Polar Express, destinazione: l’incubo.
di Evelina Santangelo
Non so quanti hanno visto, o hanno portato i loro figli al cinema a vedere Polar Express. Io l’ho fatto, e, devo dire, all’inizio, con molto entusiasmo.
“Un film sul mondo incantato dell’infanzia che oppone resistenza alla prosaica verità del mondo adulto, incapace di sognare, e ormai persino d’immaginare un mondo diverso, un’umanità diversa”. È stata con questa idea (sbagliata) che mi sono recata al cinema. E forse per questo la delusione è stata più acerba.
Certo doveva mettermi in guardia il fatto che nessuna delle critiche entusiaste, così generose nel decantare la rivoluzionaria tecnica d’animazione, la spettacolarità degli effetti speciali, avesse accennato alla tessitura narrativa del film, alle sue più segrete ragioni, insomma al nucleo di senso che ogni narrazione sottende. Forse per un intimo disagio, mi dico adesso. Perché è proprio disagio (se non sconcerto) quello che questo film suscita in uno spettatore un po’ consapevole.
Ho vissuto due anni negli Stati Uniti, ho ammirato il sistema educativo dell’università americana, il patrimonio d’intelligenza e creatività di cui questo mondo è riuscito a far tesoro con una politica di accoglienza, dell’intelligenza almeno. Dunque, il mio giudizio non è pregiudiziale, è piuttosto frutto di un’amara constatazione, di una riflessione su dove sta andando la nazione più potente del mondo e dove stiamo andando noi, fratelli minori (elfi, direi, alla luce del film) così ammaliati e proni dinanzi a una strategia culturale e politica che persino i più avvertiti americani sentono come terribilmente fuorviante e pericolosa per il destino del mondo e dell’America stessa.
Dunque, Polar Express. La storia di un treno che, sferragliando e affrontando un viaggio periglioso, porta un drappello di bambini verso il Polo Nord, dove abita Babbo Natale.
E com’è presentato questo regno di Santa Claus?
Come una cittadina molto anglosassone, che è un po’ una sorta di caput mundi, dove in un gigantesco regalificio un’umanità di elfi (un’umanità di esseri nani) confeziona i regali per i bambini di tutto il mondo, che poi, in verità, sono essenzialmente i bambini americani.
E come sono, questi bambini americani?
Esponenti della middle class soprattutto, ma anche neri integrati, uniti da un orizzonte di valori fatto di “umiltà” (il bambino saccente deve imparare la lezione dopo il viaggio), ma soprattutto di “fede” e “carità”.
Carità della bambina nera nei confronti del bambino bianco meno fortunato, che viene (e infine ritornerà) dal quartiere “sbagliato” (questa l’infelice traduzione fatta dai doppiatori del film, almeno lo speriamo), il quartiere povero, insomma.
Fede incondizionata richiesta come pegno al bambino che dentro di sé, all’inizio almeno, non crede più a Babbo Natale.
Non c’è alcun riferimento, in questo film, alla libertà dell’immaginazione bambina, al deragliamento dalla cruda verità delle ragioni di fatto, che abbiamo tanto amato in un classico come Peter Pan. Ma solo fede e carità: i fondamenti, verrebbe proprio da dire, del misticismo bushiano, più l’umiltà, ma non nei confronti degli altri, piuttosto nei confronti del divino Babbo Natale e dei suoi segreti piani di divisione della ricchezza: la montagna di regali che innamora gli occhi dei bambini e fa esultare quell’umanità nana, infinitamente inferiore, di elfi laboriosi. Operai impegnati a edificare il sogno dell’opulenza (la slitta con i pacchi regali che svetta verso il cielo) e a celebrare il trionfo, che si rinnova puntuale ogni anno, di quella sorta di Dio onnipotente.
Sì, perché questo Santa Claus, che si erge gigantesco e potente dinanzi a quest’umanità di bambini ed elfi, ha proprio i tratti del Dio onnipotente e distante (per quanto poi pronto a premiare chi ha fede incondizionata in lui) del Vecchio Testamento. Non il Dio che s’incarna nell’uomo e ne condivide la fragilità, ma il Dio delle Tavole della legge, il Dio arroccato nell’alto dei suoi cieli. Insomma, un Dio, signore nel mondo, e che dall’alto della sua divina grandezza, attraverso i suoi emissari (il capotreno Tom Hanks), detta le sue leggi: carità e fede, e dunque umiltà nei suoi confronti.
È onestamente difficile non esser tentati a cogliere un non così dissimulato riferimento alla mistica missione americana, bushiana direi (per onestà e per rispetto dei non pochi americani che manifestano imbarazzo e indignazione). La nobile missione di civilizzare e, cosa ancor più inquietante, umanizzare il mondo sotto il segno della fede nell’opulento e onnipotente sogno americano, e della carità anche, da esercitare nei confronti di chi è così sfortunato da non parteciparvi ancora. Un sogno, dinanzi al quale, tutti si è destinati a essere o bambini suggestionabili o elfi, pieni comunque di fede.
Ora, se la carità, così come è intesa almeno nel film, è il contentino dato ai poveri e ai derelitti (il regalo al bambino dei quartieri “sbagliati”), che poveri e derelitti rimarranno nei secoli dei secoli, la fede è l’autoritaria richiesta di rinuncia allo spirito critico, alla più viva intelligenza e immaginazione che, di solito, è insofferente dinanzi ai sogni confezionati da altri, potenti o meno.
Alla fine del film, insomma, quello che ogni genitore sensato finisce per auspicare per il proprio figlio o figlia è che su quel treno non ci salga mai piuttosto, e che sia capace, questo suo figlio o figlia, di sognare, almeno lui o lei, un proprio Babbo Natale più umano e modesto magari, ma più liberamente immaginato.
L’unica consolazione che rimane allo spettatore incredulo è che quella magnifica, ipertecnologica, rivoluzionaria tecnica d’animazione finisce per evocare un mondo da incubo, che fa paura. Mia figlia ha avuto paura! (irriflesssa magari, ma pur sempre paura). Una lezione per tutti noi, adulti-elfi.