Treviana #2: Senza verso
di Linnio Accorroni
Quando i carpentieri in legno iniziano a costruire un ponte, quando i maghi esibiscono una cordicella sul palco, quando i bambini giocano a tiro alla fune e quando i funamboli clandestini installano un cavo, c’è sempre un momento in cui il filo penzola liberamente tra due punti, e sorride.
Philippe Petit, Trattato di funambolismo.
Emanuele Trevi è un funambolo delle lettere: sono sicuro che gli piacerebbe essere paragonato a Philippe Petit, l’artista che, irridendo ogni logora legge fisica, in un assolato mattino dell’estate 1974, riuscì a camminare, per otto volte di seguito, su di un filo d’acciaio che, teso a 417 metri d’altezza, collegava le due Torri; anche lui ama tendere fili ed escogitare trame che mettono in ustoria relazione ambienti e luoghi che parrebbero, per definizione, irrelati: la frequentazione delle alte stanze del saggismo raffinatamente antiaccademico e gli angiporti, desolati e squallidi, dell’autobiografismo più smaccato ed esibito, sulla scorta della lectio keatsiana secondo cui ogni vita è un’allegoria.
C’è una specie di leziosa trasandatezza nel compiere questo percorso su corde precarissime ed instabili, una insolente buffoneria che lo tenta tanto da “alzar le fiche” non solo alla vanagloria sepolcrale della Cultura ufficiale, ma anche, quasi masochisticamente, a quell’aggregato di io, poco eroici e tutt’altro che edificanti, che affollano e complicano la sua identità.
Questa sua nuova opera Senza verso potrebbe apparire semplicemente come un sequel de I cani del nulla; l’io-che-narra sembra voler svendere all’incanto tranches de vie dell’io-che-sopporta, a malapena, la canicola di una stordente estate romana, quasi volesse giungere all’impudicizia del darsi via, del mostrare di sé e delle proprie umanissime debolezze, un repertorio spurio di miserie e di meschinità: un membrum putridum et foetidum che varia, in chiave più desolata, cupamente solipsistica, alcune note delle sinfoniette già solfeggiate ne I cani del nulla, senza cane e senza donna.
La stridenza nasce però quando, la svagata leggerezza da passeggiata walseriana, che sembra voler essere ricercata aprioristicamente dall’autore, rovina contro la implacata presenza di dolori e di lutti (quello dell’affaire amoroso che termina, quello dell’amico morto) che non consentono vie di fuga o consolatorie rimozioni, che impediscono ogni auspicio di grazia e di liberazione.
E un continuo contrasto fra tono discorsivo e cristallizzazione concettosa, fra digressione itinerante e pointe concettuale. Un’elegia funebre per un amico, il poeta Pietro Tripodo che, per una spaventosa piega del destino (la materializzazione dell’uomo gobbo di Benjamin), incarnava su di sé tutto il dolore del mondo: è come se, distillato in quell’’inappartenenza, in quell’inadeguatezza fatta soma, che suscitava sorrisi di scherno e che invece altro non erano che i traumi di una esistenza vocata all’infelicità, fosse stata cacciata a forza, come in una bottiglia troppo piccola per contenerla, tutta la follia del mondo, la sua vanitas vanitatum.
Tanto più poi questa crepa dell’Essere si allargava e si ampliava, quando più questo principe Miskin di Via Aleardi tentava di recuperare una patina di “normalità” e di decoro: nella vita normale ci si innamora di donne giovani e bellissime, ma se per i “rettorici” questo diventa routine, collezione di figurine, book da sfogliare con gli amici, per i “persuasi” essa si trasforma in altro, qualcosa che strazia e riapre, fino all’anima, corazze tutt’altro che robuste.
Una flanerie sineddochizzata questa del Trevi di Senza Verso: quel gomitolo di strade e di qualche palazzo diventa un movimentato scenario, popolato da figure indimenticabili (la barbona, l’amico edicolante, il cammeo di Tommaso Pincio, etc.) che assumono una statuaria figuralità quasi auerbachiana.
A più riprese Trevi ci suggerisce che il suo amico Pietro, il principe Miskin (un po’ maudit, un po’ Fantozzi, come tutti noi), assomiglia più a Buster Keaton che a a Charlot. Forse perché Charlot è proprio lui, cioè Trevi; che, pur se gravato da dolori immedicabili, sopporta il carico di quella svagata trasandatezza, che è lo stigma saliente del grande attore americano e che lo induce a tollerare, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis, anche i dati più triti dell’esistenza altrui: gli amplessi del suo amico, le paranoie della presunta spia russa, la curiosità inesausta, che sconfina quasi con il voyeurismo, per tutte le forme della vita, senza distinguo alcuno, senza gerarchie.
Una elegante, adorabile cialtroneria muove questo Charlot del Colosseo che accetta volentieri anche l’inesplicabilità e l’enigmaticità delle cose e delle persone, senza troppi retropensieri o ermeneutiche spicciole: la “psicologia dei palazzi”, il mistero della vecchia barbona, l’entropia dei giornalai. Ad aiutare questa impenetrabilità e porosità delle cose c’è una cortina fumogena, c’è una coltre che separa il soggetto da esse, rendendole inesplicabili: la canicola, il sonno, gli spinelli impediscono una piena auscultazione delle cose.
Tutto viene visto come se accadesse al De Niro del sogno oppiaceo di C’era una volta in America, la stessa implausibilità e la stessa necessità destinale che appartiene allo svolgersi delle vicende, che non possono essere comprese né guidate, che non ci appartengono, che ci consentono solo un sorriso stupefatto e stupido. Del resto mentre lui cerca la radianza di ciò che lo circonda, “quel perpetuarsi identico nel tempo della vibrazione”, questa gli sfugge completamente, gli cade di mano. Case,luoghi,strade, palazzi ne sono compenetrate, ma, quando si tenta di spiegarla, essa (ci) sfugge, inesorabilmente. L’oblomovismo del protagonista, sdraiato in divano in un perenne stato di dormiveglia, le cui riflessioni sortiscono già impigrite da quel “delirio d’immobilità”, sembra voler ripercorrere l’immagine folgorante dell’Ulisse che, come Trevi ricorda, si addormenta, poco prima di giungere o appena giunto ad Itaca.
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Il libro di Emanule Trevi mi è sembrato meraviglioso. Ha la naturalezza e la semplicità delle opere che riescono a parlare a tutti, perché chi scrive è profondamente coinvolto in ciò che racconta. E’ la direzione opposta rispetto all’ipernarrativa di questi tempi, dove ogni riga suona artificiale, arbitraria, inutile.
Marco, anche a me “Senza verso” è piaciuto moltissimo. E anche a me la via del coinvolgimento dell’autore sembra una possibilità vera, oggi, per la letteratura. Purtroppo, il coinvolgimento dell’autore viene ancora confuso con il narcisismo. Secondo me invece si tratta di esibizionismo, che è tutta un’altra cosa: l’esibizionismo può essere sacrificale, chi si esibisce rischia molto, e a volte la paga cara.
Un saluto caro e grazie di essere passato di qui.
Essendo bergamasco, quindi un po’ rozzo, ho letto con qualche difficoltà la prosa culta e inarcatissima di Accorroni.
Mi è sembrato, in mezzo all’orgia delle similitudini, di capire che Trevi ha pubblicato altri due bei, bellissimi libri: bene, la cosa non mi stupisce.
Adesso mi piacerebbe chiedere ai due commentatori:
1. Cosa vuol dire esattamente che “Il libro di Emanule Trevi… è la direzione opposta rispetto all’ipernarrativa di questi tempi, dove ogni riga suona artificiale, arbitraria, inutile.”
Posso avere qualche nome per capire chi pratica questa ipernarrativa? Sarà mica il solito Faletti, eh?
2. Tiziano, la distinzione fra esibizionismo e narcisismo è fondamentale, ne abbiamo parlato tante volte.
Ma cosa significa “anche a me la via del coinvolgimento dell’autore sembra una possibilità vera, oggi, per la letteratura.”
Oggi?
Ma non lo si è sempre fatto?
Ma, d’altro canto, il gesto dell’autore che si oggettiva nei personaggi, che annega nei personaggi, non è invece il primo atto, quasi sacerdotale, che prelude sia storicamente sia per ciascuno di noi (vogliamo dire: ontologicamente e filogenenticamente? Diciamolo, tanto qui il lessico è già tirato a mille) al distacco da quella balbuzie autoreferenziale, non dialetticamente egotica, che sta alla base degli esperimenti di scrittura adolescenziali?
Questo non per dire che il narratore che annega l’Io nei personaggi è “superiore” in qualche modo a quello che fa dell’Io il protagonista, figurati; solo per dire che, una volta assodato che il coinvolgimento dell’autore può benissimo essere un formato espressivo efficace e profondo (specie quando arriva, proprio come nel caso di Trevi, alla fine e non all’inizio di un percorso) non capisco né la notizia né la proposta.
Con affetto
No, non penso a Faletti. Penso piuttosto a romanzi senz’altro ammirevoli per costruzione e ingegno, ma per me assolutamente illegibili: il libro di Lagioia, quelli dei Wu Ming e di Avoledo, e in questo scatolone mezzo sfondato ci metto dentro anche Pincio e Baricco. I loro romanzi mi muoiono in mano dopo poche pagine. Non sento il pericolo del fallimento, il rischio della morte e della follia, la speranza di una qualche salvezza che invece avverto nei nonromanzi di Emanuele Trevi. Insomma, certa ipernarativa è troppo più grande di me, c’è troppo controllo, troppe nozioni, troppa letteratura: Trevi indica un percorso più povero, ma nel quale mi avventuro con trepidazione. L’io che narra arranca, ragiona come può, cerca nei cani, nei libri, nei rapporti umani, nella città quello che ognuno di noi cerca: la possibilità che ci sia un senso anche minimo in fondo a tanta insensatezza. Lo leggo e lo sento come un amico che forse qualcosa che mi può aiutare. L’altra narrativa, postmoderna, avantpop, millestrati, presuppone un lettore troppo smaliziato, ironico e colto, saturo di letteratura. Un lettore che ha bisogno di una giostra infinita di riferimenti. Io lì mi perdo. Non capisco perché ci sono tutti quei personaggi, quei piani sovrapposti, quelle deviazioni. La questione più o meno è questa. Così oggi leggo più volentieri i poeti, i mistici, le autobiografie, e i libri di Trevi. Mi sembra che chi scrive in quella direzione non si vergogni della propria inadeguatezza. Un caro saluto alla Nazione Indiana.
Sono parzialmente in disaccordo sui giudizi, ma interamente soddisfatto della risposta.
Grazie.
Quindi, Lodoli, fammi capire, hai grossi problemi anche con Tolstoj, Manzoni, Proust, etc. etc., o ho capito male?
Raul mi domanda:
“””Ma cosa significa “anche a me la via del coinvolgimento dell’autore sembra una possibilità vera, oggi, per la letteratura.”
Oggi?
Ma non lo si è sempre fatto?”””
In breve:
1. Ti invito a notare che ho usato l’articolo indeterminativo “una” (possibilità), non “la”. E’ UNA possibilità fra le altre.
2. Lo si è sempre fatto? Certo. Ma non ti sembra che da qualche tempo, diciamo negli ultimi dieci-vent’anni, c’è una specie di “poetica” strisciante, onnipervasiva, che permea un po’ tutta la galassia letteraria, dagli scrittori ai critici, dai giornalisti letterari ai lettori (che grazie al cielo da qualche tempo si esprimono eccome, in forum, newsgroup, blog)? Bene, questa galassia dà per scontato che lo “scrittore” sia un “narratore”, o meglio, un “romanziere”, e che il “romanziere” sia colui che racconta di personaggi d’invenzione, dove non coinvolge sé stesso con la riconoscibilità dichiarata dei propri dati autobiografici ed esperienziali (in soldoni: lo scrittore è un romanziere che può fare più o meno tutto, tranne dire: “questo mi è capitato, sto parlando di me”). Altrimenti ecco che scatta il “e chissenefrega di te? Chi ti credi di essere? Tuo compito è l’ascolto degli altri, anche in forma di immaginazione fantastica”, ecc. ecc.
Prova statisticamente a verificare quanti sono i libri “autobiografici” oggi. Dichiaratamente autobiografici. Sergio Nelli, Valerio Magrelli, Giulio Mozzi, le poesie di Sanguineti, Emanuele Trevi, l’ultimo di Pontiggia, in parte l’ultimo libro di Aldo Nove. All’estero: “Esperienza” di Martin Amis, i libri di Amelie Nothomb, qualcosa in Germania… Ora ovviamente moltissimi mi sfuggono, ma metti pure di arrivare a un elenco di 100 libri: sarebbero comunque un millesimo rispetto alla valanga di fiction (di tutti i tipi: fiction “di genere” o fiction che pretende di essere “letteratura alta”, ecc.) che si scrive e si pubblica. Diciamo le cose come stanno: all’umanità non interessa narrare DIRETTAMENTE (dichiaratamente) se stessa, né tantomeno leggere gli altri che narrano di sé stessi. L’umanità (almeno quella occidentale) vuole leggere le proprie FANTASIE. Benissimo. Ma che cosa sta succedendo alle fantasie? Che esse si stanno svuotando di peso. Rispettabilissimi avvocati di successo scrivono fantasiosi libri perversi infestati di criminali efferati, libri che, anziché gettare ombre e sospetti sulla loro affidabilità sociale e professionale, aumentano il loro prestigio (ieri ho visto in libreria un giallo del giudice Carlo Nordio, ennesimo fra i magistrati italiani che pubblica un giallo).
A me sembra che oggi l’invenzione fantastica non costi nulla, e stia diventando pura ginnastica della fantasia: chiunque può spararla grossa, e il risultato sarà non certo di provocare sgomento, scandalo, acquisizione conoscitiva, shock culturale, dubbio politico, estetico, ecc…
Allora, per questo io dico che OGGI può avere un qualche senso COINVOLGERSI come autori nella propria scrittura. Se vuoi, questo mio convincimento nasce anche da una riflessione sulla DOPPIA VERITA’ o DOPPIA LEGISLAZIONE DELLO SCANDALO: hai notato come in arte lo scandalo è dato per morto, mentre nella vita non lo è affatto?
E’ una cosa che pensavo anche dopo aver letto quel che diceva un personaggio del tuo romanzo “Chiudi gli occhi”. Il sacerdote fa prediche intensissime e provocatorie a Messa, ma i fedeli rimangono indifferenti. “Che cosa succederebbe – pensa il sacerdote, più o meno, non sto citando, parafraso a memoria – che succederebbe se QUESTE STESSE COSE gliele dicessi faccia a faccia, ai miei fedeli, seduto a tavola, in casa loro? ‘Come ti permetti, prete?’, mi assalirebbero, mi caccerebbero via, si offenderebbero a morte”, ecc. Bene: io posso tagliarmi le vene e spillarmi mezzo litro di sangue in una galleria d’arte, ed essere osservato da una folla di spettatori impassibili che alla fine mi applaudiranno pure. Ma se mi sogno di andare in ufficio in pantaloni corti e mi ostino a rifarlo, rischio di perdere il posto, o se anche solo passeggio per la strada a piedi nudi, tutti si volteranno a guardarmi chiedendosi se sono pazzo… Noi ci raccontiamo reciprocamente la favoletta dell’esaurimento della forza incisiva dell’arte (della parola poetica, letteraria, ecc.), ma è una favoletta perché diamo per scontato questo DOPPIO REGIME, che presuppone che l’arte (letteratura compresa) sia qualcosa di SEPARATO dalla vita, dai rapporti sociali veri, presuppone che l’arte se ne debba stare nel recinto dell’estetica, dove le è concesso fare le sue scenette isteriche che non disturbano più nessuno (altro che “épater les bourgeois”! Oggi sono i borghesi stessi che giocano a chi la spara più grossa)…
((In questo caso, “il recinto dell’estetica” è quella poetica strisciante e generalmente condivisa che dicevo prima, quella della narrativa che diffonde fantasie dichiarate…))
Per questo dico che il coinvolgimento dell’autore DENTRO la propria scrittura può essere una (UNA) possibilità vera, oggi… Se ci pensi, nessuno si disturba se la stessa cosa (il coinvolgimento autobiografico, la dichiarazione esplicita che ciò che si scrive RIGUARDA direttamente la vita dell’autore) la fa un poeta (cfr. anche l’ultimo libro di Milo De Angelis, appena stampato, che dichiara di poetare su un lutto personale): ai poeti, soprattutto in Italia, è “richiesto” di parlare di sé: è la linea lirica, che in Italia in alcuni periodi è risultata vincente, anche in tempi tutto sommato recenti (tanto da causare alcuni paradossi, come per esempio la sopravvalutazione del mediocre Ungaretti rispetto all’assai più potente Palazzeschi), fin quasi a rendere “poesia” e “lirica” quasi sinonimi…
Insomma, penso che oggi ci siano alcuni “logopati” che abbiano avvertito questa specie di “malattia” della parola letteraria: di solito si tratta di autori letterari, ma non sono certo i soli. E, fra gli autori letterari, ALCUNI di questi hanno escogitato, o meglio RIPRESO a praticare UNA delle possibilità della tradizione letteraria, una possibilità che ha millenni (Catullo! le confessioni di Agostino!), perché si tratta di UNA delle possibilità che ha la letteratura OGGI per ridare perso alla parola.
Scusa se ho riposto ammassando spunti in disordine, ma ho poco tempo, ho scritto in fretta, e so che posso contare su un lettore benevolo come te che connetterà spunti isolati e tesserà i nessi mancanti fra una frase e l’altra.
Come al solito basta capirsi.
Insisto con Proust. Non credo esista opera più profondamente autobiografica ed esibizionista (nel senso “scarpiano”) della “recherche”, però, anche lì, non si può certo dire che (uso le parole di Lodoli) non sia “satura di letteratura”, con una “giostra infinita di riferimenti”, piena di “personaggi”, “piani sovrapposti”, “deviazioni”.
Quindi, insomma, non è un semplice problema di “ciò che fa tendenza oggi” ma è una vera e propria modalità del romanzo. Della letteratura tutta. Ma perché “i promessi sposi” erano esenti da autobiografismo, benché Manzoni collocasse la sua fiction due secoli prima dalla sua nascita? Può, veramente, uno scrittore essere “fuori” dal suo scritto e dal suo scrivere? Un romanzo fantascientifico è per questo meno autobiografico? Ne siete certi?
Poi vero è che la “fictionalità” è “funzionale”. Ma non da oggi, su.
L’arte è stata messa da parte, è stata relegata a spazzatura del razionale (come dico il quel pezzo architettonico di qualche mese fa) già dal XIX sec. Ma, a questo punto, anche il “romanzo esibizionista” non incide, tanto quanto. Se al posto di stillarmi il sangue in un vernissage, parlassi dei miei trascorsi di trans inculato a sangue per procurarmi la droga, o della mia passione per le primule, o del mio vagare urbano, in un libro, per il semplice fatto che sta lì dentro, dentro un medium, si “depotenzia”. Ma così allora pari siamo, no?
Intendo dire che certe distinzioni servono fino ad un certo punto. Una cosa è dire “sento vicino questo modo di scrivere”, un altro è far intendere che quel modo di scrivere diventa un’opportunità, come dire, “più opportuna”.
Siamo in piena periferia. Ma è da lì che inizia la guerriglia. E ogni compagno di viaggio è ben accetto, qualunque “forma” utilizzi. Basta che non faccia il doppio gioco.
scrivere coi piedi nudi – bravo scarpa
mi avete messo la voglia di leggere di nuovo Foucault
Questa discussione mi sembra piuttosto interessante.
Fra l’altro mette in gioco il fatto che nel libro autobiografico, autonarrativo, autodiegetico, come lo vogliamo chiamare, si verifica un allineamento fra tre entità che di norma – per esempio nella narrativa in terza persona – rimangono distinte, ma che il lettore spessissimo identifica o omologa comunque: autore (Tiziano Scarpa, poniamo, se il libro è suo), narratore (Tiziano Scarpa, se compare dentro il libro per raccontarci la storia) e protagonista (Tiziano Scarpa, se la storia che ci racconta è proprio la sua, non è per esempio una che ha per protagonista Marco Lodoli).
Si tratta di un meccanismo delicato, e solleva problemi (e opportunità) che forse non è possibile risolvere semplicemente affermando che nei libri che scriviamo e nei personaggi che inventiamo c’è sempre moltissimo di noi stessi.
Stranamente, invece di schiumare sangue come al solito, mi sento d’accordo un po’ con tutti.
Noto comunque che anche Tiziano, a giudicare dalla sua risposta e dalle sue precisazioni, forse aveva equivocato come me sul senso della parola “ipernarrativa” usata da Lodoli.
Io ho citato Faletti perché mi sembrava che Lodoli si riferisse alla “narrativa coatta” – non nel senso di narrativa burina, ma di coazione al narrare, di “narrativa a tutti i costi”, diciamo.
Invece Lodoli ha precisato di avere usato il prefisso iper- in senso verticale o geometrico, per parlare di narrativa al quadrato, e mi ha fatto piacere che abbia lasciato perdere prudenza e galateo per fare dei nomi e chiarire il suo pensiero in modo davvero inequivocabile.
Mi viene in mente un episodio che mi ha colpito moltissimo.
Alcuni anni fa Bret Easton Ellis è venuto a Milano per presentare al Teatro Litta il suo ultimo libro, Glamorama.
La serata era presentata da Giuseppe Culicchia e Simona Vinci, e un attore leggeva brani dal libro. Dei due presentatori, uno era molto bravo, l’altro era un cretino e stava lì per narcisismo (non esibizionismo). L’attore leggeva malissimo. Il teatro era abbastanza pieno.
Dopo circa un’ora di discussione con il pubblico, che faceva a Ellis domande sul suo rapporto con la scrittura e sui contenuti del libro (ambientato, come sapete, in parte a Milano), salta su una ragazza piuttosto carina e, fra le risate generali, chiede:
“Scusi, ma lei è scemo come i suoi personaggi? Sì, dico, i suoi personaggi o sono criminali come il Bateman di American Psycho o sono dei perfetti cretini come il protagonista di Meno di Zero e, a quanto capisco, quello di Glamorama. Lei dice che a volte ci mette anni a finire un libro. Ma non le dà fastidio convivere per anni con degli idioti? E’ sicuro di non essere idiota anche lei?”.
Ellis è un bell’uomo ricco, che ha avuto praticamente tutto dalla vita e può permettersi di essere very cool. Ascoltò con attenzione la traduzione dell’interprete, sorrise, e rispose:
“Sono molto contento di ricevere questa domanda, per due motivi. Il primo è che posso precisare il mio rapporto con i miei personaggi. I miei personaggi non sono me, al limite non devono nemmeno essermi simpatici: devono INTERESSARMI. Il fatto di trovare in loro un interesse narrativo è una cosa diversa dal provare per loro affetto o una identificazione diretta, o dall’avere voglia di fare un viaggio in treno con loro (grande distinzione, NdRaul). Poi sono contento perché da un’ora stiamo parlando e adesso sento questa domanda. Bene, se fossimo in America questa sarebbe stata la PRIMA domanda del pubblico, e io da un’ora starei cercando di spiegare che non ho problemi con mia madre e non sono uno psicopatico che mette su carta le sue ossessioni. Quando voglio parlare di letteratura, devo venire in Europa.”
Sembra che non c’entri, ma forse c’entra. Secondo me c’entra.
Baci a tutti
PS Che bello, ssst!, stiamo facendo questa discussione in un angolino, in una piega di NI, e non è ancora arrivato qualcuno a inveire contro Scarpa, Lodoli o me, o a minacciare di morte Biondillo (andate a vedere nei commenti al pezzo di Guerriero), ecc. ecc. Solo una battuta civilissima di Kristian.
“…non ho problemi con mia madre e non sono uno psicopatico che mette su carta le sue ossessioni.”
Signor Montanari: per interposte persone sempre qualcuno vorrebbe colpire.Tiziano Scarpa è un generoso, molto più scrittore di lei; mi dispiace solo si presti alla sua malalingua.
Purtroppo i Titani son Titani.Le rimane la fionda,ma Golia nemmeno la vede. :-))))))
Con osservanza,
Gertrude.
Te la sei chiamata, Raul. A propos: ti segnalo, tanto per ridere un po’, il seguente trailer:/www.disney.it/DisneyChannel/showinfo/programmes/raoul/ e poi cliccare “la sigla di Raoul
Ipernarrativo significa anche iperderteminazione letteraria? Beckett è un esempio classico di iperderminazione letteraria.
Questa discussione mi interessa. Raul Montanari mi piace. Ma mi sa che è amico di Biondillo, e Biondillo, invece, deve morire. Prometto che smetterò di odiarlo, ma solo se muore. Ciao cari.
(Per Giandillo: smettila di fare sonni tranquilli; non te lo puoi più permettere). Buh!
Gertrude, non ho capito bene chi vorrei “colpire”, riferendo alla lettera le intelligenti parole di Bret Ellis. Liberissima per il resto di considerare Scarpa più scrittore di me; è quello che penso anch’io, infatti. Io sono un narratore, non uno scrittore; e in ogni caso chiunque abbia caro Tiziano è caro a me, anche se mi detesta o disprezza.
Tu però Filippo, se ti firmi col nome del più grande scacchista di tutti i tempi (prima o poi la scrivo, la sua biografia romanzata: me l’hanno già chiesta due editori!), sii degno di lui e di te stesso, dai. Lascia perdere Biondillo.
Anche a me sembrava un tipo pacioso, Biondillo; non certo un leccaculo, ma, diciamo, uno tranquillo. Poi abbiamo fatto una presentazione insieme, poco prima dell’estate scorsa, e mi ha fatto impressione il modo come si trasforma quando parla di cose che lo appassionano. Diventa tagliente, chirurgico, e non guarda in faccia nessuno. Non so se la mia testimonianza vale qualcosa per te, Fischer, ma Biondillo NON E’ un leccaculo e non merita di morire per questo. Sbagli bersaglio. Secondo me, se avessi visto i sandali che portava quella sera avresti individuato un oggetto di odio più congruo…
Mi interessa molto il discorso sulle narrazioni autobiografiche fatto da Tiziano Scarpa. Ma fra tutti i nomi ne ha dimenticato almeno uno, quello di Beppe Sebaste, autore di un libro recente su Parigi come quello di Trevi lo è su Roma, Hp, l’ultimo autista di lady Diana, accusato da molte parti proprio di essere impudico. Lo avete letto? Fra l’altro ho letto che è Emanuele Trevi che lo ha voluto pubblicare per Quiritta, e lo conosceva già da anni.
Montanari: l’importante è che ci siamo capiti! ;-))
Beh Raul mi piacerebbe molto leggere la tua biografia romanzata di Bobby Fisher, però considero Capablanca il più grande di tutti i tempi, poi Alekhine e poi Fisher. So che Bufalino aveva in mente di scrivere un libro su Capablanca…
Gertrude, un sorriso a te. Va bene così.
Lumina, Capablanca grandissimo, ma quello che ha fatto Fischer non lo ha mai fatto nessuno né prima né dopo.
Si è battuto da solo contro l’impero scacchistico russo/sovietico (che infatti, passato lui, ha ripreso il sopravvento).
Ha stabilito record performativi incredibili, vincendo un campionato americano con dieci vittorie su dieci incontri (attenzione: gli americani mica erano scamorze! Arrivavano secondi dietro i russi, alle Olimpiadi scacchistiche); poi battendo 6-0 prima Tajmanov e poi Larsen nei primi due incontri di eliminatoria per il match mondiale, e nel terzo sconfiggendo l’ex campione del mondo Petrosjan con 1 vittoria, 1 sconfitta, 4 pareggi e poi 4 vittorie consecutive. Nessuno, nessuno ha mai fatto neanche lontanamente una cosa del genere: a livello di Grandi Maestri, il pareggio è sempre il risultato più probabile; una sequenza di 13 vittorie consecutive come quella delle eliminatorie mondiali del ’71 (6 con Tajmanov, 6 con il grande Bent Larsen, la prima con Petrosjan) è senza precedenti e rimarrà un unicum. Incredibile aver battuto 4 volte consecutivamente il più grande specialista del gioco difensivo, Petrosjan.
Fischer vinceva col Bianco, col Nero, travolgeva gli avversari con una violenza folle.
Capablanca ha giocato relativamente poche partite (solo 300 circa in tornei di alto livello, mindiali inclusi). E’ diventato campione battendo Lasker all’Avana, complice il clima che il suo avversario non poteva soffrire, e ha perso immediatamente il titolo con Alechin. Lo adoro (chi non lo adora? Era un ex fanciullo prodigio, un viveur, un uomo meraviglioso!), ma il pazzo Fischer è proprio un altro paio di maniche.
Sono stato vicecampione italiano juniores, nel ’74, e avevo impostato tutto il mio gioco su quello di Fischer. Fischer è stato l’unico uomo, in tutta la mia vita, con quale avrei fatto cambio. L’unico.
Mi fa molto piacere che tu sappia ANCHE di scacchi!
Ciao e scusate la digressione. Fanatismo puro, lo so.
PS Attualmente Fischer è detenuto nel carcere di Tokyo, in attesa di estradizione negli USA. Lo hanno arrestato per un mandato internazionale emesso dal Dipartimento di Stato Americano, per attività antiamericane. E’ stato latitante (non è socialista, quindi non si deve dire “esule”) per anni. Boris Spassky, l’uomo al quale nel ’72 aveva strappato il titolo mondiale, è rimasto uno dei suoi pochissimi amici: ha scritto una lettera a Bush chiedendo di essere messo in carcere con Fischer, nella stessa cella di Fischer. “Dateci una scacchiera, però”, ha concluso.
Eh, questa biografia bisognerà scriverla…
Dipende se le vite degli autori sono interessanti. Dipende se lo sguardo e le percezioni degli autori sono da autori. Dipende. Di tutte le narrazioni esibizioniste e autobiografiche per coinvolgimento, che qui sono state citate, a parte quella di Sebaste mi sembra che stiamo agli antipodi della letteratura.
Quanto a Lodoli: a quale controllo allude? I Wu Ming utilizzano la sponda del genere storico per allegorizzare. Per allegorizzare bisogna sfondare l'”io”, e non solamente aggrovigliare più “io”. Wu Ming sfonda “io”, ed è precisamente questo il motivo per cui gli idioti non ne sentono la profonda lingua. In questa operazione non c’è spazio per un “io” ormai cristallizzato in epoca borghese e depressiva ormai passata: poiché, sic vult, il tempo passa. La difesa estrema del finto scrittore è sempre questa conservazione dell'”io” che ne frena la schizofrenia e l’esplosione politica. Lo dico a Tiziano: perfino il sacrificio dell’esibizione è una difesa egoica.
A me non sembra che il libro di Trevi aggrovigli un io. Tutt’altro: è un libro limpido, commovente, semplice. Mi pare che Genna stia sbagliando obiettivo. E sinceramente non capisco il discorso della allegorizzazione, o della difesa dell’io che frena la schizofrenia: parolone un po’ vuote, direi. Preferisco i cani di Trevi, i suoi amici poeti, le sue passeggiate in mezzo alla vita, la sua lingua chiara e naturale, la cultura profonda che non si incarta, ma che riesce a farci vedere meglio e amare ciò che accade a un passo, sotto casa, oggi. Insomma, consiglio a tutti di leggere Senza Verso, non è un gargarismo egoico, per niente. Ci riguarda.
In effetti, Lodoli, io non dico che Trevi non debba essere letto, tutt’altro. Ma ti richiedo, proprio per capire, non per amore di polemica… Tolstoj, Manzoni, Proust?
Qui, volenti o nolenti, si rischia di ragionare per antinomie, coppie antitetiche inesistenti: da una parte l’autobiografismo (o meglio, il mettersi in gioco dell’autore in quello che scrive), dall’altra l’ipernarratività spiriforme (la letteratura di trama, d’invenzione, di grande impalcatura, di “speculazione”).
Noi WM che dovremmo dire? I nostri romanzi sono iper-narrativi, molti nostri racconti e scritti d’occasione sono autobiografici. A ben vedere, e come faceva notare Biondillo, sono fortemente autobiografici anche i romanzi iper-narrativi, sotto il cielo non vi è opera che non sia autobiografica. [Per non parlare di “Asce di guerra”, ché il discorso sarebbe troppo lungo.]
Trevi piace pure a me e non lo percepisco affatto come membro di un esercito nemico (nemmeno Scarpa, se è per questo – ma non so quanto ciò sia reciproco).
Del resto Trevi apprezza, e non poco, anche l’ipernarrativo spiriforme: ha curato Salgari, ha scritto cose importanti sul noir e su autori come Battisti etc.
Lodoli, all’inizio, ha espresso un’opinione da lettore, soggettiva e legittimissima: libri come quelli di Trevi riesco a leggerli e mi dànno qualcosa, se invece provo a leggere Wu Ming o Evangelisti o Avoledo, mi stanco dopo poche pagine. Ok, è giusto così. Io non riesco a leggere i libri di Lodoli, ciò non toglie che a volte apprezzi quel che scrive, come lui ha apprezzato il film di cui ero co-sceneggiatore etc. etc.
Scarpa, invece, ha fatto un passo in più in direzione di una *precettistica*, non basta sottolineare un articolo indefinito (“una”) per togliere quella sensazione. Il succo del discorso mi sembra questo: “è autore chi si mette in gioco direttamente nella scrittura, sulle pagine, e questo avviene se si parla di sé”.
Siamo o non siamo già in territorio normativo, quindi lontani dall’approccio di Lodoli?
Tutto il resto? Secondo Scarpa, scorciatoie, e per giunta imposte dal mercato. “Poetica strisciante onnipervasiva”. “Valanga di fiction”. “Invenzione letteraria che non costa nulla”. “Spararla grossa”. “Pura ginnastica della fantasia”.
Non so se esista davvero questa *dittatura* della trama, dell’intreccio, della fiction, a scapito del letterario meno narrativo o addirittura non-narrativo.
In tutte le società storiche che si sono avvicendate sul pianeta, il letterario narrativo ha *sempre* riscosso successo, anche a scapito di altri generi. Non è storia di oggi, ed è normale: raccontare storie è uno degli aspetti fondamentali del vivere (e convivere) fra umani. Senza storie non esisterebbe vita associata, senza la “speculazione” garantita dalle storie (nel senso di ipotesi sulle forme di vita, sui destini individuali e collettivi) non vi sarebbe riflessione della società su se stessa. Narrare, fabulare, è un atto sociale, di più, è una *funzione* sociale, imprescindibile, inestirpabile, e lo è dalla notte dei tempi.
Cerco di rovesciare il punto di vista su quel che accade oggidì: a me pare che in questa società vi sia *coazione all’autobiografismo*, al parlare di se stessi, all-about-me, io io io io io io io io io. Stendere al sole i cazzi propri affinché chiunque possa farseli. Un valore in declino è senz’altro la discrezione.
Reality show, “La vita in diretta” (titolo che è… tutto un programma), “Amici” di questa e di quella, blog personali con la webcam 24h su 24.
In giro è pieno di gente impegnatissima a parlare di sé, anche e soprattutto se non ha niente da dire, perché talmente dedita al proprio compito da non avere una vera e propria vita sociale.
E’ esattamente il rischio che hanno corso, corrono e correranno sempre gli autori autodescriventi-introspettivi: l’autoreferenzialità.
Scrivo di me.
Scrivo dello scrivere di me.
Scrivo del riflettere sulla necessità di scrivere di me.
Scrivo della difficoltà di continuare a scrivere di me.
Scrivo di quanto mi cruccio (o non mi cruccio) per via di questo bluff che è lo scrivere di me.
Scrivo del fatto che questo libro in cui parlo di me è uguale a quello precedente.
Scrivo del non riuscire a scrivere un libro in cui parlo di me che non sia uguale a quello precedente.
Scrivo delle reazioni al fatto che questo libro che parla di me è uguale etc. etc. etc.
Ok, tu come autore hai il diritto (giammai il dovere) di scrivere di te stesso e delle tue giornate, ma se io – io, il lettore – ravviso che non hai un cazzo da dire e stai ciurlando nel manico (e sia chiaro che non è il caso di nessuno degli autori intervenuti in questa discussione), ho a mia volta il diritto di porre la fatidica domanda retorica: “E chi se ne frega?”.
Sul vecchio “Cuore” c’era addirittura una rubrica con quel titolo.
Porre quella domanda non è un semplice sgarbo o segno d’ottusità, come sembra pensare Scarpa: è una forma di resistenza alle autorappresentazioni che ci invadono, ai discorsi “all about me”.
Resta il fatto che quando tra gli “autodescriventi” trovi uno che ha qualcosa da dire (chessò, Kerouac, Henry Miller, qualcosa di Bukowsky…), è un’esperienza bellissima.
Grazie dell’attenzione.
Insomma, Wu Ming, per quanto si possano capire le sue ragioni, non le passa per la testa che c’è troppo “schermo” e poca “datità” in certo tipo di scrittura?
Mi spiego, anzi prima le faccio una domanda: la sua è epica? Crede di toccare un fondo comune con le sue storie o scrive per una nicchia impareggiabilmente egotica?
Evangelisti, Avoledo, lei, Genna restituiscono un mondo “documentato”, senza anima, e di riporto o ritorno.
Allo scrittore credo si chieda piuttosto altro: la pagina in presa diretta, la sonda, un dire ultimativo e profetico, la creazione sganciata dai miti fatui, e se qualcuno mi aiuta ad aggiugerne altri, ve ne sarò grato… :))))
Sì, ritengo che la nostra sia epica, *tutto* il nostro lavoro è lavoro sull’epos. Cerchiamo di scrivere il *romanzo epico totale* (e corale, moltitudinario) e toccare – come fa, appunto, il mito – un fondo comune di esperienza, lotta, visione, in direzione di un utopico ricomporsi della frattura tra azione e sogno. Tant’è che ricorriamo spesso al soprannaturale.
C’è poca “presa diretta” e molto labor limae, questo è vero. La fatica del sottrarre e del modificare. Tale “travaglio” riguarda sia l’impalcatura delle trame, a cui dedichiamo anni di ricerche e impegno, sia la lingua (*le* lingue) che utilizziamo e ri-creiamo di libro in libro, con crescenti preoccupazioni di carattere melodico e addirittura metrico (con ricorrenti sequenze poliritmiche formate da settenari, endecasillabi e martelliani), talvolta con ricorso alla “versificazione barbara” di carducciana memoria (“New Thing” contiene passaggi scritti in asclepiadeo maggiore, e c’è pure chi se n’è accorto).
Curioso sentir definire i nostri libri “senz’anima”: a dire di altri, di anima ce n’è quasi troppa, infatti sono romanzi “animisti”, in cui anche luoghi e oggetti inanimati hanno un’anima, uno pneumos, un *mana*.
E, sì, c’è spazio anche per l’enunciazione profetica (benchè non “ultimativa”), nel nostro progetto narrativo, checché ne pensi chi non ci legge eppure commenta.
Che poi i risultati siano o meno all’altezza del nostro intento, è diverso paio di maniche.
Come altro paio di maniche è il fatto che i nostri libri non somiglino in alcun modo a quelli di Tullio Avoledo: diverso l’immaginario, diversi temi e modelli di riferimento, diversissimo il lavoro sulla lingua (quest’ultima non è una delle preoccupazioni di Avoledo). L’unico tratto vagamente affine è la “ipernarratività” di cui parlava Lodoli, ma non basta per essere accomunati.
Insomma, mi sfugge il criterio in base al quale, su questo blog, sovente si compilano incongrue liste (di proscrizione?) da gettare in faccia al “nemico” di turno oppure altre (di beatificazione?) da elevare all’empireo della patrie Lettere. In entrambi i casi, si tende a omologare scrittori e percorsi molto diversi tra loro. Io, per dire, non mi sognerei mai di scrivere “libri come quelli di De Carlo o Moresco”, “libri come quelli di Montanari o della Fallaci” e così via.
Wu-ming, non se la prenda.Questà è comunicazione.
E’ una rovina la sua “professoralità” pedantesca. E poco le fa onore.
Che fa mi ha scritto la ricetta, con tanto di metodo e costruzione/costrizione?! Che fa, costruisce gabbie per uccelletti???
Vediamo se riesco a dirla meglio: epica di riporto, iperculta, documento ad uso e consumo di “frangia”, molto schermato. Così leggo la vostra opera.
Mito?Sì, ma masticato e rimasticato e molto filo filo filo….
P.S. Mi dica poi perchè si considera un nemico! A piè sospinto vede nemici. Vede fascisti per caso, o nazi?? Sarà vizio, il suo! E’ libero, come me, di dire ciò che le aggrada. Cosa teme? O forse non si capacita del fatto che non la si onori come dovuto. Si faccia domande e si dia le risposte. Senza impermalirsi, perdindirindina!
Ma caro Spiro, che dice mai? Professoralità? Pedantesca? Impermalirsi? …Nazi? Forse Lei s’adombra perchè non s’attendeva risposte, e in effetti lo stile apodittico, con le frasettine muriatiche che suonano belle definitive, poco s’adatta alle ribattute.
Si rischia sempre di restare a bocca aperta e un po’ stizziti, quando la palla, benché appena racchettata, torna subito nella propria metà campo: – Poffarbacco, ma il gioco non consisteva nel cacciarla di là? E come mai torna di qua? Mica è giusto!
Non se la prenda, Spiro: questa è comunicazione. Argomenti. Se ne prepari alcuni pure Lei, d’ora in avanti, e non venga a noi armato solo di mottetti. Vedrà che con un po’ d’impegno se la caverà in modo decente.
Le consiglio un film molto istruttivo: “Ridicule” di Patrice Leconte. Descrive molto bene – grazie a una geniale allegoria – il milieu dei commentatori di blog, e i rischi che si corrono a voler sembrare arguti a ogni costo. Grazie per lo scambio.
A me piace molto Wu Ming 1 per alcuni motivi, Trevi per altri motivi. Cosa sia epica lo lascerei dire ai lettori del prossimo millennio.
Mi sembra adesso prematuro.
Wu Ming, quello che dovevo dire l’ho detto. Non risponda a tono, coi palleggi.Alcune risposte ha dato, e si è risposto bene,a dire il vero,ammettendo. Altre le ha schivate, da retore. A me basta così, altri diranno.
– …e ho detto.
– E che hai detto?
– …
“Totò, Peppino e la malafemmina”, di Camillo Mastrocinque, 1956
Invece io penso che il presente si *prenda* soltanto nel tentativo dell’epos, che è indistinguibile dalla lirica pura, non secondo stile: è indistinguibile secondo sostanza. Il tentativo dell’epos dei Wu Ming o di Evangelisti o di quello che risulterà il romanzo di Colombati è effettuato non a tavolino. L’epos è un desiderio collettivo che ha bisogno di antenne: gli scrittori sono sgradevoli antenne. Quanto alle liste di Spiro, sottolineo che se mi metto a fare un lavoro filologico, giuro che riesco a dimostrare familiarità tra De Carlo e la Fallaci.
Non barare, Giu: io, come possibili esempi di accostamenti mostruosi dovuti a vis polemica, ho proposto “De Carlo e Moresco” e “Montanari e Fallaci”. Fra De Carlo e Fallaci son capaci tutti, di trovare familiarità: trattasi di due autori incontenibilmente pregni di sé, intenti a sfidare il ridicolo a colpi di stereotipi (l’arabo che invade e insozza l’Europa, il milanese che va a vivere in un casolare in Toscana etc.) e di siparietti auto-spettacolari (Fallaci intervista se stessa, De Carlo suona la chitarra durante le presentazioni), perdere la sfida (quella contro il ridicolo: vince lui a mani basse), eppure – o forse proprio per questo – vendere l’ira di dio. Detto questo, almeno De Carlo non semina odio, e pubblica su carta riciclata.
Ieri ho riletto ‘Il peccato’ di Boine. Quello era meraviglioso esibizionismo.
Wu Ming 1 è Giuseppe Genna che si è fatta una pera di intelligenza.
E un corso accellerato di scrittura.
E allora andiamo avanti col corso di scrittura.
Ripassiamo i rudimenti.
Si scrive: “accelerato”.
Cari amici, scusate, non mi è stato possibile rispondere prima.
Se avessi a disposizione una sola frase, risponderei così:
“Se questo è un uomo” NON E’ FICTION.
Scrive Gianni Biondillo:
“””“Se al posto di stillarmi il sangue in un vernissage, parlassi dei miei trascorsi di trans inculato a sangue per procurarmi la droga, o della mia passione per le primule, o del mio vagare urbano, in un libro, per il semplice fatto che sta lì dentro, dentro un medium, si “depotenzia”. Ma così allora pari siamo, no?”””””
1. Non sono d’accordo. Ma proprio per niente. Se tu dichiari che quelle non sono tue fantasie ma cose che ti sono successe, le cosa cambiano nettamente. Forse tua moglie e i tuoi suoceri ti vorrebbero bene ugualmente, ma il tuo racconto potrebbe essere usato contro di te da qualcuno malintenzionato. Insomma, creeresti uno scandalo (non importa quanto diffuso, quanto vasto). E io leggerei con un atteggiamento diverso i tuoi libri, a seconda che tu mi dica che trattasi di fantasie (romanzo) o cose che ti sono capitate (autobiografia).
2. Quando si scrive su qualcosa che ha uno statuto DICHIARATO di “realtà” e non di dichiarata “fantasia”, tutto diventa diverso: la gestione micrografica del linguaggio, ogni singola parola… Un aggettivo, da semplice trovata brillante, può diventare causa di conflitti: ricordo il divertente aneddoto di un giornalista di Crema che si era permesso di definire “pimpante” una signora in un articolo di cronaca, e che se l’è vista irrompere in redazione furibonda: “Io la denuncio! Pimpante sarà lei! Pimpante lo dice a sua moglie!”
Carla Benedetti ha raccontato una vicenda di potere, senza inventare una clamorosa epica spettacolaristica. Ha RACCONTATO, basandosi su fonti pubbliche, ritagli di giornale. Risultato: causa intentata per diffamazione, richiesta di un milione di euri di risarcimento.
3. Può aiutarci la teoria degli atti linguistici. Non tutto è semplicemente “frase”. Alcune sono promesse, altre poesie, altri sono saluti, eccetera. Così, secondo me, si compiono atti linguistici DIVERSI scrivendo un romanzo OPPURE un libro dichiaratamente autobiografico. In alcuni momenti storici, può essere importante compiere atti linguistici DIVERSI. Non sto dicendo che io conosco qual è l’atto linguistico GIUSTO, oggi. Dico solo che l’atto linguistico autobiografico, in letteratura, oggi mi sembra particolarmente (strategicamente?) adatto a ridare intensità alla parola.
4. Faccio notare che un (secondo me) difettoso romanzetto sessuale è diventato popolarissimo perché la sua autrice, concordando con l’editore la strategia di comunicazione (non è un’ipotesi, la mia: ho letto l’ntervista di Melissa P. sulla “Rivisteria”, dove dice queste cose), ha dichiarato che si trattava proprio del suo diario. Ha scelto di fare un atto linguistico diverso da quello letterario pacifico che viene comunemente accettato oggi (“qualcuno ha inventato questa storia qua”). Ha barato? L’editore è un furbastro? Il libro fa schifo? Ha funzionato perché si tratta della solita storia della perdita dell’innocenza di una inesperta verginella? Ha fatto sbavare i pornomani ipocriti? Ok, ok, d’accordo. Ma in QUESTA discussione mi interessa SOLTANTO il fatto che l’autore abbia compiuto quell’atto linguistico lì. Le sue parole sono CAMBIATE DI STATUTO: non sono state più lette come “le fantasie di una sedicenne”, ma come “le esperienze di vita di una sedicenne”.
5. Quando si scrive di cose viste, vissute, ecc., il linguaggio entra in tutt’altra rete conflittuale, il regime di scambio simbolico (fra la parola e il suo significato, fra la parola e la sua ricezione) non è più soltanto fra parola e fantasia e valore emblematico-metaforico-allegorico, ma prima di tutto fra parola e fatti. Lo so che sembra ingenuo, ma sono pronto a difendere questa ingenuità. E a chiunque alzi le spalle con sufficienza, risponderò con il mio mantra:
“Se questo è un uomo” NON E’ FICTION. Io credo che questa via autobiografica possa essere una via molto forte, oggi. Ripeto: se mi spillo mezzo litro di sangue in una galleria d’arte, ormai sono un artista di routine. Se cammino a piedi nudi per la strada, sono un pazzo. Se racconto di serial killer, sono l’ennesimo narratore epigonale che la spara grossa. Se racconto il mio fallimento coniugale a cui ha assistito soltanto il mio cane, e DICHIARO che è la mia storia (come ha fatto Trevi nel suo “I cani del nulla”, mettendoci in copertina il sottotitolo “Una storia vera”, che è nient’altro che il segno di un ATTO LINGUISTICO, un atto linguistico DIVERSO, né migliore ne peggiore, da quello romanzesco), entro nel regime dello scandalo (anche se piccolo, non importa! Ma chi è che va a piedi nudi per la strada? Nessuno. Tutti conformisti! Tutti pronti a tagliarsi le vene in galleria d’arte, ma nessuno, o pochissimi, che abbia il coraggio di togliersi un calzino sul marciapiede…)
6. Vi prego, non fatemi obiezioni scontate, richiamandovi a tutti i luoghi comuni delle teorie letterarie degli ultimi due secoli, né fatemi le solite citazioni, da “la Bovary c’est moi” in poi… Queste cose le dico DOPO aver fatto il giro completo del tabellone. Vi ricordate: a un certo punto, nei vecchi flipper, si arrivava a 999.999.999, e bastava sbattere su un altro funghetto per totalizzare 000.000.000? Vi parlo da questo tipo di “zero”.
Scrive Wu Ming 1
““““Scarpa, invece, ha fatto un passo in più in direzione di una *precettistica*, non basta sottolineare un articolo indefinito (“una”) per togliere quella sensazione. Il succo del discorso mi sembra questo: “è autore chi si mette in gioco direttamente nella scrittura, sulle pagine, e questo avviene se si parla di sé”.
Siamo o non siamo già in territorio normativo, quindi lontani dall’approccio di Lodoli?””””
1. Caro Wu Ming 1, rassicurati, nessuna precettistica. E tantomeno conferimento dello status di “autore” (chi sono io per dire chi è autore e chi no? E chissenefrega chi è autore e chi no: quella tua frase che riassume il succo del mio intervento è impostata imperfettamente: non “è autore chi si mette in gioco direttamente nella scrittura, sulle pagine, e questo avviene se si parla di sé”, bensì, più o meno: “oggi la parola letteraria può diventare più intensa, più potente se l’autore-narratore dichiara di essere coinvolto in ciò che racconta”). Nessuna precettistica, e nessuna svalutazione delle ALTRE vie. Io stesso scrivo anche storie moltitudinarie millestrati, mi faccio esplodere in schizomorfe schegge pluridentitarie, e quando le leggo in pubblico vengo attraversato fisicamente da raffiche di voci diverse, da personaggi a cui non assomiglio per niente. Il prossimo mio breve libro è scritto in lingua abruzzese-campana (io sono veneziano!), ed è la storia di un paese che insorge contro le autorità che vogliono mettere una discarica di spazzatura…Tasso di autobiografismo: zero virgola zero percento!
Scrive WM1:
““““Non so se esista davvero questa *dittatura* della trama, dell’intreccio, della fiction, a scapito del letterario meno narrativo o addirittura non-narrativo.””””
Ma sì che esiste. Basta guardare la quantità di libri di pura trama d’invenzione che si pubblicano rispetto agli altri. Non direi che è una “dittatura”. E’ una dominanza culturale e di mercato.
Scrive WM1:
““““Cerco di rovesciare il punto di vista su quel che accade oggidì: a me pare che in questa società vi sia *coazione all’autobiografismo*, al parlare di se stessi, all-about-me, io io io io io io io io io. Stendere al sole i cazzi propri affinché chiunque possa farseli. Un valore in declino è senz’altro la discrezione.
Reality show, “La vita in diretta” (titolo che è… tutto un programma), “Amici” di questa e di quella, blog personali con la webcam 24h su 24.
In giro è pieno di gente impegnatissima a parlare di sé, anche e soprattutto se non ha niente da dire, perché talmente dedita al proprio compito da non avere una vera e propria vita sociale.””””
Secondo me questo tuo controargomento mischia le carte, non è corretto dal punto di vista concettuale. Che c’entra la tivù? Io stavo parlando di libri. L’esempio che facevo del giudice Carlo Nordio che scrive un giallo è un esempio tratto dall’editoria, dalla letteratura, non dalla tivù. Con la stessa tua strategia argomentativa, io potrei dire lo stesso della fiction: la tivù produce tantissimi sceneggiati, una marea di fiction, perché dovrebbero fare fiction anche gli scrittori? Gli scrittori non devono scrivere più noir, la tivù ne fa già abbastanza, non se ne può più di tutti questi delitti inventati, nessuno si trattiene dal mettere in piazza le sue fantasie, il valore della discrezione in materia di storie inventate è in declino!
Perciò: che me ne importa se in tivù passa tanta autobiografia? Ma soprattutto: ti pare che sia autobiografia, quella? E’ puro cabaret. Un libro solo di Trevi lo sbaraglia, tutto quel finto autobiografismo spettacolaristico della tivù. Dici bene: quella gente spesso non ha niente da dire. Ma Trevi da dire ne ha moltissimo, invece.
Scrive WM1:
““““Resta il fatto che quando tra gli “autodescriventi” trovi uno che ha qualcosa da dire (chessò, Kerouac, Henry Miller, qualcosa di Bukowsky…), è un’esperienza bellissima.””””
Ma infatti! E allora vedi che sei d’accordo con me? Il coinvolgimento dichiarato dell’autore in ciò che scrive, lo ripeto, è UNA delle possibilità vere che la parola ha oggi. (A me sono piaciuti tantissimo i libri di Trevi, ma anche l’ultimo di Lagioia. Sono vie diverse. Ma la seconda, quella della “narrativa d’invenzione”, “iper” o no che sia, mi sembra quella dominante, se non altro statisticamente. Io caldeggerei ANCHE l’altra. Tutto qui).
Scrive Scarpa “[…] la seconda, quella della “narrativa d’invenzione”, “iper” o no che sia, mi sembra quella dominante, se non altro statisticamente. Io caldeggerei ANCHE l’altra. Tutto qui).”
Ho cercato di dire la stessa cosa (espressa naturalmente un po’ peggio) sul blog della Lipperini: non c’era verso, mi vedevano come un cripto nemico e proprio per questo da combattere ancora più duramente. Ho continuato per un po’, poi ho smesso di intervenire.
Vabe’
Off topic per Scarpa, qualche giorno fa mentre facevo delle fotocopie entra una collega e mi dice tutta contenta che stava leggendo “Corpo”. Non conosceva niente di tuo, non aveva letto praticamente niente di italiani contemporanei. Mi ha detto un po’ di cose sul libro (cominciava le frasi ma non le finiva: tentava di dire cose che di solito non si sentono dire) e è uscita dall’ufficio felice come una pasqua.
Vorrei provare ad aggiungere un tassello alla nostra discussione. A me pare che una narrazione epica debba necessariamente avere alle spalle un sentire popolare, un’esperienza collettiva, un coro di voci. I romanzi di Fenoglio sono, a modo loro, epici proprio perché uscivano da un dramma plurale. Insomma, è sempre un io a scrivere, ma se vuole essere epico, deve avere un immenso noi che spinge sulla nuca. Quelle mille storie saranno la sua storia, ma anche le fantasie, le menzogne, le illusioni di un tempo largo potranno entrare nel suo canto epico. Se invece lo scrittore non ha vissuto nulla di tutto ciò, può inventare delle belle trame, pescare negli archivi come un trovaroba del cinema, cercare di essere più avvincente che può, come ad esempio era Salgari, ma di certo non sarà uno scrittore epico. Sarà un bravo scrittore di libri d’avventura, tutta un’altra faccenda.
A wu ming, o vo capi’ o no che chesta nazione indiana è, no la to nazio’ ammerecana!!
In questa discussione pensavo di essere più d’accordo con Lodoli (soggettivo) e meno con Scarpa (precettistico), e invece, dopo i chiarimenti di quest’ultimo, scopro che era l’esatto contrario :-)
Omero – quel banale scrittore di romanzi d’avventura – non c’era, a Ilio.
Tantomeno c’era Virgilio, che era di un bel po’ postero di Omero.
Però ne hanno scritto entrambi, miscelando storia tramandata e invenzione. Ne hanno scritto in modo appassionante, e non mi si dica che quella non è epica.
John Ford, il cineasta più epico del suo tempo, non era ancora nato ai tempi del selvaggio West che ha narrato.
Se portassimo il ragionamento di Lodoli alle sue conseguenze logiche, arriveremmo a dire sfondoni pazzeschi.
Faccio intenzionalmente nomi di autori considerati “alti”, non scribacchini d’avventura.
Forse la Yourcenar non doveva scrivere le “Memorie di Adriano” o “L’opera al nero”, visto che in quelle epoche non era ancora nata e non aveva vissuto quelle vicende?
Manzoni non doveva scrivere del dominio spagnolo in Lombardia, dato che aveva la sfiga d’esser nato dugent’anni in ritardo?
Punto di vista tanto interessante quanto – temo – difficilmente proponibile a un narratore, in quanto un filino *castrante*.
E scrivere della Resistenza, del Ventesimo Secolo, del movimento operaio, è plausibile anche se si è nati dopo? Quelle storie sono ancora tutte lì, ad attraversarci, a parlarci. Io, che ho quel background familiare e sociale, posso scrivere di guerra partigiana anche se non vi ho preso parte di persona?
Secondo questa logica, non si potrebbe scrivere d’America se si è italiani, benché quest’entità chiamata “America” sia oggi in ogni dove e la stessa cultura europea negli ultimi sessant’anni sia stata modificata dall’impatto con quella americana.
Parlando di America si parla anche di noi stessi, inoltre – di questo sono profondamente convinto – oggi un autore europeo può raccontare l’America mostrando cose che gli americani non vedono (per il troppo poco distacco, per l’eccessiva insularità autocentrica e perché non conoscono la propria storia).
Mi sembra un punto di vista terribilmente provinciale. Esorterei a prendere d’esempio il sotto-genere narrativo italiano (in senso lato) meno provinciale dell’ultimo mezzo secolo, un sotto-genere che ha raccontato l’Italia del XX secolo anche se in superficie parlava d’America del XIX secolo: lo spaghetti-western.
Non mi si venga a dire che Sergio Leone non è epico.
Fammi capire, Tiziano, che io sono tonto.
“Kamikaze d’occidente” cos’è? Cosa ho letto? Un’autobiografia o una fiction? No, sai, dato che sulla copertina c’è scritto “romanzo”, io non so, a questo punto se mi è piaciuto o meno. Sapere se è vero, o fiction, dovrebbe, per quello che dici, mutare la mia stessa opinione dell’oggetto scritto. Sapere se hai scopato VERAMENTE con tutte quelle donne dovrebbe mutare il mio giudizio sul libro. O no?
E poi, te lo dissi già un’altra volta: “Se questo è un uomo” non è l’unica testimonianza che ci viene dai lager. Perché ci ricordiamo solo di quel libro? Perché lo troviamo nelle storie della letteratura italiana, a dispetto di decine e decine di testimonianze di sopravvissuti italiani che solo gli storici leggono?
La “testimonianza” è un atto linguistico. Ci sto. Non basta, però, di per sé, a farlo diventare letteratura. Così come la “narrazione di fantasia” non basta per fare dell’oggetto scritto un’opera di letteratura. Io la vedo così. Alla fine, caso per caso, è l’oggetto scritto, e la sua capacità di vivere indipendentemente dall’autore stesso, che vince o perde, che si fa letteratura o meno.
Trovo molto interessante quello che dice Lodoli, sull’epica, sull’ “io”, sul “noi”. (Anche se, lo dico con dispiacere, ancora non ha risposto alla mia domanda).
(vabbe’, Wu Ming 1, così, però smascheri la mia strategia di accerchiamento!)
;-) G.
La cosa che scrive Gianni di Primo Levi vale anche per Fenoglio. A fronte di una montagna di romanzi e memorialistica sulla Resistenza alta quanto il Cervino e forse più, noi ricordiamo di “Una questione privata”. Lo ricordiamo perchè è un atto linguistico importante, ma anche perché è – a suo modo – un western, e sfido chiunque a smentirmi.
Insomma, che volete di’, lo chiedo a Lodoli, soprattutto, che l’epica di Wu Ming è troppo “ragionata” come una bibliografia, per caso? Che la parola di Wu-Ming celebra l’asclepiadeo saffico e ricorda Carducci, come gli hanno fatto notare? E che in fondo in fondo, nemmeno a scvare tanto poi, gioca? Smonta, rimonta, fa sequel??
Fatemi capi’
Beh, mi fa piacere vedere che le critiche si sono rovesciate di segno. Fino a qualche tempo fa c’era chi diceva che i nostri libri erano tutte viscere, poca lingua e niente cervello (bah!), robetta dozzinale da edicola, al livello di Zagor e Tex Willer. Ora, stranamente, sono tutto cervello (“troppo ragionati”) e troppa lingua (a proposito, l’asclepiadeo saffico mi pare non esista) e niente viscere :-)
E magari è proprio la stessa gente, che non li aveva letti prima e non li ha letti neppure adesso.
Ragazzi, vendere non è una colpa, e chi vende non è automaticamente dall’altra parte della barricata. Quando concorderemo su questo, forse scenderà il livello di succhi gastrici e potremo ragionare insieme in modo proficuo.
Voglio intervenire perché è pur sempre sabato sera una tristezza infinita e questa discussione è garbata, come dicono gli avversari delle trasmissioni televisive trash. Dunque.
Concordo con Raul Montanari che Robert “Bobby” James Fischer sia stato il più grande. Però, benché comparazioni del genere siano ridicole, ricordo che Fischer medesimo dichiarò “probabilmente Paul Morphy è stato il più grande di tutti noi”. E una cosa: NON SCRIVA LA BIOGRAFIA DI Fischer, lo lasci in pace, se gli vuol bene, e poi di libri del genere ce ne sono già innumerevoli, tutti orrendi. Come lo sono tutte le biografie. Tempo fa ho preso la biografia di Glenn Gould scritta da tal Kevin Bazzana. Fa cacare. Quelli di e/o andrebbero mandati al macello per averla tradotta. E perché pubblicano Carlotto.
In secondo luogo: mi schiero incondizionatamente dalla parte di Trevi-Lodoli, e incondizionatamente contro Wu Ming 1 al quale chiedo di darsi un cazzo di nome e cognome come tutte le persone adulte.
Finito. Sono idiota, lo so, solo un idiota interviene nei forum.
intervento ben garbato, Giordano, complimentoni.
Biondillo, guarda che il discorso di firmarsi con nome e cognome vale anche per te. Roba da pazzi. Wu Ming. Gianni Biondillo. E cosa dopo? Il fantasma formaggino?
Caro professor Roberto Bui, alias Wu-Ming 1, è proprio un professore di scuola superiore, mi dispiace che non riesca a capire quando la si voglia coglionare.Non deve scrivere “mi pare che non esista”, che professore è, sia più sicuro: non esiste! Asclepiade è uno, Saffo è un’altra, Carducci è suo padrino!
Ma finendo di trivialmente scherzare……
Scarpa, Lodoli, cosa volete mai dire?
Wu Ming ha ragione. Vende. Della sua epica nulla rimarrà, lo sa pure lui.
Voi la mettete sulla qualità, sulla grana della voce, Wu-Ming non può capire, lì arriva, aldilà trema.
Se quella di Moresco è “epica del profondo”, quella di Wu-Ming è ” epica di superficie”, va bene così.
E ancora: non potete chiedere a questi narratori(Evangelisti, Wu-Ming, Avoledo, Genna, Faletti, Ammaniti) quello che chiedete. Loro non sono.
L’eterna querelle scrittori/narratori, va a noia oramai.
Già il fatto che un Wu-Ming di turno(che almeno interviene, dovete dargliene atto, è un signore, rispetto ad altri)mostri la coda di paglia, vuol dire che lo “schermo”, caro biondillo, parlo pure con lei,inizia a fare il suo tempo.
eh, qui la coda di paglia c’è eccome, ma sono ben altri a strascicarla per terra. Non capire quando un Wu Ming vi sta coglionando, poi, è proprio da ebeti… Per la grana della voce, prendete il Tantum verde, vedrete che bene vi farà.
I libri dei comici.
Ma il avete già scritti voi! Siete voi i comici! Gli scrittori sono diventati dei comici.
Bravi, continuate così.
Il cabaret vi attende.
O che bello, un po’ di schizzetti di merda, mi mancavano.
Genna che fa comunella con Faletti, Ammaniti con Avoledo… ma sì… io che vado sotto braccio a Wu Ming1 (non ha nessuna importanza se non so neppure che faccia abbia), anzi, io che non sono neppure io (qui, Giordano, sei stato mitico), che mi firmo con lo pseudonimo del mio stesso nome anagrafico.
Bello. Proprio bello. E poi i comici saremmo noi. (ma noi chi, poi?)
Meno male che a dirmelo sono persone serie che si chiamano Spora, Fracchia, Daltonik.
biondillo, smettila di fare la vittima, sei ridicolo.
Vai alla sostanza e non guardare ai nick, solita e vecchia storia.
Non si sparano cazzate, sono cose serie.Ribatti o stai zitto, se reputi nullo il discorso.
Ok, Spora, volevo solo scherzare, lungi da me fare la vittima (di che, poi?).
Trovo nel tuo elenco (Evangelisti, Wu-Ming, Avoledo, Genna, Faletti, Ammaniti) una certa eterogeneità. Per come la vedo io sono scrittori molto differenti, alcuni mi piacciono di più, altri di meno. Ma è l’idea stessa del fare “di tutt’erba un fascio” che mi infastidisce sempre un po’. Tutto qui.
Sulla tua annotazione finale non so che dire. (Schermo? Quale schermo? Giuro, senza malizia, non capisco cosa vuoi dirmi).
Ho pubblicato un libro, il prossimo esce fra 4 giorni. E a detta tua ho già fatto il mio tempo. Ma perché, c’è mai stato “il mio tempo”? E tu, detto in amicizia, sai cosa sto scrivendo ora? Sai se ho nel cassetto un noir, un rosa, un romanzo epistolare, uno esistenzialista, un fantasy, un’autobiografia? O che, in realtà, sono così preso dal mio vero lavoro, o dalla mia famiglia, che di scrivere magari non me ne frega un bel favone?
Ti chiedo: perché la buttiamo sempre a “vende/non vende”? E’ da questo che tu distingui il valore di un libro?
Hai comunque ragione, se uno spara cazzate (non parlo di te) replicargli è inutile. Ogni tanto ci casco, ti chiedo scusa.
A suivre
Tedoldi, al solito, grandissimo. Malgrado, mi dicono, sia alto un cazzo e barattolo.
E malgrado non abbia ancora scritto nulla fuorché un paio di raccontini ini ini.
Tutti i narratori che ho messo insieme, Biondillo, scrivono noiosa paccottiglia ideologizzata. Per me sono un fascio!
Sullo “schermo” ho già detto nei post precedenti, non ho altro da aggiungere.
No, no. Non la butto assolutamente sul “vende/non vende”.
Auspicavo e auspico tagli in direzione degli “appaccottigliati”. Ci sono altre voci, più incisive, meno organiche e più inclini a vedere mondi.
Ribalterei l’ “andante allegro” dei tempi. La gente vuole iniziare a sentire Bach. O forse sono io a volerlo sentire, sono pericoloso??!! :-)))
Quei due raccontini ini come li chiami tu valgono tutti i libroni oni di Tiziano Scarpa e Raul Montanari messi insieme.
Ok, mea culpa, Spiro, avevo perduto il passaggio dove parlavi dello “schermo”. Dove dici che nella scrittura di Wu Ming trovi “troppo “schermo” e poca “datità””.
Poi aggiungi, per spiegarti, che “Evangelisti, Avoledo, lei, Genna restituiscono un mondo “documentato”, senza anima, e di riporto o ritorno. Allo scrittore credo si chieda piuttosto altro: la pagina in presa diretta, la sonda, un dire ultimativo e profetico, la creazione sganciata dai miti fatui”.
Ok, ho capito.
Ora: WM1 ha già dato un’ottima, dal mio punto di vista, risposta. Su di me, dato che ad un certo punto dici “lo “schermo”, caro biondillo, parlo pure con lei,inizia a fare il suo tempo”, posso dirti:
sono figlio di povera gente, terroni semianalfabeti, sono cresciuto a Quarto Oggiaro, ho lavato i cessi per mantenermi gli studi (ma anche venduto audiocassette false, limoni ai mercati, e altro ancora), mi sono laureato in architettura, sono l’unico che si è laureato in tutta la famiglia, sia quella in meridione che quella a Milano, ho lavorato in studi che avevano, e hanno, clienti nell’alta e altissima borghesia milanese, giro tutto il giorno per Milano, sto in mezzo a muratori, elettricisti, idraulici, ma anche tecnici comunali, medici dell’asl, sciure ingioiellate, ho una moglie, due figlie, i miei amici più cari vivono a Quarto Oggiaro, io ora, dopo il matrimonio, ho trovato casa vicino alla Stazione Centrale, sotto casa mia è pieno di indiani, magrebini, senegalesi, il mio parrucchiere è un turco, porto la mia famiglia a mangiare al cinese sotto casa, l’amichetta di giochi di mia figlia è srilankese.
Io parlo ESATTAMENTE di questo nei miei libri. Altro che “schermo”, siamo, per dirla con Tiziano, all’esibizione pura, all’autobiografia. O, per dirla con le tue parole, alla “datità”, alla “presa diretta”, alla “sonda”, etc.
Se poi tu ci vedi “solo” un noir, bene. Spero che ti abbia, almeno, divertito.
in amicizia, G.
Caro Biondillo, a dire il vero, non ero interessato alla tua vita. E comunque sia, tanto di cappello.Rispetto.
Sei entrato di straforo nel discorso, fregato dai campi magnetici degli “appaccottigliati” e dalla tua sempre troppa “amichevolezza”!! :-))
Nel penultimo post parlavo degli auspici, di cose per me importanti, forse tutto lì stava il discorso.
Dunque, per “datità” non mi riferisco alla rappresentazione. Spesso la lingua è uno “schermo”, troppo liscio, ad altissima definizione e risoluzione, restituisce piattezza. Si diceva che la lingua è tutto.Quindi ho detto tutto. Chiuso discorso.
Ancora: grave è quando ci si trova in presenza di “doppi schermi”; in tal caso, non solo lingua sciatta, ma “nocciolo” tenuto in piedi da tiranti esterni, troppo esterni, sovraccarico strutturalmente. E la grande scrittura fa affidamento su se stessa, invece, solo su stessa.
ricambio la tua amicizia,
spiro.
Vorrei tornare sull’epica. A me non pare che Omero o Tolstoj si siano allontanati troppo da una memoria collettiva, tutt’altro. Hanno raccolto un sentimento ben radicato nel popolo, il ricordo di una guerra devastante, penosa, anche eroica, e l’hanno fatto diventare una narrazione epica. D’altronde lo scrittore non può scrivere quello che gli pare e piace. La sua vocazione, come ogni vocazione sincera, è sempre “un filino castrante”. Guai se lo scrittore potesse scegliere tra mille soluzioni diverse. Carmelo Bene diceva, con il suo smagliante gusto del paradosso, che lo scrittore di talento scrive ciò che vuole, il genio ciò che può. Per questo diffido istintivamente di romanzi ambientati in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, e in fondo non mi sono mai piaciuti nemmeno gli spaghetti western. Si parte sempre da una penuria, da una mancanza, da un silenzio, non da una biblioteca infinita da saccheggiare per ricostruire storie più o meno avvincenti.