Storia infelice di una progettista web
di Aldo Nove
Sara lavora nel mondo del web. La sua storia è quella di tanti giovani che hanno vissuto le illusioni di un un “nuovo” che non ha significato nuovo lavoro ma nuove illusioni, vecchie prefigurazioni di un futuro che non è mai arrivato. Ecco, dalla sua voce, come è andata la sua vita. Per sua volontà, i nomi (il suo, quello delle città dove ha lavorato) sono stati cambiati. Perché, dice, “se mi riconoscono, non mi prende più nessuno, a lavorare”.
Come va?
Malissimo.
Perché?
Perché sono stufa di vivere con l’ansia, sempre. E perché questa volta davvero non mi aspettavo di essere trattata in modo così disumano.
Cosa è successo, questa volta?
L’ennesimo licenziamento, anzi l’ennesima promessa di assunzione, rimangiata all’ultimo momento. Questa è la vita del lavoratore precario. E francamente, è una vita insostenibile.
Partiamo dall’inizio.
Mi sono laureata in lingue, a Milano. Per quattro anni ho cercato inutilmente di lavorare nell’editoria tradizionale. Pensavo potesse essere quello il mio campo. E poi mi piaceva.
E invece?
E invece lavoro non ce n’era. A parte quello gratuito, che ti viene regolarmente offerto perché fa curriculum, perché devi ringraziare che qualcuno ti faccia lavorare. Quasi che la paga fosse il lavoro in sé, e non il pagamento del lavoro.
E per essere pagata, cosa hai fatto?
Dopo quattro anni di fallimenti con l’editoria tradizionale, ti dicevo, ho fatto un corso per lavorare nel web. Era il 1999, gli anni del boom di internet, ed allora sembrava che quella fosse la via più adatta ai tempi per trovare un impiego retribuito…
E cosa accadde?
Ho fatto il corso e iniziato a mandare curriculum, o curricula, per chi preferisce declinare i plurali latini. All’inizio mi rispondevano tutti. Sembrava davvero che internet fosse il futuro o, meglio, allora, il presente. Dovevo essere io a scegliere con chi lavorare. C’era l’imbarazzo della scelta. Entusiasmo. L’apparenza di prospettive di crescita continue. Ma già nel 2000…
Nel 2000?
Si è capito che la bolla era appunto una bolla, e stava per esplodere, da un momento all’altro… Comunque, mi hanno assunto, il mio compito era curare l’aspetto di siti aziendali, avevo un ottimo stipendio… Tutto questo per sei mesi. In sei mesi si è capito che l’entusiasmo iniziale, entusiasmo di tutti, era un’ubriacatura. In pochi mesi si è capito che i manager erano poco preparati, i progetti inconsistenti, le prime avvisaglie della crisi…
Come si è manifestata?
Con le prime perdite di clienti. All’inizio, ma all’inizio vuol dire i primi tre mesi, i clienti arrivavano da soli, ed erano tanti. Poi, con il passare del tempo, bisognava andare a cercarli, i clienti. E poi la concorrenza. Alla fine del 2000 si stava creando una specie di monopolio, l’azienda in cui lavoravo si ingrandiva sempre di più, investiva sempre diì più, ma i risultati non arrivavano. Torno al paragone con l’ubriacatura: mentre da una parte il lavoro, sempre più sensibilmente, diminuiva, dall’altra ci si proiettava sempre più in un futuro che ci avrebbe arricchiti. Futuro che non è mai arrivato.
Cosa è arrivato, al posto del futuro?
Un presente finto, che continua a durare. Comunque, agli inizi del 2001, sono iniziati i primi licenziamenti. Preavviso di un mese o, per i più fortunati, di due mesi. Senza nessuna liquidazione.
E tu?
Me ne sono andata prima di essere licenziata, appena ho capito come andavano le cose nella realtà. In mezzo all’euforia che non smetteva di creare illusioni. E’ difficile spiegare un clima in cui tutto sembra finto. Sembrava di essere in mezzo a un gruppo di pazzi, a un’allucinazione. E per far sì che nessuno si rendesse conto della realtà, i dirigenti creavano mobbing. Entusiasmo e confusione erano le parole d’ordine. E la responsabilizzazione paranoica dell’individuo: “Va tutto bene. Se qualcosa va male, va male in te”. E poi l’altra tecnica è quella di mettere uno contro tutti. Con il patetismo della grande famiglia: “Siamo una grande famiglia, ci vogliamo tutti bene, siamo tutti allo stesso livello, tutti dobbiamo impegnarci allo stesso modo”…
Che noia.
Che schifo. Anche perché alla fine il capo della famiglia l’azienda la possiede, ha i soldi, mentre tu sei un dipendente e nella concretezza puoi essere lasciato in mezzo alla strada da un momento all’altro. Altro che famiglia!
Torniamo a te.
Mi sono licenziata, come ti dicevo. Era il 10 settembre 2001. Ho fatto qualche lavoro come consulente. Dopo l’11 settembre c’è stato il crollo. Non immediatamente, però. Per alcuni mesi l’economia del web ha retto. E’ nella primavera del 2002 che si è capita davvero la grande illusione. E abbiamo sbattuto tutti la faccia contro il muro.
Un sogno durato meno di tre anni…
Sì. Alla fine del 1999, su dieci curriculum che mandavo, in dieci mi rispondevano. Nei primi mesi del 2001, a cento curriculum spediti non mi arrivava neanche una risposta. Comunque, avevo iniziato una collaborazione come co.co.co. con una piccola azienda che promuoveva progetti turistici e culturali. Un bel progetto, in cui credevo. Anche in quel caso, il titolare era un ricco ancora in balia della grande ubriacatura. E tutto è andato rapidamente a catafascio. Il processo è stato il solito. Promesse di grandi sviluppi, incentivi, ricchezza, successo e poi nulla. Da un giorno all’altro a casa.
E si riparte da capo…
Si riparte. Luglio 2002. Deserto assoluto. A metà novembre ricevo un’offerta. Fuori città. Nel sud. A Bari. Mi propongono una collaborazione come libera professionista. Apro la partita iva e nel 2003 inizio a lavorare. Era una grande azienda, di prestigio. 200 assunti e 200 collaboratori come me. Ero abbastanza entusiasta, sembrava che dovessi iniziare a lavorare davvero. E invece…
E invece?
Non sono mai stata chiamata a lavorare per più di metà dei giorni. Andavo in ufficio, regolarmente, tutti i giorni, ma il progetto a cui collaboravo viene fuori sempre di più che necessita di meno risorse di quello che mi avevano detto all’inizio. E quindi un mese sono quindici giorni di lavoro, un mese dieci…. Prendevo 130 euro lordi a giornata. E tutto questo con l’affitto e le spese, in una città che non era la mia. Senza nessuna sicurezza sul futuro. Ma non a tempi lunghi. Sul futuro immediato. Ogni mese mi veniva proposto un altro contratto. Ogni contratto prevedeva meno giorni. Non dormivo più. Non riuscivo a pagare l’affitto. Ho fatto le valigie e sono tornata a casa.
Come l’hanno presa, i tuoi datori di lavoro?
Non bene. Ma hanno accettato. Infatti ho collaborato con loro, a distanza, per altri mesi. Alla fine del 2003, a Milano, ricevo un offerta di lavoro, sempre come libera professionista. Faccio tre colloqui, mi tengono in ballo un mese e mezzo, e alla fine, dopo molte promesse, mi dicono che non possono assumermi.
Perché?
Scuse generiche. In realtà ho scoperto che erano i fornitori della ditta in cui avevo precedentemente lavorato, e temevano che questo potesse creare problemi “diplomatici”, diciamo. Avevano paura di perdere un cliente, portando via una loro ex risorsa. Tutto questo al momento della firma del contratto.
A questo punto…
A questo punto, a capo. Altri due mesi senza lavoro. Poi ho trovato un’altra collaborazione, con contratto stagionale. In ottobre rispedisco i curriculum, nessuno mi risponde e inizio a girare per le agenzie interinali. In una, in vetrina, vedo una buona offerta, 1250 euro netti al mese. Entro e la responsabile dell’agenzia interinale mi vede e dopo un breve colloquio mi richiama per propormi un colloquio nell’ultima azienda in cui ho lavorato. Si trattava di una sostituzione per una maternità. Andai al colloquio, venni scelta. Con un contratto interinale di tre mesi e la promessa che passati i tre mesi mi avrebbero riassunta.
Una sostituzione di maternità?
Sì, prospettatami all’inizio come una faccenda di almeno cinque mesi, se non di più: per questo la promessa di rinnovo. Era una maternità atipica. Una adozione internazionale, con i tempi indefiniti. Comunque, inizio a lavorare in questa società e il training lo faccio con la persona che avrei dovuto sostituire, ma che non se ne era ancora andata. E qua parte il mobbing più forte che abbia mai subito. Tralaltro, l’azienda entra in crisi e il settore dove io lavoro viene messo in vendita. Le condizioni diventano subito più instabili e la persona che dovevo sostituire decide di prolungare la partenza. In pratica, lavoro insieme a chi dovevo sostituire. Che con me si comporta in modo strano.
Come si comporta?
Mobbing puro. Questa donna aveva paura di perdere il lavoro, ed era lei a dovermi inserire nel lavoro! Subivo pressioni psicologiche assurde. Una pazza isterica che mi ossessionava con compiti senza senso. Ogni giorno venivo criticata per quello che non facevo bene e sfottuta per quello che facevo bene. Cercando in tutti i modi di farmi crollare l’autostima.
Come lo definiresti, il mobbing?
Il trionfo legalizzato, e applicato, dell’invidia. L’accondiscendenza a subire condizioni di lavoro umilianti perché non puoi permetterti di perderlo, un gioco tutto fondato sul ricatto implicito che chi aggredisce sa di poter spadroneggiare perché chi subisce non è nelle condizioni di reagire…
Torniamo al tuo lavoro.
Insomma, chi doveva inserirmi nel mondo della ditta aveva tutti gli interessi per mandarmi via. Così alla scadenza del primo contratto, quando ero già completamente logorata ma bisognosa di lavoro, andai all’agenzia interinale e mi dissero, a poche ore dalla scadenza del contratto, che le promesse di rinnovo non valevano più, e che sarei stata licenziata. Così, di punto in bianco.
E tu cosa hai fatto?
Ho chiesto spiegazioni. Si sono resi conto di non essersi comportati proprio nel modo migliore. E allora mi hanno detto che avrebbero cercato al più presto un’altra sistemazione. Erano sinceri. Ma io ero furiosa. Oltre alla scorrettezza di un lavoro promesso e non rispettato, avevo vissuto tre mesi di mobbing per nulla. Mesi in cui tornavo a casa la sera e piangevo. Tutto questo per un lavoro. Che all’ultimo momento non ho avuto. Anche se fino all’ultimo momento ero stata tranquillizzata sul rinnovo. Comunque, a un certo punto l’agenzia interinale mi richiama.
E cosa ti propone?
Un contratto di dieci giorni, sempre nella stessa azienda.
Dieci giorni?
Sì. Io mi arrabbio e loro promettono di cercare di fare di più. E in effetti fanno di più. Mi promettono un altro contratto, più vantaggioso. Passa un’altra settimana, mi richiamano e mi propongono un altro contratto. Non più di dieci giorni, ma di quindici…
Un delirio.
Un delirio. Profondamente offensivo. E adesso eccomi qua. Barcamenandomi tra un lavoretto e l’altro, senza nulla di concreto in mano, senza nessuna prospettiva.
Quali sono le tue idee politiche?
Per anni sono stata di sinistra. Credevo nei suoi valori, nelle sue idee…
E adesso?
Da qualche tempo in qua non credo più a niente. Non riesco a vedere una persona che davvero possa fare qualcosa per cambiare la situazione. Non ci credo più. Vedo i politici alla tele. Mi sembrano tutte comparse di uno spettacolo senza senso. E’ uno spettacolo di cui non voglio più occuparmi. Infatti riparlo con te di queste cose dopo molto tempo che non ne parlavo più… Un tempo…
Un tempo?
Un tempo… ho creduto… mi piaceva D’Alema, ma oggi inorridisco anche a pronunciarne il nome. D’Alema è di Forza Italia. Lo è diventato sempre di più. Anche se è un leader della sinistra. E da tutto questo macello io resto fuori. A cercare di sopravvivere, con la mia ridicola, inutile laurea.
Cosa hai votato, alle ultime elezioni?
Non sono andata. Sono andata al concerto di Vasco Rossi. Mi sono sentita in colpa. Un po’. Ma tanto non avevo la minima idea di cosa avrei votato. E quindi forse ho fatto bene così. Mi è piaciuto, il concerto.
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Pubblicato su Liberazione, febbraio 2005.
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Aldo Nove garantisce che Sara sia brava?