Duo da camera (3)
di Andrea Inglese
La nostra felicità è letale come muso
di Medusa, non vale assaporare desti
con metro e lenti, ma camminare schivi
sonnambuli, distratti, molto indaffarati.
(Incapace io veglio, storco il collo, sbircio,
memorizzo passi, prendo appunti, ipotizzo,
ogni rictus d’intima beatitudine fisso:
mi scavo, molto maledicendomi, la fossa.)
*
Poni veto, d’un tratto, alla sodomia
e fai voto d’eludere tardiva
questa, che giuri essere una mia mania,
seppur – ben ricordo – ti prestavi
non di rado colma d’allegria quando
annunciavo la lieve diversione.
Ma ripetere non giova a quella stilla
di proibito (primizia di novizi),
attenua l’aroma di peccato, rende
domestico anche il legamento erotico
più eretico e selvatico.
*
Tu trai da me, vòlto in fosco fiato,
nero fumo, latrato, tutto il bene,
il piacere a manciate che poco prima
mi hai dato, il tuo corpo che amo
muto nelle sue diramazioni più miti
e arretrate, il tuo corpo che adoro
origliare, ora ti porge parola
polemica, mani ad arpone, scenata
perché la biancheria non è stata
da me separata dal colore
e per tali colpe nane squassi
la sezione aurea del nostro amore.
*
Anche lo stile è una forma di possesso
ed io – che così poco ti possiedo, perché
passandoti la mano sulla nuca, vuota
mi guardi, ti assenti, sali nel tuo fetale
orgoglio e così foggi il mio odio letale –
ti vorrei dipingere con toni e cadenze
appropriate al prodigio che non sei
(autotormentata e intorno a te tanto
torturante), nella lucentezza del colore
ben temperato ti vorrei cagliare il sangue
(cogliendoti una calma che non hai
mai conoscendo terra, tarata dal vento
che ti batte in testa), sotto lo scalpello
piegarti o scheggiarti, importi a scoppi
di martello tenere posture, inossidabili
imposture del sorriso. E nell’eterno limbo
dell’accordo perfetto lasciarti risuonare
a lungo, come campana a morto.
(immagine di Balthus)
letale come muso di medusa…
interessante questa immagine, trasforma la medusa in un mostro marino.
Lo sguardo è al centro, anche quando è assente o indecifrabile, come lo sguardo di lei.
Lo sguardo serve a trovare una collocazione ai personaggi, a costruirli (dipingerli/scolpirli), a descrivere/seguire la rappresentazione che si svolge nella cella-teatro.
Lo spazio si immagina via via più angusto, impegnato a fare la sua parte nel processo di dissacrazione.
La solidarietà tra compagni di cella si esaurisce, si trasforma, diventa rancore. Il rancore si esprime nei gesti, ma anche nelle parole (la voce in effetti sembra servire solo a questo).
La disperazione comica della domesticità raggiunge il suo apice nei calzini colorati, finiti – al solito, subdolamente – nel mucchio della biancheria incolore.