La guerra è bella?
di Linnio Accorroni
Autore de“Il fascino oscuro della guerra” (Laterza, pp. 200, 16) Chris Hedges è stato famoso corrispondente, per molti anni, dai fronti di guerra per la stampa Usa: su questo libro,qualche giorno fa,è apparsa una breve recensione sul “Corriere della sera”.
Una trucida epigrafe jungeriana (“Di fatto ogni epoca si esprime non solo nella vita costruttiva, nell’amore, nella scienza e nelle arti, ma anche nell’orrore. Compito del soldato deve essere la cura dell’orrore”) fungeva da introduzione atta a suggerire il tono di questo pamphlet, che esalta mirabilie e prodigi dell’evento bellico, la sua devastante potenza costituita da un mix imparagonabile di bellezza, crudeltà, doping adrenalinico.
Motteggia e liricheggia il prode Hedges, deridendo l’imbelle pigrizia di noi molli e sedentari antimilitaristi pan-pacifisti e panciafichisti, rispolverando tutto un repertorio consunto di retorica tribunizia e con uso di traslati che, per sostanza e forma, ci riportano alle ‘radiose giornate di maggio’, al bellicismo estetizzante delle arringhe dannunziane e delle invectivae alla Fallaci:: « la seduzione della battaglia genera assuefazione…Solo stando in mezzo a un conflitto la meschinità e l’insulsaggine di tanta parte della nostra vita ci appaiono evidenti. (…) E la guerra diventa un elisir inebriante». Purtroppo, la vena marinettiana di Hedges, la sua folle propaganda bellicista, nell’epoca dell’Imperium americano e del Fanatismo teologico, non è isolata, ma gode di echi e contrappunti quantomeno inattesi. Forse Baricco non ne ha tutte le colpe – o invece è un abilissimo edificatore del culto di sé medesimo, (Andrea Cortellessa su un Alias di qualche tempo fa l’ha definito incarnazione di un mid-cult nuovo: quello dell’ Affabulatore Confidenziale: “ L’Affabulatore Confidenziale rompe le convenzioni, salta le mediazioni, sorridente si sbarazza di lacci e laccioli. Per finire magari in Tivù, come il più lenza di tutti, a firmare qualche contratto per gli italiani”) ma ormai tutto ciò che tocca questo Re Mida dei tempi nostri si trasforma in evento numinoso, si circonfonde di un’aura mediatico-glamourosa, con torme adoranti di proseliti che ne officiano, devoti e grati, il culto: Anche l’ultima tappa di questa liturgia (L’Iliade di Baricco/Omero) ha conosciuto persino l’inconsueto onore del prime time televisivo, un’ intera puntata de “L’infedele” di Gad Lerner: ‘La Cultura, Omero, i Libri in prima serata!’ ( quest’ultima frase va pronunciata col tono estatico-sospiroso da ‘Stasera tutti da Fulvia’ la strip di Pericoli e Pirella).
Questo libro, al di là della trasmissione di Lerner, ha suscitato una clima di accese polemiche, tanto che consiglio di visitare il sito della Feltrinelli per gustare la polifonica eterogeneità di un coro di indignati recensori che, dall’alto di cattedre, accademiche e non,con tinte grottesco-sarcastiche, lanciano strali e bacchettate contro il libro ed il suo autore.
Non volendo addentrarmi in questa divagazione filologica e tornando a quella specie di teratologia morale che vede nella guerra una ‘cosa bella’, ciò che più atterisce, nell’Iliade di Baricco, è che la consacrazione e celebrazione della guerra, sia pur talvolta celata da circonlocuzioni e dissimulazioni, appare chiara, inequivocabile. Dixit Baricco: “dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello”.
Così un Papini d’annata, su un numero di “Lacerba” del 1914” : “La guerra è spaventosa e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e di struggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi”
Ma ancora Baricco “…l’Iliade raccontava questo sistema di pensiero raccogliendolo in un segno sintetico e perfetto: la bellezza. La bellezza della guerra – d’ogni suo singolo particolare – dice la sua centralità nell’esperienza umana: tramanda l’idea che altro non c’è nell’esperienza umana per esistere veramente”. Continua :”Quel che forse suggerisce l’Iliade è che nessun pacifismo deve dimenticare e negare quella bellezza… il compito di un vero pacifismo dovrebbe essere non tanto demonizzare all’eccesso la guerra, quanto capire che solo quando saremo capaci di un’altra bellezza potremo fare a meno di quella che la guerra da sempre ci offre. Costruire un’altra bellezza è forse l’unica strada verso una pace vera”.
A leggere queste frasi, si prova una vertigine olfattiva strana, il retrogusto miasmatico del “dulce et decorum est pro patria mori” che si mescola con l’irresistibile dolcezza dell’odore del napalm di mattina presto, in Vietnam. Di che cosa odoravano i corpi degli iracheni a Falluja?
Magari, nello stesso scaffale di polemologia, accanto ai testi del duo Hedges–Baricco, se ne possono trovare altri, usciti più o meno in tempi coevi, i quali servono a rinfrancare la fierezza antimilitarista e antibellicista dell’estenuato panciafichista: due autori tedeschi, due libri sulle due guerre mondiali.
Il primo, “Guerra alla Guerra”, è un repertorio fotografico, recentemente pubblicato negli Oscar con una bella prefazione di Gino Strada: libro che nasce da un intento di commovente semplicità, quando l’anarchico tedesco Ernst Friedrich, decise di rivelare al mondo il vero VOLTO della guerra – nell’accezione più letterale del termine – pubblicando una raccolta di foto del primo conflitto mondiale.
L’approccio di Friedrich può persino apparire ingenuo, a partire dalla fiducia nella veridicità “dell’occhio inesorabile ed incorruttibile dell’obiettivo fotografico” e nella essenzialità pauperistica delle didascalie che annotano questo repertorio di orrori; ma le foto dei volti dei mutilati di guerra nelle ultime 50 pagine meriterebbero davvero lo spazio, se non di una dolorosa riflessione, di un prime time televisivo a reti unificate.
Volti sconnessi e deturpati, con nasi e bocche che assumono dimensioni sconce e raccapriccianti, visi mostruosamente sfigurati e latranti, come in certi ritratti di Bacon o nell’ “Elephant man” di Lynch. La visione dell’orrore è poi amplificata da una chiosa di Friederich che spiega come: alcuni mutilati di guerra si fossero rifiutati di fornire le loro generalità ed altri, soprattutto i più orribilmente sfigurati, non si lasciarono fotografare, “temendo che i parenti, ignari del loro aspetto, potessero sentirsi male alla vista di tanta miseria, o inorridire, abbandonandoli per sempre”
E’ W.G. Sebald che in un altro testo di formidabile attualità, “Storia naturale della distruzione” ci racconta la storia di un libraio di Amburgo che smerciava sottobanco, alla stregua di paccottiglia pornografica, le fotografie dei cadaveri disseminati per le strade. Piano piano, ma irresistibilmente, la disinformazia del regime massmediatico ci sta convincendo che questa è la strada giusta: troncare e sopire, sopire e troncare.
Nello specifico, per esempio, ci si vuole convincere che Giuliana Sgrena è una poco di buono, una che andava a rompere i coglioni in posti che era meglio non frequentare, una che, un tempo, si sarebbe liquidata come ‘fiancheggiatrice” o comunque omogenea all’area terrorista. In seconda istanza, l’altra morale che si deve ricavare da tale vicenda è che della guerra non si deve trattare: non bisogna solo far finta che non esista (si denomini quindi ‘missione di pace’ l’intervento armato, anche se in sommo dispregio del dettato della nostra costituzione repubblicana), ma si dica anche, con ineffabile aplomb, che della guerra è meglio non parlare, non testimoniare e che, se proprio lo si deve fare, lo si faccia con la menzognera cautela dell’ informazione-embedded, autocensurata.
Nell’altro libro remedium allopatico al duo Hedges-Baricco (“Storia naturale della distruzione” di W.G.Sebald, Adelphi,2004) c’è una testimonianza dello scrittore svedese Stig Dagermann : nel1946 viaggiava in treno percorrendo quella specie di wasteland che era diventata la Germania, dopo i spaventosi attacchi dell’aviazione inglese: un milione di tonnellate di bombe, 40000 incursioni, 131 città attaccate a più riprese,alcune delle quali vennero letteralmente rase al suolo, 600000 civili vittime, tre milioni e mezzo di alloggi distrutti…
Nel treno, affollatissimo, l’unico a guardare fuori dal finestrino e contemplare, annichilito, quell’unico lento sfilare della “più raccapricciante distesa di rovina dell’intera Europa”, è solo lui, Dagermann, prova manifesta del suo essere straniero, non tedesco.Queste sono le sorti magnifiche e progressive verso le quali dovremmo piegarci, questo è quello che si desidera anche per noi: tutti dovremmo, come quei disgraziati cittadini tedeschi, ignorare ciò che sta al di là del finestrino, pensando che così non vedere equivalga a rimuovere, vanificare.
Sebald si domanda perchè così poco si sa di ciò che i tedeschi hanno pensato e veduto tra il 1942 ed il 1947: ogni testimonianza sia scritta che orale, andava cancellata perché poteva spezzare, con la logica incontrovertibile ed inoppugnabile del reale, quel “ cordone sanitario con cui la società circonda le zone di morte prodotte da brecce distopiche”. L’opera di rimozione acquista una sua necessarietà da cono d’ombra che, provvidenzialmente, si allargava sui massacri di cui si era vittima per ‘coprire’ e celare quelli di cui si era stati ‘volenterosi carnefici’: “ un popolo che aveva assassinato e torturato milioni di persone nei suoi lager non poteva certo chiedere conto alle potenze vincitrici della logica politico-militare che aveva imposto la distruzione delle città tedesche”. Un meccanismo ed una dinamica spietati che ci riguarda assai da vicino.
E’ curioso,poi, che le uniche vere, non stereotipe cronache dell’orrore, nel libro di Sebald, riguardano testimonianze che riguardano il bombardamento dello zoo di Amburgo, con i rettili giganti che si contorcevano per il dolore nell’acqua alta, i leoni asfissiati e carbonizzati, le scimmie i cervi che giravano liberamente, gli uccelli volati via dagli enormi gazebo: Sebald nota che lo sgomento che ci coglie a leggere del massacro degli animali è addirittura superiore a quello, sottoposto a censura preventiva, sulle sofferenze patite dagli uomini, anche perché gli zoo, nati in Europa dalla volontà dei sovrani di esibire il loro potere, sono una specie di replica del giardino dell’eden.
Anche Kusturica, in quel delirio ebbro sotto forma di film che è “Underground”, inizia con le immagini della distruzione dello zoo di Belgrado: gli elefanti che si aggirano smarriti per la città, la tigre che sbrana il cigno, gli orsi impazziti, le scimmie urlanti.
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Purtroppo temo che il signor Linnio Accorroni non abbia letto il libro interessantissimo di Hedges che sta qui sulla mia scrivania.
Il giudizio sommario è quanto meno superficiale anzi deviante dallo spirito steso del testo: temo che questo signore ne abbia letto forse una pagina o la seconda di copertina.
Si veda questo brano finale della prefazione:
“Il veleno della guerra non ci esenta dall’etica della responsabilità. Ci sono momenti in cui dobbiamo bere il veleno — proprio come una persona malata di cancro accetta la chemioterapia per sopravvivere. Non possiamo arrenderci alla disperazione. La forza è, e temo che lo sarà sempre, parte integrante della condizione umana. Ci sono momenti in cui la forza esercitata da una fazione immorale deve essere contrastata da una fazione che, seppure mai pienamente morale, è forse meno immorale.
Noi uomini del mondo industrializzato siamo responsabili dei genocidi di tutto il pianeta perché avevamo il potere di intervenire e non lo abbiamo fatto. Siamo rimasti in disparte a guardare i massacri in Cecenia, Sri Lanka, Sierra Leone, Liberia e Ruanda, dove sono morte un milione di persone. Il sangue delle vittime di Srebrenica, un’area della Bosnia sotto la protezione delle Nazioni Unite, imbratta le nostre mani. La generazione che ha preceduto la mia assistette più o meno con la stessa passività ai genocidi consumati in Germania, Polonia, Ungheria, Grecia e Ucraina. Questi massacri, come in Cronaca di una morte annunciata di Gabriel Garcia Màrquez, spesso erano stati resi noti in anticipo. Le trasmissioni della radio hutu di Kigali incitavano gli interahamwe, le terribili milizie hutu, a perpetrare il genocidio. Ma il distaccamento belga rimase in disparte a guardare, proprio come fecero le forze olandesi per il mantenimento della pace a Srebrenica.
La radio di Kigali non venne mai chiusa. Cominciò la mattanza. I piani di Milosevié per costruire una grande Serbia e la sua intenzione di usare la forza e la pulizia etnica non erano mai stati un segreto.
Ho scritto questo libro non per dissuaderci dalla guerra, ma per capirla. Soprattutto noi americani, che disponiamo di una forza così massiccia in tutto il pianeta, dobbiamo imparare a vedere in noi stessi il seme del nostro stesso annientamento. Dobbiamo guardarci dal mito della guerra e dalla sua droga, che possono, insieme, renderci ciechi e crudeli come alcuni di coloro che combattiamo.
Dopo l’umiliazione del Vietnam ci eravamo liberati di una pericolosa arroganza, e la nostra capacità di comprendere la guerra e riflettere su di essa aveva conosciuto un momento di grazia. Eravamo diventati un paese migliore. Ma ancora una volta il messaggio comincia a sfuggirci, proprio mentre ci troviamo di fronte alla possibilità di devastanti attacchi terrori-stici biologici o nucleari contro Washington o New York. Se l’umiltà che abbiamo conquistato con la nostra sconfitta in Vietnam non sarà la forza trainante della nostra risposta a futuri attacchi terroristici, anche catastrofici, saremo perduti.
L’unico antidoto per salvarsi dall’autodistruzione e dall’uso indiscriminato della forza è l’umiltà e, in ultima analisi, la compassione. Reinhold Niebuhr ci ha giustamente ricordato che dobbiamo tutti agire e poi chiedere perdono.
Questo libro non è un invito all’inazione. E un invito al pentimento.”
E poi c’è Gadda:
“E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che mi hanno dato oblio e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità.”
E poi c’è Oscar Wilde: “Gli uomini non smetteranno di farsi la guerra quando a tutti parrà ingiusta. Smetteranno di farla quando a tutti parrà volgare”.
Alla fine, Barrico ha ragione: sono spesso categorie estetiche a smuovere le coscienze e la storia. La guerra va sostituita, nella sua plurisecolare fascinazione e nell’atavica pulsione, da qualcos’altro.
Cosa esso sia… non si sa.
Probabilmente la Pace.
Per tutti.
Forse la Pace è solo un concetto fluttuante in attesa di depositarsi definitivamente nell’umanità.
E’ più complessa, ha bisogno di più tempo.
Ma questa è la visione ottimistica.
Pessimistica è la visione di chi crede – o teme – che la Pace sia solo una parentesi tra una guerra e l’altra. Per sempre.
C’est vrai: il signor Linnio Accorroni non ha letto il libro di Hedges: nè una pagina, nè la seconda di copertina. Nel post, però, mi sembrava fosse chiaramente specificato che ciò che scrivevo a proposito di quel libro derivava da una recensione del ‘corriere’.
Chiaramente specificato ? Alla faccia !
Bel modo di pararsi il culo, complimenti vivissimi!
Nemmeno stai a leggere le quarte di copertina, Linnio?
E poi non lamentatevi se nessuno capisce un cazzo di quello che scrivete!
non bastavano i futuristi…???
la tesi baricchiana – costruire un’altra “estetica” che scalzi quella guerresca – mi sembra una cazzatona enfatica e insulsa.
la guerra passa dentro il corpo della gente, letteralmente.
e la maggior parte della gente che va in guerra ci va perché costretta.
la guerra è una forma di tortura di massa, è il corpo e la vita umane usate come mezzo.
il diritto alla pace dovrà diventare il più fondamentale dei diritti umani.
il resto sono cazzate, ovviamente.
Le ultime due righe di Tashtego sono sacrosante.
Non ho letto la tesi baricchiana. Ma ho letto Ernst Junger. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ha scritto “La Pace”, un bel libro in cui è contenuta l’indicazione sul compito più impellente e importante che spetta all’umanità: trasformare l’immenso dolore della guerra nella sostanza su cui edificare la pace.
Guardando agli ultimi decenni vedo che il compito è stato largamente disatteso. Non solo. A me sembra che la responsabilità sia non soltanto etica, ma anche estetica. Cioè addebitabile anche all’assenza di un’estetica di respiro civile.
Riprendendo e rovesciando Tashtego, la mia idea è che “la guerra passa dentro il corpo della gente, letteralmente.”, e allora PROPRIO PER QUESTO MOTIVO occorre un’altra estetica, un’altra bellezza, di tipo militante, che si riappropri anche di temi come la guerra e la pace, come antidoto rispetto al disimpegno attuale.
Io non credo che l’estetica c’entri,
la questione è morale, economica, sociale e di sopravvivenza dell'”uman genere”.
Cioè dovremmo reinventarci gli slogan
“la pace è bella!”, “fate l’amore e non la guerra”?
Sono serviti a ben poco.
Serve di più dire: stare in pace conviene a tutti poiché la guerra è schifosa, costa, impoverisce in ogni senso e crea cause di ulteriori conflitti.
Per come la vedo io, invece, la riprovazione per la guerra non può avere una base puramente etica, né economica, né sociale. E il motivo, per me, è che la guerra non è un fenomeno che affonda le sue radici nell’ambito economico o sociale. Per me la vera radice è nella nostra anima, dove per anima si deve intendere l’essenza della nostra civiltà (le altre le conosco troppo poco per giudicare). Insomma, quello che i greci chiamavano polemos, “padre di tutte le cose”. Solo così se ne cominceranno a scorgere i reali contorni. E si vedrà che noi, guidati dalla nostra anima, stiamo lottando per affermare la nostra forma di vita su tutto il pianeta, e questo non può che scontrarsi con qualsiasi altra forma di vita. Nota che sto parlando di “forme”, non di classi sociali, ceti, individui malvagi, né di mere conquiste territoriali, né di fonti di energia in quanto tali. Né di squilibri economici visti come cause di guerre. Per me l’origine è tutta lì, nella nostra “forma”, nella nostra “anima”.
Per questo dicevo “estetica civile”. “Bello” e “brutto” non sono sinonimi di “piacevole” e “non piacevole”, ma principi di ricerca e affermazione di un senso diverso per il mondo. Cioè di un piano, un progetto, una visione globale, una “forma”. Che contenga, naturalmente, il livello economico, il livello sociale, il livello etico, ma che ne sia il principio ispiratore e non lo spettatore inerme.
Utopia? Può darsi. Ma personalmente non riesco a vedere altre possibilità.
teratologia nooooooo (con la voce cavernosa simildarthvader)
MASSIMO FINI-ELOGIO DELLA GUERRA-MARSILIO
La guerra: le sue funzioni, le sue ragioni, le sue pulsioni, la sua moralità. Per migliaia di anni è stato un evento fondante per gli uomini e per i popoli, ha creato e distrutto equilibri, ha determinato il ruolo degli Stati e delle Nazioni e i loro rapporti di forza, ha marchiato il nostro modo di essere, ha contribuito a formarci. Poi, con la Bomba e il ricatto atomico incrociato, la guerra è diventata il tabù dei tabù.
Oggi, con le drammatiche vicende in corso, la guerra ribussa alle nostre porte, torna di attualità. E torna di attualità anche questo pamphlet di Massimo Fini, apparso una prima volta quattordici anni fa quando la guerra non solo sembrava impossibile ma era addirittura impensabile.
Massimo Fini è nato nel 1944. Scrittore e giornalista, scrive per “Il Giorno”, “La Nazione”, “Il Resto del Carlino” e “Il Gazzettino”. È autore di Il conformista (1990) e di due fortunate biografie storiche: Nerone, duemila anni di calunnie (1993), Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta (1996). Per Marsilio ha pubblicato Di[zion]ario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina (2000, seconda edizione), Nietzsche. L’apolide dell’esistenza (2002, terza edizione), Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità (2002, quarta edizione) e la trilogia di saggi storico-filosofici La Ragione aveva Torto? (1985), Il denaro “Sterco del demonio” (1998), L’elogio della guerra (1989), che vengono riproposti in edizione tascabile.
livio,
saresti un buon soggetto per il forum dell’irregolare
http://www.irregolare.it
la guerra è bella se la osservi con gli occhi dell’odio…