27 anni…i miei sono operaio e casalinga…e ci ho messo un po di più degli altri…ma se la situazione è grave non sto certo li ad aspettare un tram che non passerà mai..ci si adatta a fare altro…ma mi pare che per la signora “altro” vuol dire chiedere soldi alla mamma…
Il commento di Enrico Rossi mi crea una profonda amarezza. Come a dire che se una realtà è allucinante allora vuol dire che, in prospettiva ultraliberista (E’ Berlusconi a dire che gli italiani “sono bravi” e che al massimo, con “qualche lavoretto in nero, si arrangiano”), la “colpa” è di chi la subisce. Perché? La “signora” (da me intervistata) che “non si adatta a fare altro”, e per cui “fare altro” significa “chiedere soldi alla mamma” sta aspettando mese dopo mese soldi che le spetterebbero di diritto, soldi di lavori precedenti fatti tempo fa, che dovrebbe avere già ricevuto da parecchio, e che la regione da una parte e l’unione europea dall’altra non le hanno dato. Questa l’ha portata a ridursi così. Dopo essersi fatta il culo a LAVORARE GRATIS. Non l’attesa di un tram che non passa. Il problema non è, berlusconianamente, la buona volontà. il problema è che IL LAVORO INTELLETTUALE NON VIENE PAGATO. Con buona pace dei penpensanti che evidentemente non hanno mai provato finti contratti, licenziamenti improvvisi, promesse di “pagherò” mentre il tempo passa, e una presunta “dignità” dovrebbe invece consentirti di “adattare a fare altro”. Con orgoglio e umiltà dimostrerò con decine di interviste (non con invenzioni letterararie), fino a che potrò, quello che è sotto gli occhi di tutti e nessuno vuole vedere. L’eccezione (il quarantenne che non riesce in alcun modo legale a recuperare i 2000 euro al mese che ci vogliono per vivere in una metropoli) è diventata la regola. E in questo SISTEMA la “buona volontà” non c’entra niente.
Un’assistente sociale di ruolo nel Comune, inquadrata quindi come “D”, cioè come un funzionario, se vive sola deve scegliere tra avere un’auto e pagare l’affitto.
Spero di non contravvenire ai comuni stili di comportamento, ma tengo molto a ringraziare Aldo Nove per questa intervista tanto preziosa. Sono tempi difficili per chi svolge lavoro intellettuale.
Tanti sacrifici, tanto studio, tante cose da dire e da pensare ora frustrate dai mille stupidi lavori che si svolgono solo per arrivare appena sopra la soglia d’indigenza. Se solo si potesse bisognerebbe organizzare un’emigrazione di massa verso Parigi, lontano da questo paese!
qui non è tanto il lavoro intellettuale che non viene pagato, o almeno non solo. il problema è ben più generale. il signor enrico rossi mi sembra uno di quei personaggi sempre pronti a dare giudizi, ma che delle cose, in realtà sa poco. perchè se quello della precarietà è un problema che coinvolge tutti, in special modo le nuove generazioni, le più colpite sono inevitabilmente le donne che devono fare fronte,senza riuscirci, ad un numero maggiore di “responsabilità”. a 40 anni un uomo in determinate condizioni è semplicemente (passatemi il termine) un fallito, mentre una donna nelle stesse condizioni non solo è una fallita, ma è anche una madre frustrata o inadeguata. che poi fallito. se per realizzato si intende ricco, è ovvio. quello che è vero è che avrei voluto, vorrei, prendere questa intervista, dal tono così pacato e ragionevole, e proprio per questo ancora più schiacciante, ed affiggerla per le strade di roma, per RACCONTARE come ci si sente. come si sente la maggior parte delle persone della mia età ad esempio (ho 29 anni) che non stanno, no, signor rossi, mani in mano ad aspettare il lavoro della vita mentre si fanno passare soldi sotto banco dai genitori. Ma per lo più si tratta di persone che lavorano per 15 ore, persone che NON hanno DIRITTI (perchè la signora Roberta fa l’insegnante, ad esempio, non sta a casa a guardare la tv o che so io, ma NON ha DIRITTO ad un contratto). perchè il pensiero costante dalla mattina quando ci svegliamo alla sera a quando andiamo aletto è: “oggi ce la faccio, ma se domani non ce la dovessi più fare?”. SOLITUDINE ed INADEGUATEZZA e, spesso, senso di colpa. ringrazio anche io, come Jacopo, aldo nove e roberta.
sono daccordo con emilia quando dice che l’uomo quarantenne che vive in condizioni di precarietà lavorativa e’ solo fallito mentre la donna e’ fallita e (madre) frustrata. questo e’ quanto vive, considera, delibera la maggioranza. ma io colgo l’occasione per una riflessione che si allontana un po’ da quelle sul precariato. rifletto sull’essere femmina / essere madri. come mai dell’uomo dal lavoro precario, seppure senza figli, si dice fallito e non anche (padre) frustrato? mentre nel caso della donna il binomio femmina madre (ipotetica o reale) e’ d’obbligo. forse perche’ un tempo era l’uomo a portare i soldi a casa, la donna cresceva i figli, la donna era madre primaditutto. per fortuna le cose sono un po’ cambiate. una delle nostre grandi liberta’ rispetto a quella delle nostre madri, rispetto ai 30 anni fa di cui dice roberta, quando la condizione lavorativa, di una donna come di un uomo, non era cosi’ precaria, ebbene una di queste libertà e’ il superamento di un binomio intellettualmente asfissiante: femmina = madre. se non figli non sei una vera femmina.
ma questo binomio esiste ancora. forse e’ anche perche’ credo che questo binomio esista ancora che, nonostante la mia lungimiranza, ho dei dubbi rispetto al referendum sulla fecondazione assistita. dubbi sottili, dubbi paradossali per una femmina della mia generazione.
da dove viene tutta questa voglia di esibire una pancia gravida? da dove viene tutta questa voglia di portare i bambini al parco? non lo so se viene solo dalla natura. credo che venga anche da una coercizione alla maternita’ della quale anche donne illuminate sono suddite.
bella e intensa comunque l’intervista, e roberta la sento molto sorella.
Un uomo o una donna di quarant’anni che fa un lavoro intellettuale seppure sottopagato a mio avviso non è mai un fallito. Dirò di più: i falliti non esistono se non nell’autoconvincimento del singolo che tale si sente. Comprensibile da un punto di vista umano, certo. Ma parlare di fallimento presuppone l’ottenimento di un traguardo tramite una “performance”. Un intellettuale non ha traguardi. O accetta con stoicismo questa precarietà proprio fisiologica o, per quello che penso io, puo’ tentare di fare il manager assaltatore di successi, se ha le conoscenze. O l’impiegato “a libri” se non le ha, o ne ha di minor peso.
in generale daccordo con quanto dicono alessandra (Anche se per il tuo nello specifico bisognerebbe effettivamente aprire un discorso a parte, tanto è complesso)e Franz, ma ci tengo a sottolineare che il mio discorso è riferito a ogni professionalità. molti sono gli operai non qualificati che vivono in condizioni di precarietà. non credo che la percezione della propria realtà sia differente. anzi. emilia
Alessandra, concordo al 100%. Non credo affatto che il desiderio di maternità sia “naturale”. D’altro canto, il tuo discorso non si distanzia molto dall’argomento dell’intervista, perchè la precarietà molto spesso ha volto femminile, ed è il volto femminile della cura. Agli esordi (“di sinistra”, ricordiamocelo:)la “flessibilità” è stata sbandierata come fantastica opportunità per le donne, che così potevano conciliare meglio FAMIGLIA e LAVORO. Altro che part-time. Quindi ben vengano riflessioni come queste, anche se ci portano lontane nel tempo, a ravanare tra gli esordi del biopotere e indovina sul corpo di chi:). La legge sulla fecondazione assistita imho resta comunque insensata e crudele. Una porcata che va rispedita al mittente, senza se e senza ma:).
aldo, o antonello, o come cazzo ti chiami veramente, un consiglio: cambia psicanalista. quella che hai ora, ha fallito. renditene conto. ha creato una vittima lamentosa recriminante che non va da nessuna parte. è ferma. impiantata. pure nel campo letterario. ripudiala. uccidila. prima che sia troppo tardi.
Sono un docente, ho lavorato in scuole paritarie diurne come co.co.co. L’intervistata dice di guadagnare 250 euro al mese, è poco, certo, ma quante ora ha di cattedra? Lo stipendio di un professore dipende da quello, senza questo dato è un controsenso concludere che guadagna poco. Per quanto mi riguarda, quando lavoravo come co.co.co non guadagnavo meno di un docente con contratto a termine, se non per la mancanza della liquidazione finale e delle assenze per malattia. Chiaro poi che i co.co.co son meno tutelati, ma… chi ha inventato questi contratti? Berlusconi?
Il problema non è il fatto che il mio ‘lavoro intellettuale’ sia sottopagato, è che mi risulta difficile lavorare a tempo pieno (cioè almeno 18 ore di cattedra) e, soprattutto, che per molte classi di concorso in province come MILANO è quasi impossibile diventare fisso, a tempo indeterminato, e quindi ogni anno a luglio mi trovo nella condizione di non sapere dove andrò e quanto guadagnerò a settembre.
E questo succede, credo, perché i precari costano meno allo stato dei professori di ruolo.
Per adesso, a caldo, e in pochissime righe, non avendo ancora letto il libro, ma con l’intenzione di ritornare sull’argomento a libro letto: le recriminazioni personali vanno benissimo, l’osservazione sociologica (che sia spontaneistica o meditata in questo caso non fa importanza). Ma Aldo Nove ha scritto un libro, ovvero ha fatto letteratura. Quindi dovremmo parlare anche di questo. Ora, Sebastiano Vassalli, nella sua nota alla raccolta di racconti “La morte di Marx” scrive: “Dopo aver pensato per vent’anni (credo a ragione) che il presente non fosse raccontabile, ho voluto tornarci per vedere se era cambiato qualcosa.” Ma arriva tardi, ci arriva spompato e non ha capito un cazzo: non ha capito, soprattutto, che era già passato Nove con il suo “Woobinda” che segna, questo sì veramente, una svolta. L’einaudiano rivolto di copertina al libro di Vassalli recita: Vassalli “ci dice che la modernità è finita. Tutto è cambiato e anche la letteratura, se vuole fare i conti con la contemporaneità, non può più essere la stessa che si è scritta o letta fino a pochi anni fa. Dunque questo è un libro di svolta. Sicuramente per Vassalli. Forse anche per la letteratura”. Ora credo (e il mio parere è che il libro di Vassalli sia piuttosto brutto e insignificante) che la letteratura può tranquillamente essere la stessa che si è scritta fino a ieri, credo che Kafka (checché ne dica Vassalli) continui assolutamente a essere moderno ma credo soprattutto (ma, ohibò, mi ricrederò dopo aver letto il libro di Nove? non penso…) che la vera svolta sia quella impressa dal Woobinda di Nove e ora, come immagino, da questo nuovo libro che dovrebbe, sul piano critico, sollevare enormi questini: stile, deletteraturizzazione, epica ecc ecc. Non tutte le cose che ha scritto Nove mi sono piaciute, non ne condivido alcune posizioni ma penso che nei suoi scritti circoli l’aria del grande realismo, del realismo formale intendo (non si pensi a Cassola vi scongiuro), ovvero del realismo che mette a nudo i rapporti di forza che governano, da sempre, la società.
Dovevano essere poche righe, sono state un po’ troppe e scritte di getto. Me ne scuso, ma vogliono, per intanto, valere come invito a parlare anche dell’aspetto letterario dell’operazione. Grazie