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Reasons for Monument – Public Art

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di Mattia Paganelli

[Il testo che segue è stato scritto dall’artista Mattia Paganelli per presentare ad un curatore un suo progetto : costruire una piramide con degli spalti da stadio e piazzarla in un luogo pubblico di una città da determinarsi. Trovo di grande interesse sia il progetto in sé, sia il tono dialogico di questa «arte còlta nel suo farsi».
Il testo originale è in inglese, il curatore a cui è indirizzato è spagnolo. a.r.]


Dopo la tua risposta ho cominciato a interrogarmi sulla mia idea. Mi sono reso conto che la consideravo solo come un’immagine. Così ho cominciato a riflettere.

Penso sia meglio cominciare dall’inizio, cioè dal modo in cui quest’idea è germinata.
Come per il progetto del campo da calcio [http://www.whitechapel.org/content851.html], tutto è partito dal livello intuitivo di un’immagine mentale. Proprio come se stessi dipingendo i prodotti della mia immaginazione. Io di solito prendo appunti o, più spesso, disegno schizzi. Più l’idea mi interessa più disegno, cercando di capirla, chiarirla ed articolarla visivamente.
In questo caso, devo ammettere di non aver fatto molti disegni. Al tempo stesso, volevo individuare sin dall’inizio il tipo di aspetto estetico che volevo ottenere, dato che in questo progetto conta molto l’aspetto visivo del monumento. Anche la scelta di mettere dei sedili (che fornirebbero anche il colore, come osservavi tu) si è svolta a livello visivo.
Punto a qualcosa che è all’intersezione di gerarchia e architettura.

1. Sulle piramidi, gli stadi e l’autorità.
La piramide è un monumento, ne è probabilmente uno degli esempi più grandi. E i monumenti rappresentano, in molti modi, il potere. Esistono in quanto segni e richiami dell’autorità del sovrano; sono oggetti autoritari. Le piramidi erano costruite da un gruppo anonimo di architetti e costruttori per celebrare la divinità del Faraone. Ricordo di aver studiato che l’arte egizia antica è prodotta non da artisti individuali, ma da un «coro». Anche la forma geometrica della piramide rappresenta i molti riassunti nell’uno; la relazione gerarchica fra i molti e l’uno.
Inoltre, tutto il linguaggio visivo occidentale ruota tuttora intorno al centro geometrico che domina lo sguardo, in quanto si pone come centro focale del campo della visione. In effetti, la prospettiva crea una gerarchia dal perimetro al centro dell’immagine (in italiano si chiama «piramide prospettica»). Allo stesso modo, lo sguardo fotografico pone il soggetto al centro dell’immagine o fotogramma. L’oggetto dello sguardo è il centro. Il resto è meno importante ed è relegato ai lati del quadro. Anche qui c’è una gerarchia.
D’altra parte, lo stadio non solo sembra, ma anche agisce come una piramide rovesciata, dove la massa guarda i pochi, dove il fuoco prospettico concentra gli occhi di molti su uno. Inoltre, si riferisce ad una forma di espressione di massa, di annichilimento dell’individuo nel fanatismo entusiasta. Obliterazione dell’individuo di fronte a qualcosa/qualcuno che viene spacciato per più importante…
In altre parole, lo stadio e la piramide possono rappresentare due diverse espressioni della massa contro l’individualità, della relazione controllata (ed accettata) fra l’uno attivo e i molti passivi. È per questo che penso che entrambi convoglino un’idea di autorità. In questa loro funzione entrano in gioco nella mia idea.

2. Spettacolo o show.
Devo correggermi : quando dicevo spettacolo, termine troppo carico di significato, volevo dire show. Molto, in quest’idea, ruota attorno al guardare uno show ed essere al tempo stesso «mostrati» (shown), esposti.
Penso anche a qualcosa come un pubblico senza spettacolo, o a un pubblico pronto ad essere diretto verso qualunque show. Come se non fosse lo show che attira il pubblico, ma il pubblico che preesiste allo show e ne desidera uno.

3. La tua domanda sui sedili ed i colori.
Vorrei che il materiale che userò non sia il sostituto di qualcos’altro, ma quello autentico. Se vuoi, è parte del mio abbandonare la mentalità da galleria, ma sento anche che l’impatto sarebbe molto più forte se si usassero veri sedili su veri spalti (è per questo che ho aggiunto, nella presentazione, delle foto di stadi). Questo mi fornirebbe anche il carattere formale che voglio, senza distogliere l’attenzione dal significato degli elementi in gioco. Trovo anche che i colori e le forme della plastica moderna siano ottimi per ciò che voglio presentare. Sono al tempo stesso accattivanti e standard, come un’estetica da supermercato.
Penso anche che il contrasto fra la forma archetipica della piramide e i moderni sedili da stadio rafforzerà l’impressione di assurdità. Sottolineerà due tipi di comportamenti di massa, implosi in un unico elemento.

4. Intervenire : considerazioni sulla partecipazione.
A) Il Re degli Spettatori : un paio d’anni fa ho visto il lavoro di un’artista (Gorska Makuga, polacca) che in precedenza era curatrice e che ora fa arte organizzando e mostrando il lavoro di altri in gallerie, o in stand smontabili simili a mobili. Non ho potuto fare a meno di pensare : la tirannia del curatore! Ma più in profondità sentivo che il punto era piuttosto il baratro fra questo lavoro e quello che si faceva con la gente pochi decenni fa (pensavo in particolare a Vito Acconci). La distanza fra l’intenzione di sbloccare le regole sociali sfidando le barriere personali e l’attuale appiattimento delle individualità in un materiale da lavoro.
È questo il punto su cui voglio lavorare. Voglio spingere all’estremo l’alienazione, l’annichilimento. Voglio creare qualcosa che ci renderà amorfi ed obbedienti a tal punto che almeno qualcuno si sentirà a disagio per il fatto di essere costretto in una posizione così stupida. È anche per questo che voglio creare una situazione assurda chiusa in un vicolo cieco. Cosa può esserci di più assurdo dell’essere il Re degli Spettatori?
Non ti nascondo che la maggior parte delle mie riflessioni mi viene da ciò che ho visto accadere nel mio paese, dove un sonno felice si è rivelato essere il più efficace strumento di dominazione. È questo che voglio dire al mondo dell’arte e ad un pubblico più vasto. Voglio mettere in guardia : let us not be fouled, we are fouls.

B) Nel mio interesse per l’intervenire, c’è anche un motivo più personale : sento che gli spazi specificamente dedicati all’arte sono diventati artificiali, ambienti da laboratorio che non appartengono più alla realtà. Aree recintate in cui l’arte è inoffensiva. Qualcosa di cui potremmo facilmente fare a meno.
A questo va aggiunto il mio personale bisogno di gettarmi a capofitto nella mischia dell’organizzare, ottenere permessi, trovare fornitori, gestire bilanci – tutte cose che spesso trovo altrettanto creative del lavoro solitario nel mio studio. Dopo anni di lavoro introspettivo, l’avere a che fare con la gente è diventato, per me, una sfida molto più interessante.

C) Doppio ruolo del pubblico. Se mi aspetto una reazione specifica, questa non è tanto quali domande possano sorgere nel pubblico riguardo l’arte, quanto una domanda sul pubblico stesso, sulla posizione dei singoli fra gli altri, nella società.
Comincerei dal fare una distinzione tra l’esperienza di coloro che stanno seduti e quella di coloro che guardano (due gruppi separabili solo a livello logico).
Qui, l’intervento è qualcosa di molto fisico. Sto creando un ostacolo spaziale nel flusso della vita quotidiana, spero che funzionerà come un’interruzione che rallenti, fermi la gente. Un’interruzione temporale in un’area di transito che ci rende spettatori del flusso (è per questo che avevo anche pensato, come sito, all’atrio di una stazione ferroviaria).
Ma spettatori di quale show? Una volta invertito il fuoco delle tribune da stadio, ciò che si guarda – ossia, in apparenza, un bel nulla – può rendere del tutto vuota di senso la posizione dello spettatore. Potrebbe essere insopportabile sedere senza uno show da guardare – oppure ci si potrebbe rendere conto che c’è molto altro da vedere. E di conseguenza, dedicare un momento al guardarsi intorno e a pensare a ciò che ci circonda (l’architettura, la gente, il modo in cui questa interagisce, il design e la destinazione delle aree pubbliche). Oppure, forse, qualcuno si siederà nel punto più alto, in una posizione regale, di controllo, ugualmente implementando il lavoro.
Un’altra domanda aperta del lavoro è quale tipo di persone si fermerà; nonché, inversamente, cosa vedranno i passanti, gli spettatori – e infine i visitatori dell’opera d’arte. Per parte mia, penso ad un monumento ironico sull’aspetto iconico del potere. Ma potrebbe essere molte altre cose, a seconda della partecipazione e dell’interpretazione… In effetti, quelli che si siedono sono i «partecipanti», purché siano consapevoli di trovarsi all’interno di una cornice artistica, ma al tempo stesso agiscono in quanto materiale. Fanno parte dell’immagine guardata dal secondo pubblico. Potrebbero sentirsi esposti, in modo o vulnerabile o esibizionista. Oppure potrebbe non importargliene nulla, ma comunque fornirebbero carburante al funzionamento del lavoro. Inoltre, nelle città europee o italiane quelli che si siedono sui gradini dei monumenti sono spesso alla periferia della società : turisti, immigrati, senzacasa. Tutti, in un modo o nell’altro, ai limiti dell’emarginazione. Di conseguenza questo lavoro, ben lungi dal riposare in un parco, potrebbe apparire come un accumulo di disperazione : ubriachi, drogati, spazzatura, solitudine. Così, alcuni potrebbero vedervi solo un monumento all’esclusione sociale, oppure trovare l’ennesima scusa per gridare che in città «c’è bisogno di un repulisti». In tutti i casi, agirebbe come un palcoscenico che inquadra quanto emerge dalla realtà. Se pure nessuno volesse o osasse sedersi, non credo che il lavoro fallirebbe per questo; trasmetterebbe al contrario una potente immagine di gerarchie sociali da ricoprire o da obbedire.

5. A proposito del sottotitolo Public Art.
In questo caso, «arte pubblica» non significa di necessità comune, aperta a tutti o da tutti visibile. Non si oppone ad «arte privata» solo perché collocata in uno spazio pubblico.
Credo che, dall’avvento delle comunicazioni di massa, la piazza e la strada abbiano perso la maggior parte del loro aspetto pubblico e tendano ad essere spazi di indifferenza. Aree di mezzo, da attraversare per andare da A a B. D’altra parte, ciò che tendiamo a considerare come una sorta di nuova arena pubblica è generato dalla TV, dai giornali e dalla rete (tutte cose non realmente pubbliche, dato che la loro comunicazione è unidirezionale).
Così, questa è «arte pubblica» nel senso che è arte «sul pubblico». Un’opera d’arte che renderà consci, spero, dell’aspetto non pubblico degli «spazi pubblici». Dato che oggi questi spazi vengono abbandonati, e non sono più controllati come una volta perché l’attenzione si è spostata altrove, li si potrebbe reclamare e reinventare. Per esempio, il fatto che l’intenzione di penetrare nella «zona rossa» sia stata descritta come un’azione simbolica (a Genova, dove aveva luogo il G8 e dove questa intenzione scatenò tre giorni di scontri con la polizia) mostra quanto si è spostata la percezione dello spazio reale da controllare.
In tempi in cui la democrazia è considerata un sogno o un dinosauro del 20° secolo, io cerco di creare un monumento provocatorio nei confronti della comunicazione mono-direzionale che tutti conosciamo. Non spero di cambiare il mondo, ma almeno di presentare la mia impressione sui nostri comportamenti recenti.
So anche che queste idee non sono per nulla nuove. Ma oggi siamo regrediti così tanto che qualunque esperienza od esperimento in direzione di un’autentica democratizzazione della società è stata spazzata via. Sento che siamo stati lasciati in un vuoto in cui quei valori sono stati dimenticati. Oggi la discussione potrebbe ripartire – e così il lavoro, seguendo le tracce di trenta o quarant’anni fa.

6. Tematica.
L’ironia, l’impossibilità e l’assurdità applicate ai rapporti fra sé e gli altri, tra individui e tra gruppi, sono il mio vero centro di interesse. Lo è anche il fallimento che consegue a un tentativo, impossibile o assurdo, di implementazione forzata.
In altre parole, l’elemento pubblico o politico del lavoro è solo un livello di lettura. Ma funge anche da tema della mia fascinazione per il circolo vizioso dell’impossibilità e del fallimento. Credo che l’inversione su cui si basa questo lavoro sia il punto di stallo di una tensione che non può risolversi in sintesi, che ripiomba nelle opposizioni precedenti. Vedo un progetto del genere come il porre una domanda dopo avere stabilito dei parametri assurdi. Credo che la risposta sia incastrata, condannata ad essere impossibile. O meglio, che resti paralizzata perché tenta di riunire due elementi negativi e non può più andare né avanti né indietro, è bloccata. Naturalmente il lavoro è aperto alla partecipazione e le interpretazioni potranno variare, ma credo che manterranno sempre questo tratto.
Quest’ombra di assurdità o di nonsense, che è tratto comune a tutto ciò che ho fatto negli ultimi anni, mi ricorda lo scetticismo di Montaigne, in particolare un aneddoto che cita : «tambien en el trono mas alto del mundo estamos siempre sentados sobre nuestro culo» (sic).

[febbraio 2005]

Mattia Paganelli è nato nel 1968 a Milano, dove si è laureato in filosofia. Vive e lavora a Londra.
Mostre principali : Chemeat Art Space (New York, 1998), Galerie du Tableau (Marsiglia, 2002), Leonardi V_Idea (Genova, 2004), Whitechapel Gallery (Londra, 2004).

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