J’accuse e altre poesie

di Aharon Shabtai

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poesie tradotte dall’ebraico da Davide Mano

Questo Stato

Questo Stato messo su da cooperative di lavoratori e pionieri.
Questo Stato nato accanto a una fetta di pane e marmellata.
Ora viene venduto come salsiccia a uomini d’affari
E accaparratori di capitale.
Domani dopodomani questo capitale se ne andrà, tra tre giorni Sarà come se non ci fosse mai stato.
Nel frattempo i privatizzatori accumulano titoli e si lavano
Il culo nello champagne.
Quanto ai privatizzati, alcuni saranno poliziotti o mercenari
Al servizio di imprenditori assicurativi,
Altri saranno cacciati di fabbrica, licenziati, faranno scioperi.
E la sera rivedranno se stessi in tivvù:
Chi dalla parte dei picchiatori, chi da quella dei picchiati.

(da “J’Accuse”, 1997)

Rosh ha-Shanah

Neanche dopo l’omicidio del piccolo Muhammad
A Rosh ha-Shanah
La carta si è fatta nera,
Nei giorni in cui
I franchi tiratori si lavano la divisa
Io mi metto su una pasta,
Verso dell’olio d’oliva
Ci faccio rosolare delle bacche di ginepro
Cucino il tutto per un paio di minuti
Aggiungo qualche pomodoro essiccato,
Dell’aglio tritato, e un pugno di erbe aromatiche
E mentre mangio appare
In tivvù il nostro dottor ministro
Degli affari esteri e della polizia,
E appena finisce
Io mi metto a scrivere una poesia,
Perché è sempre stato così,
Gli assassini uccidono
L’intellettuale si vanta
E il poeta canta.

(da “J’Accuse”, 2001)

Pasqua

Invece di far bollire
Pentole e piatti
Sfregatevi i cuori
Con lana di acciaio.
Voi che leggete
Il racconto pasquale
Come maiali,
Che appena vi si serve da mangiare
Vi mettete a grattare il fondo del piatto,
Che vi sia sedano o polpette.
Ma la Pasqua è più forte di voi.
Uscite fuori, guardate:
Gli schiavi si stanno sollevando,
Una mano coraggiosa sta seppellendo
Nella sabbia l’oppressore,
Ecco il vostro Faraone
Crudele e stupido,
Che spedisce truppe e carri,
Ed ecco il mare della libertà
Che li inghiotte.

(da “J’Accuse”, 2002)

Io amo Pasqua

Io amo Pasqua
Perché allora torni prima.
E come ogni anno
Andremo a Kiriat-Mozkin
E tra i calici di vino
E le bottigliette del charoset
Zvi racconterà
Della “marcia della morte”.
Poi torneremo a Tel Aviv,
E mentre guiderai con il buio,
I vetri dell’auto
Saranno coperti di vapore,
Allora io poserò la mano
Sul tuo ginocchio.
Appena rincasati ci metteremo a letto
E festeggeremo il nostro
Seder pasquale privato.
Io mi vedo che
Accosto le labbra al tuo ventre
E penso al miele,
Mentre giù in strada
Si aggira ancora il nostro angelo.

(da “J’Accuse”, 2002)

Poesie recenti

Io non odio il popolo

Io non odio il popolo
In gran parte sono solo cetrioli
Che van bene per l’insalata
O come sottaceti
Si vendono sempre a buon mercato.
Gli intellettuali si gonfiano
Fino a diventare zucchine,
Zucche, meloni,
Hanno poco zucchero
E tanta acqua.
I soldati che ho visto
Al posto di blocco di Sufa
Sono stati portati in jeep a Rafi’ah
Come bottiglie di birra
O scatolette di carne.
Che una volta svuotate
Saranno buttate assieme con noi
Sullo stesso mucchio.
E dovrei forse arrabbiarmi
Per una bottiglia scaduta
O per una scatoletta vuota?

(2004)

Quattro blocchi stradali

A chi prende l’Ariel
Capiterà di vedere
All’imbocco di ognuna delle quattro magre
Diramazioni che portano ai villaggi
Un’opera d’arte israeliana:
Un blocco stradale fatto con un cumulo
Di spazzatura e pietrame.
Uno a Marda,
Uno sulla strada per Zeita,
Tra Tapuach e Ya’asuf,
E sotto il ponte
Di Iskaka.
Io li ho portati tutti
A casa da me,
Ed ora prima di addormentarmi
I quattro blocchi
Sono davanti ai miei occhi
Tra il letto
E il guardaroba.
Su quello di Iskaka
E’ appesa la carcassa
Di un lupo,
Il blocco di Zeita invece
È fatto di cinque
Cubi di cemento
Ordinati con freddezza
Perfettamente allineati
Ed equidistanti tra loro
Come le braccia del candelabro di Hanukkah.

(2004)

La cultura ebraica

La cultura ebraica assomiglia
A due sorelle
Di buona famiglia,
Entrambi maritate
A soldati,
Ufficiali di carriera.
La prima a Pinki,
La seconda a Bugi.
Di primo mattino
Pinki e Bugi s’alzano.
Il primo scorrazza in giro
Con i suoi carri armati,
Va a seminare morte
Nei quartieri poveri,
A distruggere case
Davanti a vecchi e bambini,
Mentre il secondo scruta
Da dietro gli occhiali
E dopo un esame attento
Prende di mira interi villaggi
Di piantagioni in fiore,
Trasforma intere città
In campi di concentramento.
A venti chilometri di distanza
Nulla si sente più
Se non il ronzio di un innaffiatore.
I libri sono tornati
Al loro posto sullo scaffale
Dentro le loro belle copertine,
E le due sorelle
Possono dedicarsi alle loro ricette,
Si mettono a cucinare.
La prima prepara un gulash per Bugi,
La seconda una pasta per Pinki.

(2004)

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3 Commenti

  1. Cavolo è da pubblicare immediatamente in Italia…sono versi e pensieri cruciali, indispensabili, necessari.

  2. mi farebbe piacere sapere se scrive direttamente in inglese o in israeliano… l’ironia è tagliente ma il suo orizzonte culturale mi pare più anglosassone che ebraico. almeno a quanto pare dai pochi saggi qui proposti!

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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