Elogio dell’ateismo
di Sergio Nelli
Si parte sempre dagli effetti, non è un caso, nel discutere la questione dell’ateismo. Partire dagli effetti è rientrare nel dominio della psicologia che l’ateismo cerca di lasciarsi definitivamente alle spalle, di frantumare.
Se la religiosità umana in tutte le sue forme è originata da un bisogno psicologico, da una serie di bisogni psicologici, come sosteneva ad esempio Freud nell’Avvenire di un’illusione, con un radicalismo che richiama lo spirito dell’ala atea e materialistica dell’Illuminismo e il Nietzsche cosiddetto “illuminista”, il ruminare sulle conseguenze, sugli effetti, è un ripiombare in pieno nella palude dalla quale si vuole uscire.
L’ateismo è un fatto eminentemente razionale, un grande bisogno della ragione che non ci sta più a lasciarsi impaniare nella rete infinita dei desideri, dalle contraddizioni e dai trasformismi in cui cade qualunque teologia razionale. Freud l’aveva capito perfettamente e su questo ha detto cose definitive.
Gli atomi e il vuoto, ente e non ente. Non c’è altro, aveva sostenuto Democrito. Perché l’anima umana dovrebbe essere di una natura diversa? Dov’è quest’anima immateriale, e perché è immateriale (e immortale)? Anche Agostino arranca su questo terreno; come potrebbe essere altrimenti? E all’obiezione di Epicuro sul male non c’è, non c’è stata, non ci sarà risposta.
Se si esclude la cosiddetta teoria dell’impostura, l’idea nata cioè in ambito libertino, secondo la quale la religione avrebbe origine dallo sfruttamento della credulità umana da parte di alcuni impostori, il livello speculativo dell’ateismo è stato sempre molto alto.
Kierkegaard capì che dopo il disvelamento dell’illusione antropocentrica generativa della sensibilità religiosa e di fronte all’insolubilità della teodicea o c’era Kant e la religiosità mondana di Hegel o c’erano il paradosso della fede, l’abisso della fede, la distanza, la differenza.
Lo strappo vero, terribile, l’aveva comunque prodotto la speculazione spinoziana: non solo l’Etica, ma anche il Trattato teologico-politico, che mostra come ogni tentativo di interpretazione razionale dei testi sacri sia destinato al fallimento. E come non ci sia parola di Dio, come Dio, nessun Dio, abbia mai parlato.
E’ l’uomo che inventa i suoi dei. Siamo ancora qui. Inventa gli dei e valori e progetti che da questi dei sono ispirati; ma possono anche non esserlo. In fondo è questo il crinale in cui si consuma il fuoco di tutte le discussioni: il rapporto di necessità tra quegli dei e quei valori.
Ma è già un altro discorso, come ho cercato di dire, e siamo ormai slittati in una faglia. In una faglia, beninteso, che si è presa tutto il territorio.
“Addio, mostri, addio santi. Addio orgoglio. Non ci sono che gli uomini” concludeva Il Diavolo e il buon Dio di Jean Paul Sartre. A Sartre, benché non sia stato un pensatore originale e altamente creativo, è toccato un ruolo importante nella storia dell’ateismo: quello di scandagliare in lungo e in largo quella faglia, ripetendo un’unica verità: che i valori esistono per responsabilità umana, i valori esistono perché qualcuno dà senso alle cose.
Sartre ha cercato inoltre di fare con i suoi romanzi e il suo teatro quello che fece, in modo straordinario, Leopardi: cioè, incarnare il pensiero, affondare le idee nella dimensione degli affetti e delle emozioni, senza impaludamenti, ma anche senza paura di balbettare, come testimonia il percorso dello Zibaldone.
Non so se il nostro Leopardi abbia pagato troppo, artisticamente, come qualcuno sostiene, a certi pensieri dominanti. Tendo a pensare che sia un quesito ozioso. Perché l’ateismo lascia un senso di libertà, libera discretamente la testa. Si può perfino ricominciare a immergersi immaginativamente in quegli stessi bisogni a cui è stata chiusa la porta. Si può perfino fantasticare su altri mondi possibili, partecipare del buono dell’emozione e dell’invenzione religiosa, dare spazio a un culto dei morti, pensare oltre, accogliere lo strazio del nulla con la pietà come in Sussurri e grida di Bergmann, bestemmiare e protestare quale un novello Giobbe incredulo come capita all’ultimo Landolfi, invocare l’eresia di un Dio a cui non dobbiamo niente come fa il folletto scandinavo Lars Gustaffson in alcuni suoi romanzi o in opere che non sono romanzi ( finalmente, chi se ne frega).
Niente vieta che si possa amare la creatura, anzi, meglio, le creature. Che si possa scegliere con tutte le nostre fibre il buono insieme al vero, che ci si possa gettare a capofitto nella mater-materia, matrice, corpo divino (Spinoza), matrigna… Che ci si esprima senza l’obbligo del benpensare, che si lascino vibrare i sonagli più oscuri. O che si ricerchi, che si racconti, nella numinosità, perché anche “l’anima acquisti parvenza” (Peter Handke), ecc. ecc.
Comunque sia, troveremo sempre sulla strada qualcuno che ti dice “cultura del niente”, qualcuno che ammonisce, che colpevolizza, che ti vuole scaraventare dentro la palude, nella caverna, nella psicologia umana, come se non ci fossimo già dentro abbastanza.
Insipiens, così Anselmo d’Aosta nel suo Proslogion definiva l’ateo interlocutore. Insipiens non perché sciocco ma perché destinato allo smarrimento.
Ecco, l’insipienza dell’ateismo è diventata una leggenda della fede bigotta. Così come quella vischiosa e inestirpabile, ancorché infondata, dell’ateismo come fede. Siamo nel mondo della chiacchiera, il mondo in cui nemmeno le parole hanno il loro vero autentico peso.
Chi se non l’ateo può partecipare alla fascinazione drammatica che emana oggi un tentativo come quello di Anselmo, con la sua famosa prova ontologica, quando chiede all’avversario di riconoscere almeno sul piano del possibile l’esistenza di Dio?
Ma no, anche questa libertà non va bene. Diranno anzi: troppa libertà! La testa troppo aperta! Lo smarrimento necessario verrà indicizzato. Si formerà la slavina del trasformismo: credi nella bicicletta, tu credi nel vaso da notte, tu credi nell’alito, tu e tu che credete?, tu credi di non credere. Confonderanno teorie e credenze come Regan quando disse all’America che evoluzionismo e creazionismo si equivalevano. Diranno infine: chi regolerà le regole? Avranno bisogno di un fondamento fuori e indicheranno sempre il rischio della “fogna del comportamento”, per usare un’espressione inventata dagli psicologi comportamentisti, come se la caduta di Dio fosse l’equivalente di una crisi da sovrappopolamento in una colonia di topi, come se fosse lo scatenarsi della predazione metropolitana nel cuore di un blackout.
Anche i paradigmi della complessità o i vari olismi propiziano talvolta, certo in chiave meno rozza e più conoscitivamente produttiva, i pianti rituali sulla fede mancata (in questi giorni sui giornali perfino un Bertinotti precongressuale!), sul tramonto del sacro, sul rischio di un’ipertrofia coscienziale, sul timore di una perdita di radicamento ecc. ecc. Tutte cose che occorre ascoltare e capire, per carità, in una società in cui la pratica del vivere, la realtà effettuale delle cose, che sempre ci rammenta il fantasma dell’”acutissimo fiorentino” (Spinoza di Machiavelli), riducono tante volte Dio e la religio a una foglia di fico.
Ma, insomma, alla fine, c’è un nodo di cristallina razionalità nell’ateismo, che riguarda addirittura nemmeno il trascendente in sé ma la pretesa di vederlo operante nella natura e nella storia; c’ è un elemento di orgoglio prometeico, orgoglio e nullità, e una chance di comprensione delle cose, di penetrazione e compenetrazione con le cose. L’ateismo è primariamente questo. E se si insite troppo con la palude è legittima anche la mossa del barone di Munchausen: tirarsene fuori afferrando il proprio codino.
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il dubbio, caro Sergio, e’ che l’uomo che si afferma ATEO nel delirio di orgoglio prometeico non eserciti tanto chances di comprensione delle superiori leggi della materia e dei viventi ma riassuma solo nella sua propria Personalità ogni Dio personale e Gli si inchini. Percepisco sempre l’odore del delirio di onnipotenza (che ben conosco e rispetto) quando sento parlare di “ateismo”…… Forse il problema e’ dare per scontato che Dio e Dio personale siano la stessa cosa, dare per scontato che l’unica realtà e’ quella occidentale della nostra cristiana formazione. Certo, anche altro dice la filosofia d’occidente………
Geko
P.S. ingenuo, si, ma sono un anima-le….
“Perché l’ateismo lascia un senso di libertà, libera discretamente la testa. Si può perfino ricominciare a immergersi immaginativamente in quegli stessi bisogni a cui è stata chiusa la porta. Si può perfino fantasticare su altri mondi possibili, partecipare del buono dell’emozione e dell’invenzione religiosa, dare spazio a un culto dei morti, pensare oltre”
Sì, l’ateismo è una tappa importante. Ma restarci appollaiati, ripetendosi compulsivamente, all’infinito “il palazzo si è costruito da sé, il geometra è morto e non voglio neppure sapere chi è l’amministratore del condominio” a me sembra solo comico.
Anch’io mi divincolo di fronte al dio di certi catechismi, il burattinaio travestito da satrapo che ci avrebbe creati per servirlo, onorarlo, adorarlo. Ma oltre queste antropomorfizzazioni, oltre i preti (che non sono da buttar via, peraltro), oltre la psicologia, oltre, come dice Nelli, c’è un abisso in cui lanciare scandagli. O no, se non si ha tempo, non si ha voglia, se si è ottusi.
Bellissimo intervento, in ogni caso.
Ringrazio Sergio Nelli per suo pezzo rigoroso e ponderato, che credo permetta di procedere ben oltre la mia provocazione, in un ripensamento dell’ateismo. E certo il termine “ripensamento” suona un po’ troppo solenne. Ma tale tema, che è apparso ad alcuni peregrino o stantio, io credo partecipi di un fantasma maggiore. E non so se Nelli su questo è d’accordo. Il fantasma a cui alludo è quello di una cultura critica, o di una cultura di sinistra, che bene o male esige di essere nuovamente elaborata e ripensata. E se l’ateismo non sarà per forza un cardine di tale cultura, ne deve essere almeno un riferimento vivo, manifesto e appassionato.
Ora vengo al pezzo, per sottolineare velocemente alcune cose. Tra i punti fondamentali, uno che esigerebbe di essere ulteriormente chiarito: la confusione tra “credenze e teorie”. Il passo che inizia: “Si formerà la slavina del trasformismo, ecc.”. Questa confusione è regnata subito, anche nei commenti al mio post. Ed è di ordine concettuale. È particiolarmente perniciosa perché svia inutilmente dalle questioni fondamentali intorno a cui si scontrano le opzioni teiste (o politeiste) e atee. (Per me la questione della finitezza, ma anche il nesso non necessario tra dèi e valori, che sottolinea Nelli.)
Penso poi che le cose più belle Nelli le dica, quando mostra che l’ateismo non implica la cancellazione dell’esperienza religiosa (in termini di sentimenti ed emozioni fondamenali), citando Bergmann, Landolfi, ecc.
In conclusione, vorrei pero’ esprimere delle perplessità. Una riguarda la conclusione dell’articolo. L’ateismo a cui io penso è più vicino all’incertezza, alla fragilità, (al dubbio su cui insisteva Vereni) che allo slancio prometeico. E alla divaricazione estrema tra orgoglio e nullità, preferirei una progressiva consapevolezza del limite intrinseco all’esistenza e alla ragione umana.
L’altra perplessità riguarda l’eccessivo peso dato, in una discussione sull’ateismo, alla dimensione filosofica, ossia inevitabilmente tecnica, specialistica. Non perché questa non sia, di per sé, necessaria. Ma perché vi vedo il rischio di limitare l’ateismo ad un argomento per dotti. Vi è infatti anche un’altra via all’ateismo, e forse più popolare di quella strettamente speculativa. Ed è la via di certa arte, letteratura e cinema. Ma anche da questo punto di vista Nelli è stato capace di bilanciare diversi riferimenti, da Agostino ad Handke.
mai stato ateo in vita mia.
Strano che il periodare elogiativo del Nelli costruisca l’ateismo come sommatoria di altri -ismi: il materialismo di Epicuro e Democrito, il razionalismo di Kant, l’idealismo di Hegel, l’empirismo di Machiavelli, lo scetticismo di Leopardi, l’esistenzialismo di Sartre, l’edonismo di Reagan. Perché codesta istanza allergica agli aggettivi qualificativi (esistenziale? intellettuale? morale? religiosa? spirituale?) è definibile soltanto per privazione (a-teismo) o per accumulo (razionalismo + materialismo + … + n-ismo)? Esiste una definizione positiva (e possibilmente sintetica) di “ateismo”?
Mi si consenta un’ulteriore domanda, posto che non arrechi disturbo alcuno: l’uomo che definisce sé stesso come “ente privo di Dio” (ateo), non sta forse costruendo un discorso su Dio, violando platealmente la settima proposizione del Tractatus di Wittgenstein?
Les preuves fatiguent la vérité
(George Braque)
Io mi guardo bene dal fare elogio dell’ateismo, come del suo contrario. Ho riluttanza ai manifesti, pur riconoscendo in questo scritto considerazioni orientative cmq utili. Su cos’è la religiosità però tirare in ballo proprio Freud con questa storiellina dei bisogni! Prima e dopo Freud si sa qualcosa di più.
Condivido quanto dice Andrea Inglese : “…mostra che l’ateismo non implica la cancellazione dell’esperienza religiosa”, ma vorrei dire anche che nell’esperienza religiosa quando è autenticamente vissuta si cela profondamente il dubbio dentro la fede, anche il religioso può accogliere l’ateismo, la perplessità, la crisi, la dialettica. Insomma, non mi piace ogni forma di dogmatismo se non nella forma estetica del suo porsi,dove la decisione di aderire è solo privata, fuori dalla dialettica oppressiva tra maggioranza e minoranza delle nostre società democratiche. Io non voglio guarire nessuno dalla fede religiosa, ma nemmeno guarire l’ateo dalla sua fede.
Preferisco una diade mobile che si trasfonde in una triade.
E’ cmq assolutamente falsa questa affermazione: “Così come quella vischiosa e inestirpabile, ancorché infondata, dell’ateismo come fede”.
Deve essere ancora dimostrato che l’ateismo non è una fede. La struttura della fede (priva di qualsiasi aggettivo) è invece coessenziale a ogni pensare.
Il buddismo madhyamika, rigorosamente ateo, fornì la prova logica dell’insussistenza della logica razionale nel Vaidalyaprakarma (Stcherbatskij, F.T. Buddhist Logic, 2 voll. Delhi 1995), mostrò magnificamente che la ragione è una fede, tolse terra sotto i piedi a Dio e alla Ragione.
Ma a parte l’immensa letteratura su questa questione della ragione come fede, che non deve significare abolizione della ragione, né tantomeno sostituizione con la fede dei credenti, perchè in questione è appunto la struttura di ciò che “ci fa credere”, c’è anche, ad esempio, l’Apofatismo di Luigi Lombardi Vallauri. Nell’intenzione del filosofo, l’apofatismo è la fede che prende sul serio la ragione fino in fondo, fino ad accettarne anche i risultati problematici o negativi. Ma è pur sempre una fede.
Certo c’è anche la letteratura, l’arte, il cinema, ma anche qui il discorso rimane aperto:
Nietzsche per esempio afferma che Dio è ormai diventato un fantasma della grammatica, un fossile arroccato nell’infanzia del linguaggio razionale.
Ma c’è anche chi ha sostenuto che la comprensione coerente di cosa sia la lingua e di come funzioni e la capacità di comunicare significati e sentimenti, è garantita in ultima analisi dal presupposto della presenza di Dio o scommessa su Dio. L’esperienza del significato estetico implicherebbe questa presenza. Quando questa esperienza ci tocca non sono in grado di ridurre tutto a Ragione! Domando: non vi sembra che ci sia troppa cultura del commento?
Quando guardo la Pietà di Michelangelo dico: è meravigliosa! posso anche dire che è brutta! è nel mio diritto di uomo libero di pensarlo, ma non posso commentare né in positivo né in negativo. Rimango stupefatto! non ci costruisco sopra la Pietà di Michelangelo ideologie. Non dico che è bella perché posso avere una fede religiosa. Invece oggi molta arte contemporanea esiste solo in quanto commento razionale, spiegazione, concetto. L’artista se la spiega prima di farla e poi continua anche dopo. E il critico mi dice con argomenti razionali perché mi dovrebbe piacere, perché ha un valore.
La mia comprensione è oggi fortemente mediata.
Questo è per me un errore nell’uso della Ragione.
Ma non sono per il ritorno al passato o il rigetto dell’arte moderna o contemporanea o postmoderna (letteratura,pittura, musica, cinema ect…) cmq la si voglia nominare, solo che farei molti distinguo al suo interno. Perchè con la mediazione concettuale si possono anche costruire immense cattedrali dell’inganno.
Mi sembra manchi il rigore per valutare il Nuovo, che viene velocemente etichettato e supercommentato. E’ anche una ricchezza ma anche rischio di confusione e mistificazioni.
Gubbio, posto che non c’è nessuna cogenza morale a rispondere e posto che si parla male con chi si firma Gubbio o con chi usa i commenti di N. I. per un insulso teatrino, ti dico che tutto il tuo periodare è pretestuoso e non chiede risposta. Insomma, sono fatti tuoi. Anche il predicato che appiccichi a ente, cioè “privo di Dio”, è farina del tuo sacco, messa lì per preparare la stada alla settima proposizione del Tractatus di Wittgentein che così, bella inpanata, ti lascio volentieri.
è incredibile quello che si legge.
qui.
Nelli, io non so per quale motivo lei giudichi assennato spendere tante parole solo per dichiarare di non avere risposte alle mie domande. La mia lunga educazione alla tolleranza mi impone tuttavia di adottare sempre un pregiudizio favorevole nei confronti dei miei interlocutori, e così farò con lei, almeno fino a quando lei non me lo impedirà esplicitamente. Non si lasci distrarre dall’anonimato dell’interrogante: in filosofia, lei m’insegna, ciò che conta è la domanda, non chi la pone. Ho i miei buoni motivi per restare nella clandestinità, mi creda. Non sono animato da intenzioni di bassa polemica, né tanto meno aspiro a ottenere eristicamente ragione. Ciò detto mi permetto di reiterare per l’ultima volta le mie due semplicissime domande, certo che, se non lei, altri vorranno gratificarle quanto meno di uno statuto di legittimità.
Esiste una definizione positiva (e possibilmente sintetica) di ateismo?
L’uomo che definisce sé stesso come “ente privo di Dio” (ateo), non sta forse costruendo un discorso su Dio, violando platealmente la settima proposizione del Tractatus di Wittgenstein?
So da me che non esiste alcun obbligo di risposta, caro Nelli, ma credo che le domande che non trovano risposta scavino a lungo e in profondità nelle menti predisposte alla riflessione, producendo solitamente buoni frutti. Porgo a lei e ai nostri gentilissimi ospiti i più cordiali saluti.
Ho letto con piacere il bell’intervento di Nelli. Non ho capito le ragioni del suo risentimento nella replica a Gubbio (a parte il fastidio dell’anonimato, che condivido) ma forse si sta semplicemente ripresentando quel che in parte è successo anche nella discussione sul pezzo di Andrea Inglese, e cioè un accalorarsi dovuto alla natura del tema. Bene, trovo che ne valga la pena.
Come altri, rimango perplesso di fronte a due punti:
a) la fede dell’ateo, che non vedo come possa essere smentita, in base ai principi elementari della logica presupposta da
b) e cioè dalla “cristallina razionalità” dell’ateismo, che mi pare un atto di fede ulteriore, nell’ateismo e nella razionalità. Insomma, da agnostico dubbioso, a me questo pezzo ha dato un brivido intenso, ma mi pare che la forma della sua esposizione (passionale, vissuta, decisamente “animata”) contraddica le stesse intenzioni esplicite dell’autore. Più che un elogio dell’ateismo, mi pare un elogio dell’essere umano, che a volte non si spaventa di fronte all’abisso del nulla, ma trova la forza di colmarlo con la consapevolezza di non avere alternative. Credo che questo modo di concepire l’ateismo, questo eroismo anche un po’ sbruffone (alla Munchausen quando serve) sia il segno più bello della nostra umanità. Un pezzo come questo magari non mi convince dell’inesistenza di dio o della superiorità dell’ateismo su qualsiasi altra forma di credenza teista, ma mi conforta sull’esistenza e la qualità di alcuni esseri umani.
Caro Gubbio, insomma, si legga il post intitolato “il poeta e la fogna”; vi troverà un passaggio in neretto, in cui vi è un esempio di sintetica definizione di ateismo. Credo che sia necessario avere di queste formule “poetiche”, ancorché parziali… Quanto alle n°7 di Wittgenstein, si puo’ tirare in ballo per quasi tutti i problemi del pianeta. Purtroppo. Non per un caso il suo stesso autore l’ha poi “smentita”.
Vereni appena ho un po’ di tempo mi impegno, nel limite delle mie possibilità, a chiarire in che senso l’ateismo non è una fede equivalente al teismo. Anche se sono certo che esistono libri, in cui tutto cio’ è chiaramente esplicitato.
Le domanda che l’ateo come il non ateo devono porsi sono: che cosa significa credere? come arrivo a credere in qualcosa?
Neanche io ho compreso il risentimento verso Gubbio. Trovo le sue osservazioni leggittime.
Ognuno pone le domande anche secondo le proprie passioni e modi di esprimersi. Uno può porsi a livello poetico come un altro a livello matematico. Se uno legge Kurt Godel può ritenere molte cose pretestuose, mentre invece sono a livello di una indagine fondante le risposte che ragione può darsi. Mi stupisco di questa reazione che sa poco di ateismo.
Grazie a Luminamenti di aver citato Gödel. Segnalo a chi non lo sapesse che, in uno scritto datato 10 febbraio 1970 e reso pubblico solo dopo la sua morte, Gödel rivisitò l’argomento ontologico esplicitandolo in diciassette passaggi logici.
Ne esiste una versione comprensibile in un libro di divulgazione di ottimo livello: “L’arte di persuadere” di Massimo Piattelli Palmarini edito negli Oscar Saggi Mondadori.
Grazie Vereni per l’attenzione. Anch’io come Andrea Inglese posso cercare di spiegare perché l’ateismo non sia una fede.
L’irritazione riguarda le discussioni in cui ognuno se ne va per i fatti propri simulando interesse per le tue risposte.
Prendere in considerazione la settima proposizione del Tractatus che dice: Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere, implicherebbe un discorso troppo tecnico. Quel che ha annotato Andrea Inglese può bastare. D’altronde Wittgenstein cambiò subito orientamento e riprese la questione in tutt’altro modo. Dicendo anche, per esempio, che il linguaggio ci racconta.
Sulla prova ontologica io rimango fermo a Kant: l’esistenza non è una questione logica ma fattuale.
“L’ateismo è un fatto eminentemente razionale, un grande bisogno della ragione che non ci sta più a lasciarsi impaniare nella rete infinita dei desideri, dalle contraddizioni e dai trasformismi in cui cade qualunque teologia razionale. Freud l’aveva capito perfettamente e su questo ha detto cose definitive….Lo strappo vero, terribile, l’aveva comunque prodotto la speculazione spinoziana: non solo l’Etica, ma anche il Trattato teologico-politico, che mostra come ogni tentativo di interpretazione razionale dei testi sacri sia destinato al fallimento. E come non ci sia parola di Dio, come Dio, nessun Dio, abbia mai parlato.E’ l’uomo che inventa i suoi dei. Siamo ancora qui. Inventa gli dei e valori e progetti che da questi dei sono ispirati; ma possono anche non esserlo. In fondo è questo il crinale in cui si consuma il fuoco di tutte le discussioni: il rapporto di necessità tra quegli dei e quei valori…
Ma, insomma, alla fine, c’è un nodo di cristallina razionalità nell’ateismo, che riguarda addirittura nemmeno il trascendente in sé ma la pretesa di vederlo operante nella natura e nella storia; c’ è un elemento di orgoglio prometeico, orgoglio e nullità, e una chance di comprensione delle cose, di penetrazione e compenetrazione con le cose. L’ateismo è primariamente questo.” S. Nelli
“Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo…l’unica cosa di cui sono sicuro…è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi…io accetto solo ciò che è nei limiti stretti della ragione, e sono limiti davvero angusti..perché l’essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda, se non per fede…e negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole…ma quando sento di essere arrivato alla fine della mia vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione…resto uomo della mia ragione limitata – e umiliata….Un giorno al cardinal Martini ho detto: per me la differenza non è tra il credente e il non credente, ma tra chi prende sul serio questi problemi e chi non li prende sul serio…Qualcuno dice: ‘sono ateo’, ma io non sono sicuro di sapere cosa significa. Penso che la vera differenza sia tra chi, per dare un senso alla sua vita, si pone con serietà e impegno queste domande, e cerca la risposta, anche se non la trova, e colui cui non importa nulla…” (N. Bobbio, Micromega, n.2/2000)
Sulla settima proposizione di Wittgenstein mi accorgo di aver formulato male la domanda, che non dovrebbe vertere sull’impossibilità generale di un discorso su Dio, ma sul rapporto tra l’ateismo e quel discorso. Non so voi, ma io non mi sentirei particolarmente attratto da un sistema di pensiero che mi si presentasse come “fede nella non-esistenza di Dio”. Quanto alla domanda di una definizione positiva di ateismo, noto con piacere che stanno arrivando le prime riflessioni, sebbene la sintesi sia ancora lontana.
Vedo dichiarazioni di intenso e totalizzante vitalismo; vedo una fiducia sconfinata nella capacità di persuasione del logos; vedo soprattutto apertura alla discussione e avversione per il fanatismo e per l’imposizione di una contro-verità indiscutibile. Se l’ateismo è questo, sono disposto ad attendere la sintesi sine die. Tutto ciò rimanda a Ipazia, e da Ipazia può procedere un nuovo umanesimo e un nuovo rinascimento. A tal proposito, mi avventuro in una terza domanda: la parola “umanesimo” può essere un sinonimo di ateismo? e se non lo è, cosa manca per completarne la definizione?
Vi ringrazio per la pazienza con la quale ascoltate un anonimo, pur avversando l’anonimato.
Si tratta di comprendere invece che il contenuto dell’intesa tra l’ateo e Dio è la follia estrema, l’essenza stessa dell’errore, l’estrema alienazione della verità.
E’ molto ingenuo credere che la verità stia da una parte piuttosto che dall’altra.
Com’è difficile farsi capire ! Nelli, non ce l’avevo con nessuno quando ho tirato fuori l’argomento ontologico a proposito di Gödel. Mi era solo sembrata una notizia utile e poco conosciuta. Quanto a Kant, verissimo quel che dici, ma anche lui trattò sempre con un certo rispetto l’argomento ontologico. Anche perché lui per primo si rendeva conto del fatto che l’esperienza umana va oltre la pura ragione. E in qualche modo bisogna pure dare risposte anche alle esigenze che stanno al di fuori della “reine Vernunft”.