Dio doveva essere fiorentino (2 di 2)
di Gianni Biondillo
4.
Con questa massa di affamati molto spesso Firenze è ingannevole. Si mostra bellissima e non dichiara lo sterminato numero di lifting che da oltre un secolo a questa parte continua a fare proprio per apparire così bella e “sospesa nel tempo”. Nella stragrande maggioranza il popolo turista è come un bambino fiducioso ignaro dell’inganno.
Va in Piazza del Duomo e scatta la sua foto alla facciata di Santa Maria del Fiore, convinto di aver colto con uno scatto l’autenticità dell’intera opera. Nessuno gli ha detto che la trecentesca facciata rimase incompiuta, che fu poi abbattuta alla fine del ‘500 e che un certo De Fabris solo alla fine del 1800 edificò l’attuale facciata che è di conseguenza un clamoroso falso storico. Il nostro amico turista non ha tempo per girare attorno al Duomo, osservarne l’abside autentica, deve correre verso Piazza della Signoria; sa che ad un certo punto si deve fermare: le nicchie dell’Orsanmichele sono un museo all’aperto della scultura rinascimentale fiorentina (così dice la guida) e quindi ammira il San Giorgio di Donatello, senza sapere che anch’esso è una copia e che l’originale è da un’altra parte.
Come avete capito gli esempi sono innumerevoli; provate a controllare il vostro archivio: buona parte delle vostre fotografie che volevano con uno sguardo cogliere l’atmosfera dei gloriosi secoli che furono, immortalano opere che ai tempi di Dante o di Guicciardini non esistevano affatto. (un altro esempio? La marmorea facciata di Santa Croce, 1863, oppure il suo campanile, 1847, e così via).
Certe volte i “falsi” hanno giustificazioni affettive, dovute al desiderio di risanare ferite profonde, come quelle dell’ultima guerra. Dopo l’abbattimento del ponte di S. Trinita nei bombardamenti del 1944 il desiderio spasmodico dei fiorentini di non perderne la memoria, di ricostruirlo “dov’era e com’era” aveva un che di commuovente. Dall’Arno si recuperò un sesto di pietre originali e gli altri due furono ricavati dalle cave del Giardino dei Boboli appositamente riaperte.
Ma molte altre volte i “falsi” sono al limite della truffa. La casa di Dante, ad esempio, ricostruzione arbitraria del secolo scorso, o quella di Michelangelo, casa dove non visse mai, dato che fu edificata dal nipote. Oppure la villa di Poggio Gherardo scenografia del Decameron boccaccesco rifatta nell’800 in uno stile neomedievale più che discutibile.
Ma il fiorentino non ci fa troppo caso. Con tutto quello che c’è da vedere, anche se ci scappa qualche “patacca” non c’è d’arrabbiarsi. Il fiorentino è campanilista, l’abbiamo detto. Sa che la città è splendida e che la vengono a visitare da sempre, da prima del turismo di massa, da prima ancora dell’esistenza del Gran Tour. A tutto il 1312, ad esempio, le parole di Dino Compagni sembrano quelle di un tour operator che pubblicizza la bellezza di Firenze, città popolosa, dall’aria buona con “i cittadini ben costumati, e le donne molto belle e adorne, i casamenti bellissimi, pieni di molte bisognevoli arti, oltre all’altre città d’Italia. Per la quale cosa molti di altri paesi la vengono a vedere, non per la necessità, ma per la bontà de’ mestieri e arti, e per la bellezza e ornamento della città”.
D’altra parte se persino un cittadino della Serenissima Repubblica di Venezia, uso al bello, quale Goldoni non aveva problemi a fare lodi sperticate alla città di Firenze (“belle strade, palazzi magnifici, giardini deliziosi, passeggiate superbe [….] begli uomini, belle donne, allegria, spirito, forestieri di tutte le nazioni, divertimenti di ogni specie. Un paese che incanta”) significa che, quanto meno, i fiorentini hanno saputo farsi, nei secoli, un’ottima pubblicità.
5.
La tappa fiorentina era, comunque dalla metà del ‘700 in poi, fondamentale per la formazione di un qualunque giovane dell’aristocrazia e della buona borghesia europea e non solo.
Il viaggio in Italia si preparava con meticolosità. Nel 1769 in Francia fu pubblicata un’enciclopedia in otto volumi: “Voyage d’un François en Italie, fait dans les années 1765 et 1766 (…)”; nel 1771 tocca ai tre grossi volumi in tedesco: “Historisch-Kritische Nachrichten von Italien (…)”. Gli inglesi, pragmatici, giravano per Firenze con in tasca l’Handbook for Travellers in Northern Italy del Murray e, più avanti a fine secolo, con il Mornings in Florence di John Ruskin.
Ogni viaggiatore partiva preparato e pronto a tutto. E giunto in Italia meditava, disegnava e scriveva anch’esso creando così uno straordinario circolo virtuoso fatto di rimandi, schizzi, annotazioni personali, guide, poesie che hanno creato un genere letterario a sé stante che ha in Italia (e a Firenze in particolare) la sua patria elettiva.
I più meticolosi, al solito, gli scrittori di lingua tedesca. Amavano il nostro paese ma non ne capivano le contraddizioni. Ernest Morizt Arndt, parlando delle bellezze di Firenze non dimenticava di annotare dei vicoli bui e sporchi, delle “case misere e piene di fumo che non hanno neppure le finestre, bensì carta incollata e oleata. Ci sono abitazioni, come quelle attorno al vecchio mercato, dove pur col naso avezzo a ogni sorta di odori non si riesce a restare”.
Nel bilancio fra i pro e i contro comunque la bellezza della città superava di gran lunga le sue contraddizioni. Franz Grillparzer, nel 1819, non aveva dubbi sul fatto che Firenze fosse l’Atene italiana: “almeno per quanto riguarda l’aspetto esteriore, quello che balza immediatamente agli occhi.” Così come Isolde Kurz aveva colto l’intima bellezza della città in quel miracoloso presentarsi come un unico imponente palazzo “con corridoi e sale addobbate giacché il prezioso rivestimento in grossi conci irregolari e compatti che rendeva l’andatura leggera e molleggiante le conferiva l’aspetto di uno spazio interno.” (lo diceva anche Schopenhauer: “…sono di nuovo a Firenze, nella città in cui il selciato è una sorta di mosaico”).
Colta la domesticità della città il passo successivo era per un tedesco quale Hermann Hesse scoprire quelle rare piccole osterie “dove si è conservata la semplice ospitalità fiorentina d’un tempo e si serve un Chianti più genuino e a buon mercato che nelle moderne mescite.”
6.
Il matrimonio fra il viaggiatore Europeo (e Americano) e Firenze era ormai cosa fatta. L’amore indissolubile. Ed è così che dal secolo scorso pittori francesi, filosofi tedeschi, scrittori inglesi o americani, intellettuali in genere ma anche “gente comune” ha deciso di trasferirsi a vivere a Firenze. Molti di essi in case semplici, altri, i più fortunati, in dimore poi diventate musei. Come ad esempio l’italo-scozzese Fredrick Stibbert e la sua incredibile villa-museo dove, nella sua ossessione da collezionista, non può lasciare indifferenti la Cavalcata di armature cinquecentesche disposte in falangi, l’una contro l’altra armate; o la casa di Herbert Percy Horne, lo studioso del Botticelli, che si accasò in un palazzo quattrocentesco in pieno centro storico; o lo storico americano Bernard Berenson che andò a vivere nella villa Tatti a Settignano, ora centro di studi dell’università di Harvard…
In questa città sono venuti a viverci, in questa città hanno deciso, in molti, di morire. Verrebbe da dire, col gusto aforistico di Flaiano: “Molti muoiono a Firenze non avendo potuto nascerci”.. Per chi volesse rendere omaggio a questi fiorentini dall’accento anglosassone una visita al Cimitero degli Inglesi è inevitabile. Böcklin lo dipinse, in un quadro famoso, come fosse un’isola, circondato dall’acqua. In quest’isola romantica e protestante riposano Frances Trollope, Jean Vieusseux, Walter Savage Landor, qui Elizabeth Barrett Browning, venuta a Firenze dal freddo nord per rimettersi in salute, riposa per sempre.
7.
Quelle del cimitero protestante non sono le uniche lapidi “letterarie” che si possono incontrare in questa città. Firenze è semplicemente disseminata di targhe, iscrizioni, lapidi, che ci ricordano, aggiungendo cultura alla cultura in un gioco di ridondanze che prende alla testa, quanto sia, per vocazione, una città letteraria.
Un tour alternativo a quello del classico turista, potrebbe proprio essere un itinerario alla ricerca dei luoghi notevoli immortalati da queste targhe.
Un esempio? Bene, cartina alla mano seguitemi. Partiremo da Piazza S.Trìnita dove al numero due (vedi targa) Ludovico Ariosto trovò più volte sistemazione; prima di attraversare il ponte (ammiratelo anche se è un falso) ci spostiamo sul Lungarno Corsini dove a Palazzo Masetti la contessa D’Albany, vedova inconsolabile nota per il suo salotto letterario, si faceva consolare dall’Alfieri e dal Foscolo; più avanti la lapide posta all’ingresso di Palazzo Gianfigliazzi ci ricorda dove il Manzoni alloggiava quando decise di “sciacquare i panni in Arno” (e dove se non su un Lungarno?). Oltrepassato il ponte (ammirato?) fermiamoci sul Lungarno Guicciardini. Al numero 21 le personalità si sono succedute quasi accavallandosi: Santa Caterina, Raffaello, Napoleone, J. Walter Scott, Lord Byron. Ce le elenca, minuziosa, la solita targa. Scavalchiamo ora Santo Spirito (tanto l’abbiamo già visitata, no?) e andiamo all’angolo di via Maggio con via Mazzetta: un verso in inglese della Browning su Palazzo Guidi ci fa meditare sulla vita terrena della poetessa che qui vi morì. Siamo ormai sulla via Romana andiamo al numero 135 per ammirare (targa) l’abitazione del Carducci a tutto il 1849. Rientriamo. A Piazza dei Pitti (scordatevi il Palazzo o il Giardino, roba da turisti del week end) al numero due, fra il 1858 e 1869, Dostoevskij portò a termine L’idiota, come puntualmente ci ricorda la lapide. E poco più in la, in via Guicciardini al numero 24 sappiamo dove visse e morì Machiavelli, mentre, sempre nella stessa via al numero 15, nel palazzo di famiglia, dove nacque Francesco Guicciardini. Se non vi basta girate a S. Felicita e salite sulla Costa S. Giorgio. In una modesta casa al numero 13, Galileo Galilei eseguiva rilevazioni e ricerche astronomiche. Una targa ci ricorda le frequenti visite che gli faceva Ferdinando II de’ Medici, suo protettore e amico.
Siete stanchi di tanta cultura? Allora non fermatevi e risalite questa strada, nel giro di dieci minuti, imboccando la via di S. Leonardo, sarete come d’incanto fra le colline della campagna toscana. Dimenticatevi di leggere la targa al numero 49 che ci ricorda dove visse Ottone Rosai e distraetevi all’angolo con viale Galileo cosicché eviterete di sapere che lì nel 1878 Tchaikovsky nutrì “la sua musica con la dolcezza delle colline toscane”.
Se risalite ancora, superando Pian dei Giullari, la vista mozza il fiato. Sembra di sentire le parole di Anatole France: “Il dio che ha creato le colline di Firenze era un artista: un orafo, uno scultore, uno che sapeva lavorare il bronzo; ed era anche un pittore. In breve, quel dio doveva essere un fiorentino.”
Dopo averti letto, e avendo rivisto tutto esattamente come deve essere, non vedo l’ora di lasciare la sicilia e rientrare nella mia bella, caldissima casa nella campagna di san casciano in v.p. Ogni volta che torno lì mi sembra di entrare dentro un quadro del ‘500. Eppure, anche quelle colline così “naturali” e “incantate” sono frutto di una potentissima antropacizzazione del paesaggio. Solo che è fatta bene.
Bel post. Missy
grazie Gianni! Grazie; apprezzo molto e andrò a toccare con mano quanto prima. Certo che quel che dice Dante di Firenze…
Antonello
Che delicatezza, ed anche un rigore da paesologo. Un canto appassionato. Mi hai coinvolto sin nei succhi gastrici Gianni. Io amo la Toscana, la sogno come luogo in cui rifugiarmi se un giorno riuscirò a fuggire d auqest’inferno. Bel pezzo e toccante anche la dedica. Ottimo Gianni!!!
Encantada!
“Per anni ho creduto ciecamente alla interpretazione ufficiale di Firenze. Firenze è una città bella, bellissima, meravigliosa; è un capolavoro, una cooperativa di capolavori, un museo abitato, l’ottava meraviglia, una città esclamativa, una città da urlare, da svenire, un riassunto di storia dell’arte[…]E’ strano come come capiti di prendere alla lettera le sciocchezze della più trita propaganda turistica. Come abbia faticato a capire che una città come Firenze non poteva essere giudicabile come bella e nemmeno come un capolavoro: perché queste erano le due parole proibitive, in queste si riassumeva il divieto di scoprire Firenze[…]Se una città è bella ci dev’essere del marcio. Io non ci vado. Una città è un reticolo di luoghi, percorsi, soste, angoli, include edifici ed essenze di edifici; include tutte le possibili città che sorgono davanti ai nostri occhi, a seconda dell’itinerario che percorriamo[…]La città si propone come luogo simbolico, magico, come pagina da interpretare, come tessuto di significati, di allusioni, di fantasie; una città è un luogo occulto, nella quale un muro logorato dalla muffa, un edificio decrepito, una sterminata piazza non pavimentata, trafitta da pozzanghere e ciuffi di dura erba, propongono una storia segreta, una favola in cui l’orrore e lo splendore ostinatamente coabitano[…]Percorrete i quartieri più fitti di una città orientale. Non ditemi che sono “tipici”. Questi agglomerati di luoghi evidentemente precari sono proposizioni, immagini significanti, sono soprattutto ipotesi sul mondo, microcosmi. Nessuno oserebbe definirli “belli”; non intendo dire che sono “brutti”, che è lo stesso discorso; direi che guardarli come luoghi di sosta estetica, parcheggi della nostra anima di gusto colto e raffinato, significa non guardare nulla. E qui si tocca con mano qualcosa che accade spesso di sospettare: vale a dire, che la così detta estetica sia un’astuzia laica per non venire a contatto con la materia mitica e violenta, il luogo dionisiaco, che abita un oggetto[…]Se l’aggettivo “bella” per Firenze è pertinente, può voler dire che Firenze è una città totalmente identificabile con la propria vocazione estetica, un luogo che si consuma nella propria “bellezza”; oppure può voler dire che l’interpretazione estetica è stata imposta su di un luogo estremamente significante, affinché quel luogo stesse fermo, non inquietasse, non fosse materia d’altro che di colto svagamento, fosse, come s’è detto, un luogo esclamativo; insomma, Firenze bella è una città esorcizzata; non fa male, non conosce demoni, non significa nulla, non allude, non è un’allegoria del mondo[…]”Capolavoro”. Ecco una parola che per anni mi ha tenuto lontano da Firenze, giacché detesto il concetto di capolavoro, e a Firenze pare che tutto sia o finisca per diventare “capolavoro”. La parola capolavoro ha qualcosa di odioso, di prevaricante.
Se un’opera mi viene presentata come capolavoro si suppone che io non muoverò obiezioni, cadrò in uno stato stuporoso, dirò “oh!”, “ah!”[…]Il capolavoro non si discute: merita solo il culto della personalità. E’ tirannico, limita la libertà di stampa e di parola. Pensate alla Gioconda e alla quantità di sciocchezze che si sono scritte, anche in ottima prosa, su quel “capolavoro”[…]Se Firenze è una città capolavoro, non mi interessa. L’istinto mi porta a cercare i luoghi minori, gli oggetti controversi, i mondi periferici, le forme distratte o schive. Non voglio l’immagine esatta, ma l’immagine che partecipa dell’errore.”
G. Manganelli, “La favola pitagorica, pag.35
Manganelli ti lascia senza aggettivi ma in tutti noi (noi normali, che dobbiamo rubare occasioni, tempo e soldi) c’è un giapponese nascosto. Ho fatto un viaggio, di recente, è l’ho visto venir fuori. Gli ho concesso tutte le attenuanti (non c’era stato neanche il decreto “pianta una panchina” in quel posto lì) e gli ho promesso che lo lascerò affacciare ancora, lui e la sua Nikon.
Firenze città niente affatto rinascimentale ci viene ben raccontata nel fondamentale “L’antirinascimento” di Eugenio Battisti.
E da quello che nascondono le viscere delle facciate impeccabili del rinascimento toscano Giovanni Michelucci ha avuto rivelazioni importanti dopo la guerra, che hanno mutato il suo stesso approccio al progetto urbano.
Ma dentro di noi, come dice Elio vive un piccolo giapponese. E’ inutile negarlo.
E’ bene che qualcuno lo dica. Sopravvalutatissimo Biondillo! L’ho detto io.
Hai fatto bene a dirlo!
Far parte del club dei sopravvalutati è stupendo…
GIANNI hai tutte le fortune. :-)
Avete presente l’accademia dei sopravvalutati in “manhattan” di Woody Allen? quando Diane Keaton ci mette: Mahler, Scott Fitzgerald, Van Gogh e Ingmar Berman e Ike sbotta:” e perchè Mozart? mettiamoci anche lui visto che siete a buttarne via..”
Proprio Woody Allen in un intervista spiegava quella scena: In “Manhattan” Diane Keaton rappresenta proprio il falso pensiero intellettuale, tutto ciò che vi è di affettato e di nevrotico nell’intellighenzia newyorkese. Pontifica innocentemente. Costruisce con il suo amante una sorta di pantheon degli artisti sopravvalutati. In effetti in una certa cerchia di persone fa estremamente “in” dire che Proust o Mahler sono troppo stimati. Si compila una lista di geni, dei migliori film e ci si prende la licenza di classificare i vari artisti e di decidere il grado d’importanza di persone che sono nettamente migliori di loro.”
[logicamente tutto il discorso va riportato in scala 1:100]