Storie di classe
di Antonio Sparzani
Quinta non storia.
La quinta storia non c’è, o forse è la storia delle storie e del perché le storie che stanno in questo fiume di storie, dove si nuota sempre più pericolosamente, sono solo quattro. Le storie, che lo si voglia o no, insegnano sempre qualcosa, ad ognuno una cosa, almeno in parte, diversa. L’escalation delle quattro storie potrebbe portare all’inquietante conclusione che Zenone – il protagonista dell’Opera al Nero di Marguerite Yourcenar – articola nel corso delle sue lunghe e lucidamente febbrili riflessioni (“l’atto del pensare l’interessava ora più degli incerti prodotti del pensiero”) durante la sosta a Bruges del suo viaggio verso un destino tragicamente segnato:
“La Terra girava ignara del calendario giuliano o dell’era cristiana, tracciando il suo cerchio senza principio né fine come un anello perfettamente liscio. Zenone si ricordò che presso i Turchi correva l’anno 973 dell’Egira, ma Darazi aveva contato in segreto secondo l’era di Cosroe. Passando dall’anno al giorno, pensò che in quel momento il Sole nasceva sui tetti di Pera. La camera sbandava; le cinghie della branda cigolavano come fossero ormeggi; il letto scivolava da occidente ad oriente, inversamente al moto apparente del cielo. La sicurezza di riposare stabilmente su un angolo del suolo belga era un ultimo errore; il punto dello spazio ove si trovava avrebbe contenuto il mare e le onde appena un’ora dopo, e un po’ più tardi le Americhe e l’Asia. Quelle regioni dove non sarebbe andato si sovrapponevano nell’abisso all’ospizio di San Cosma. E lo stesso Zenone si disperdeva come cenere al vento.” (Feltrinelli 1993, p. 153).
Il capogiro dell’incertezza del contesto è l’abisso della mancanza di un appoggio qualsiasi chiaro e distinto, non solo e non tanto per i sensi del corpo quanto per quelli della mente, che si perde e non galleggia più in alcun luogo. L’opposto di una tale vertigine è il topos del ritorno a casa. Il recupero della casa è il recupero del proprio contesto famigliare (l’ambiguità di questo termine si condensa in una connotazione qui univoca) in cui ogni particolare è noto, ogni gesto ha un effetto prevedibile e previsto, ogni sguardo si posa con tranquilla conoscenza su ciò che da tempo è noto e benefico.
Luogo esemplare di questo topos è la determinazione ferrea e ineludibile della pur disinibita Rossella (Scarlet) O’Hara di Via col Vento a tornare – in mezzo all’innominabile devastazione del territorio causata della sconfitta sudista – alla sua casa di Tara, dove c’è, così ella si fantastica al di là di tanta evidenza, l’unico suo tranquillizzante contesto.
La rincorsa per ritrovare il respiro lungo e benefico di una nuova stabilità è quella che percorre la strada della ricerca di come i contesti si trasformano e di cosa rimane costante in queste trasformazioni. Le tappe di questa rincorsa, su strade diverse, più o meno parallele, hanno tanti nomi, e i nomi specifici delle tappe adombrate nella descrizione del processo di svincolamento dal ‘soggettivo e particulare’ sistema di riferimento di ognuno sono quelli delle tappe della relatività, aristotelica, galileiana (ma si potrebbe anche dire bruniana), einsteiniana, ristretta prima e generale poi. È indubbio che l’ansia che spingeva Einstein sulla strada delle sue ricerche negli anni 1904-1920, era esattamente quella di cogliere l’assoluto dopo l’eliminazione di tutto quanto — nella conoscenza dei fatti di natura – è contingente e dipendente dalle ‘futili’ particolarità del sistema di riferimento. Scrisse egli nel 1917:
“Tanto nella meccanica classica quanto nella relatività ristretta noi facciamo perciò differenza tra sistemi di riferimento K relativamente ai quali sono valide le ‘leggi della natura’, e sistemi di riferimento K’ relativamente ai quali tali leggi non sono valide.
Nessuna persona però, in grado di pensare correttamente, può essere soddisfatta di una simile condizione di cose. Essa chiede:«Come è possibile che certi sistemi di riferimento (o i loro stati di moto) risultino privilegiati rispetto ad altri sistemi di riferimento (o ai loro stati di moto)? Qual è la ragione di tale privilegio?» Per mostrare chiaramente che cosa intendo dire con questa domanda, mi servirò di un paragone.
Mi trovo di fronte a un fornello a gas. Sul fornello stanno l’una accanto all’altra due casseruole talmente simili tra loro che l’una può essere scambiata per l’altra. Entrambe sono piene a metà di acqua. Osservo che del vapore viene emesso in continuazione da una casseruola, ma non dall’altra. Ma se ora osservo un qualcosa di luminoso e di colore bluastro sotto la prima casseruola e non sotto l’altra, cesso di meravigliarmi, anche se non ho mai visto prima una fiammella di gas. Infatti io posso soltanto dire che questo qualcosa di bluastro causerà l’emissione del vapore, o almeno che è possibile che lo faccia.
Se invece non osservo il qualcosa di bluastro sotto nessuna delle due casseruole, e vedo che l’una emette continuamente vapore e l’altra no, rimarrò stupefatto e insoddisfatto fino a quando io scopra qualche circostanza a cui possa far risalire il diverso comportamento delle due casseruole.
Analogamente, io cerco invano un qualcosa di reale nella meccanica classica (o, rispettivamente, nella teoria della relatività ristretta) a cui poter ricondurre il diverso comportamento dei corpi…..” ( Relatività: esposizione divulgativa, Boringhieri, Torino, 1977, pp. 99-100).
Einstein fa dunque emergere da necessità elementari di comprensione dei fatti naturali esigenze connesse con il principio di ragion sufficiente; che è profondamente legato alla relatività: che io guardi un oggetto da qui e non da là non deve essere una ragione sufficiente per vederlo in maniera sostanzialmente diversa. Ma ‘sostanzialmente’ cosa vuol dire ?
Ennò, eh! Non mi puoi lasciare così!