Tema dell’addio
di Milo De Angelis
Milano era asfalto, asfalto liquefatto. Nel deserto
di un giardino avvenne la carezza, la penombra
addolcita che invase le foglie, ora senza giudizio,
spazio assoluto di una lacrima. Un istante
in equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi,
si fece luminoso, si posò respirando sul petto,
sulla grande presenza sconosciuta. Morire fu quello
sbriciolarsi delle linee, noi lì e il gesto ovunque,
noi dispersi nelle supreme tensioni dell’estate,
noi tra le ossa e l’essenza della terra.
***
Quell’ignoto che in pieno giorno
ci porta via, quella rosa
affranta che appare nell’unione,
sua orbita segreta, siamo noi.
Siamo noi il luogo della cronaca
e il luogo del fiore senza età.
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da Tema dell’addio, Mondadori, 2005.
Bellissimo.
E’ un libro splendido, credo il suo migliore. Mi farebbe assai piacere leggere qualche riga di Aldo Nove su Tema dell’addio.
Uno dei più grandi maestri del secondo Novecento è ancora qui, pregno di sé, della sua capacità unica di modulare il respiro (“Poesia può essere una svolta del respiro”, Paul Celan”) e con la quella sintassi spezzata dissolta in un lessico a metà tra sulime e suburbano. Milo De Angelis è un genio. Un classico. ma nei versi di questo libro, come da parecchi anni a questa parte, ripete se stesso. Non so cosa voglia dire. Non è neppure un giudizio. E’ una constatazione.
Mi scuso con l’autore e i lettori per aver sbagliato a postare: la prima poesia è un corpo unico, nel metterla in rete si è divisa in due strofe.
Nella ripetizione è il senso di ogni mantra, la sua prosodia è funzionale a livelli che non sono quelli della letteratura, per come laicamente è intesa.
Non provo neanche ad azzardare un’analisi. Posso solo testimoniare che siamo veramente in tanti, da vent’anni in qua, a pensare che Milo possa tranquillamente gareggiare al titolo di più grande poeta che abbiamo in Italia. La gara è stupida e per fortuna nessuno si sogna di farla, almeno spero; ma lui sarebbe nella cinquina finale, senza fatica.
La buffa e rocambolesca frequentazione di un paio d’anni, prima del suo trasferimento a Roma per il matrimonio con Giovanna, è una delle pagine più belle della mia vita.
non canto: incanto. le parole corrono sul filo irregolare di una metafisica perfetta. eremita da strada. non ha nulla di italiano mi sembra… inglese, inglese mi pare molto di più. forse ted hughes?
Hai fatto strabene, Gabri, ad aver postato questa poesia (anche con la divisone sbagliata, involontaria). Mettiamone altre, un po’ alla volta. Visto che stavolta non l’ha detto il Genna, lo dico io: capolavoro.
Grazie a Nove.
Questa raccolta è un capolavoro, il raccontare il corpo femminile straziato, mutilato, il senso della perdita, emozioni, dolore, ma anche momenti di luce…
No scusate, il più grande è Montanari.
Una volta l’ho visto che
leggeva la cover di Heroin di Lou Reed – quella scritta da Aldo9, che la leggeva lui – e sapete che faceva?
Quando arrivava al punto che diceva “l’ago nella vena” o una cosa del genere…
MIMAVA UNO CHE SI DROGAVA!
LENTISSIMAMENTE!
TIPO GIOCO DEI MIMI!
VI GIURO DA TIRARGLI UN GATTO MORTO IN FACCIA! UN CESTO DI GATTI PUTREFATTI!!!
ecco un commento veramente pertinente.
LA VERA NATURA DEGLI ERMETI ZACCONI:
“Il Padre” di Strindberg presentato agli inizi del secolo scorso in Italia dal più prestigioso attore di quegli anni, Ermete Zaccone, provocò un tale scandalo negli spettatori (superiore a quello dei futuristi al Teatro Diana di Milano), da indurre l’impresario a chiudere precipitosamente il sipario alla fine della rappresentazione ed a rifugiarsi, colto dal panico, nel camerino di Zaccone.
Le cronache dell’epoca narrano di un vero assedio al camerino del povero Ermete che, nella finzione scenica spesso aveva indossato superbamente i panni dell’eroe, ma nella realtà, messo di fronte a degli inferociti spettatori disposti a placarsi solo dopo avere ottenuto un autografo vergato con il suo sangue, avrebbe voluto nascondersi, sprofondare, fuggire…”.
“Un cavallo per il mio regno!” implorò goffamente. Nel frattempo il terrorizzato impresario, che non era un cuor di leone, dopo essersi strappato istericamente i superstiti capelli che la sua avanzata calvizie aveva risparmiato, iniziò a sospingere Zaccone verso l’uscio (“È tutta colpa tua, è tutta colpa tua, te l’avevo detto di non farlo! Vai, vai, fai qualcosa, ferma quelle belve!, qui mi uccidono, mi uccidono, no, non voglio, non voglio, non voglio! È la fine!” gridava con la stessa disperazione di un eunuco molestato delle indecenti curiosità di una femmina). Il grande attore, ancora imbracato dalla camicia di forza – questo è il costume che il protagonista indossa nel finale de “Il Padre”- fu costretto ad uscire e a promettere, con tono tribunizio, al suo indignato pubblico, che non avrebbe mai, mai più recitato una simile “schifezza”.
(da un articolo di Luigi Pistillo leggibile interamente qui http://www.amicigiornaleopinione.191.it/opinione/archivio/103/pistillo.html)
Questo non è un commento ma un ringraziamento a Gabriella Fuschini per aver postato questa poesia il 10.03.05 alle ore 01:24
così che potessi leggerla in questo momento esatto di impossibile (per me) comprensione del tema. Molte grazie, sr
Che meraviglia. Sono contento di leggere questa poesia su nazione indiana. Una bella cosa ecco, da fare più spesso si
Grazie Zaccone per lo squarcio che ci hai aperto sulla tua nobile anima. Montanari l’ho visto anch’io, quello era uno spettacolo che richiedeva un minimo di “mimicità” attoriale, e Montanari se la cavava ottimamente: prendiamo atto che non ti è piaciuto, tutti i gusti sono gusti e i disgusti pure, ma qui stiamo leggendo queste poesie di Milo De Angelis, per favore.
Milo è stato un punto di riferimento per molti giovanissimi che circolavano con poesie in tasca tra fine anni ’80 e inizio ’90, anche se la sua attività di “militante” della poesia era iniziata ben prima. Dunque un punto di riferimento, ma a mio parere pericolosissimo. Da avvicinare solo con un angoscione d’influenza intenso e costante. Come ogni vero poeta forte (in senso bloomiano), attirava a sé i neoscriventi versi come un magnete possente. Tutti ne eravamo affascinati. Alcuni, purtroppo, ne sono rimasti invischiati, stilisticamente intendo. E si è fatto cattiva poesia “deangelisiana” per almeno un decennio. (Vale sopratutto per Milano e dintorni.)
Questo fatto era anche legato a quella che è la personalità di Milo: dominato da una curiosità onnivora e spregiudicata, verso tutto cio’ che gli sembrava, per altro, comportare anche un’esperienza biografica forte, irregolare, dietro l’attività dello scrivere. Sia per coloro che hanno voluto sfuggire alla sua influenza, sia per coloro che ne sono stati in qualche modo ipnotizzati, rimane uno dei personaggi che ha saputo mostrare più disponibilità e apertura verso gli esordienti. Cio’ non c’entra nulla con la qualità del testo. Ma c’entra con il modo di “praticare” la poesia. (Quanto alla termine “capolavoro”, io lo utilizzo solo applicando un complicatissimo cerimoniale burocratico. In modo da dover fare quasi sempre a meno di usarlo. Ma non per abbassare le opere che amo, ma perché ho l’impressione che la letteratura coeva sia la più misconosciuta di tutte e quindi rifugga giudizi, in un senso o nell’altro, troppo solenni e definitivi.)
Non ho letto il libro, ho letto solo qualche frammento. L’impressione tuttavia è che anche dopo la lettura completa – che mi propongo di fare – resterà fortissimo / inevitabile / dominante il dato umano e biografico.
Rispetto a questa “materia”– perfino quando, come in questo caso, si avverte la presenza di un grande poeta – mi sembra difficilissimo formulare giudizi “estetici” (giudizi peraltro – a mio modo di vedere – quasi sempre incongrui).
***
L’amore esaurisce, tutto.
Perla nella sabbia e rogo
di condanna al sentimento,
il mare e l’inferno.
Eri mare, amore, quando
dal tuo viso luce rischiarava
e ti osservavo felice,
del mio cuore estasiata,
dopo tempo riemersa.
La solitudine era sparita
dietro le nostre ombre attorcigliate.
L’amore di nascosto,
l’eleganza del suo prezzo
che sottile attaglia i cuori
dal desiderio di libertà.
***
È il profumo
l’aroma
del tuo cercare,
volere
me
che non sai
guardare
come normale
profumo d’estate,
problema,
sono io.
Le foglie circolari
sul girotondo del cadere,
alberi nudi, come te
quando ti osservo
e rosso pesco è il tuo viso.
***
Chiamami,
se decidi che il tempo
potrà rinascere in amore.
Così, è breve la pioggia,
similitudine di cuore,
spazio nell’incantesimo.
I viaggi sono vento e tepore,
magma di volontà,
il vivere oggi è con te prezioso.
Ogni passo è su strada tua presenza,
alberi dove posso sognare,
prati da ascoltare in fiore,
mani aperte al calare della sera.
Sull’uscio notturno sei quiete
a calmare turbini d’impossibilità.
***
Sei ingiusto,
nell’irrazionale mia mezzora di dolore
mi prevarichi nel sentire
e mi detesti così forte che io piango.
L’aria tagliata dal tuo grido
è terrore sul decifrare parole.
Tu, atomo e galassia del Nulla,
dal Tutto dell’umanità rinasci ogni giorno,
e ogni notte mi disperi con i tuoi silenzi
del tuo proliferare errando in spazi indefiniti.
Oggi sono parole inusuali e prede di dolore
che usufruiscono dell’ottimismo
così radicato nel mio cantare
che di stanchezza ora s’inizia a parlare.
***
Non sono nata in questa città
eppure il suo ventre è per me la casa.
Dapprima furono amore e pace
poi l’eterna lotta del cercare,
che sia vana la mia volontà
io resisto al precipitare del tempo
e alla noia, puttana della mia tristezza.
È così che cerco l’orizzonte velato
quando il sole s’inchina alle bugie del giorno.
Cosa sapere del tormento
posato come piombo sul petto?
Non dimenticate l’umana tensione
che detesta vanità di esasperazione.
***
Dio creatore delle mie disfatte misure
agisci in lontananza posando
l’ incudine al mio petto di vergogna.
E sono nulla al crearsi del giorno
sopita nella verticale volontà
di alberi risoluti nel vigore
verso il cielo in discrepanza
con la mia nuova e tenera usanza.
***
Non sorrido
quando la notte è piegata al mio cammino:
di cera e disincanti la tua piccola mano.
Mi capirai quando sola
tornerò nel ventre della condanna matura
di tutto ciò che il vento ha trasportato oltre
lungo l’amarezza e i canti dell’amor terreno
dove Orfeo è morto saturo di luce
ed Euridice divenne la croce più alta del Sinai.
Aspetta che le mie braccia diventino rami
a trascinare le paure sgozzate dall’odio
fuori questo territorio dove non c’è limite,
libertà di dannazione e vendetta, cosa aspetti
supremo grido che pietrifica il tempo, l’armonia,
così salvata dal mio ancestrale annusare altrove.
Snaturata
del principio d’ogni amore,
legata alla porta dell’abbandono
è fragile tempo d’inchini,
spettacolo di drammi perfetti
e visi dipinti d’incoscienza,
il tuo emergere in arroganza
è precipizio di vuoto intorno.
***
Non ha cuore la bellezza
e te non sai di lei, gentile,
camminante su rami di sogno
ad attirare desideri e incanti,
contemplazione di visi antichi
e bianchi come la natura,
liquidi come l’estasi sul mio sorriso,
ed il suo che tramanda estasi,
viscere d’ incanto e sublimità.
Non posso adeguarmi al dolore
che da sempre l’amore
è come quadro d’impossibile capacità.
Lo sguardo è sciolto e mi duole
questo vedere e bere senza pace,
trascurando altro amore per distrazione,
ma di colpa non mia ti dipingo
perché da te chiusa la porta è rimasta.
Ora l’inganno sa brillare, allodole
allo specchio di beffarde illusioni.
Sembra che pur non sai piangermi,
in altri cieli è la mia estinzione,
canti, parole estreme e i gesti tutti.
Dopo la strada la casa è triste
malinconia vestita a ricordo,
anni sono stati insoliti e bruni, sete
e senza bere da fonti pulite ero
come la foschia di un novembre
o grappolo d’uva acerba e verde,
senza dolcezza nel succo del cuore,
neanche te sapevo all’ombra desiderosa.
Dopo il sole ci ha colpiti, uniti, mangiati
e spogliati di foglie a coprire paure.
Noi, così, alberi d’intrecci elevati,
l’amore era gioco eterno, vicino, sano.
Richiama la mia vista a te, copriti d’oro
da vedere lucentezza acclamare
senza buio inutile da temere terreno.
Dove sei quando ti chiamo triste silenzio
dentro la capanna di memoria lontana?
Sui muri gli occhi impressi, dolomiti
d’emotive incertezze, valanghe di rabbia
dopo l’addio celeste di un’amica, sola
scomparsa nella pace di un verso,
contemplazione di molti mari vissuti.
Piogge acide a corrodere lacrime dolci
preparando attese d’inerzia propagata.