Inanimati
di Giordano Tedoldi
Aveva la mamma con l’Alzheimer, ma viveva egualmente, la chiudeva in camera, lasciava le chiavi dal portiere e via nella notte uscivamo, prima mangiare al ristorante, poi vedere le case più diroccate nella zona del ghetto, entrare nei cortili fatiscenti e ammirare trombe di scale che come budella livide e malaticce si attorcigliavano su fino a una finestra di cielo, poi fuori a cercare a pagamento le donne, ogni tipo di donne non ci fermavamo davanti a nulla, lui aveva avuto esperienze più estreme di me alcune gli avevano pisciato sul petto e era stato con altre due che a via Nazionale lo avevano stretto in un abbraccio mentre lui praticava il cunnilingus. Io con lui mi sentivo bene all’epoca perché non mi ritenevo all’altezza di rapporti normali, di una vita normale, e tentavo di respirare direttamente dalla sua bocca in modo che nessun altro interferisse con la mia salute psichica che era in stato di prolungata convalescenza.
Passeggiando per Roma non era infrequente che vedessi degli spettri, donne con cui avevo avuto brevi relazioni non più lunghe di un anno o un anno e mezzo tutte spezzate e interrotte, un po’ simili ai ruderi, i calcinacci dei palazzi nascosti che io e lui andavamo a osservare, studiare, questi spettri erano quasi tutti invariabilmente senza faccia, ossia la faccia era nascosta dai capelli che scendevano a piombo sul lato del viso che mi trovavo a guardare, ogni volta che li avvistavo cominciavo a tremare, parlavo confusamente e non mi sembrava più di essere capace di respirare. Anche una volta da un transessuale che abitava vicino al mio appartamento da scapolo rimasi senza fiato, perché mi baciò ripetutamente, sono sempre stato un romantico senza speranza e al mio amico raccontai della grande emozione provata. Lui non aveva un’opinione definita a proposito ma sembrava felice che io finalmente fossi di nuovo baciato. Quella sera stetti bene, credo ascoltai musica classica, andai a dormire leggendo Strindberg. Di giorno lavoravo svolgendo un’attività di cui non m’importava niente ma che mi dava sufficienti soldi e ogni tanto scrivevo recensioni di libri e sciocchezze varie per un giornale telematico, intanto ero terrorizzato di uscire per timore di incontrare gli spettri, così quando gli amici chiamavano e proponevano di unirmi a loro in situazioni di grande folla rifiutavo perché dovevo restare solo finché la paura non fosse passata. L’unico di cui non potevo assolutamente avere paura era il mio amico con la madre con l’Alzheimer, e finii per benedire l’Alzheimer, perché consentiva a questo mio amico di essere insolitamente vivace e al tempo stesso non superficiale quando uscivamo, e la superficialità è la mia bestia nera, pretendo si pensi sempre alla morte in mia presenza. Mi piace la morte. Tutte le volte che ho visto la morte ne ho provato una grande attrazione e probabilmente un’eccitazione sessuale, credo di essere necrofilo in una certa misura. Ho voglia di leccare i morti e ho voglia di dormire su di loro passeggiando con la mia mano viva sul loro petto vuoto. Mi piace l’idea di avere la testa vicina alla loro, mi piace l’idea di toccarli e in generale credo non si possa sopportare l’idea della morte senza sapere che, prima o poi, si andrà a morire anche noi. In una delle sere col mio amico andammo a mangiare al ghetto e lui ordinò cervello d’abbacchio fritto e non potei fare a meno, in relazione alla mia ossessione circa la morte, di infilare la forchetta nel suo piatto e mangiarmi parte del suo cervello. Lui comprese perché alla fine lasciò un altro po’ di cervello d’abbacchio e mi pregò di finire, perché non ce la faceva più. Io preso il piatto me lo misi sotto il naso, tirai su con la forchetta una polpettina di cervello, l’annusai con espressione deliziata e la mangiai lasciando squagliare il cervello proprio come un pensiero in bocca. Sono sempre stato brutale e primitivo nel rapporto con le cose concrete. La concretezza è qualcosa che mi è sempre sfuggita nella sua essenza, e perciò la violento, la tratto con un’aggressività esasperante, che mi porta a desiderare infine la morte mia e altrui. Il cimitero universale di cui parla Kant.
A ventinove anni ho cominciato a desiderare fortemente che mia madre morisse. Scrivendo, nei miei racconti o prove di romanzi, c’era sempre mia madre o un personaggio che la evocava e che moriva, o era molto malato. Ma presto trasferii questo impulso dalla letteratura alla realtà, e ad esempio una delle cose che più mi facevano desiderare di uccidere mia madre era quando, per necessità, avendo una sola macchina, mi accompagnava. Era come avere il cordone ombelicale ancora stretto attorno al collo, e se l’ammazzavo la presa si sarebbe allentata. Quando lei commetteva, alla guida, un’irreparabile cazzata, allora davo un pugno isterico al tetto della macchina, avrei voluto che si sfondasse ma non avevo la forza. Mia madre restava algida e impassibile, proseguiva a guidare come se quel pugno non l’avessi mai dato, a me cominciava a dolere la mano e questo mi calmava. Ma bastava un nuovo errore alla guida, un clacson di qualcuno dietro di noi, perché io volessi di nuovo strangolarla.
Stupido dire che ovviamente mia madre l’ho anche amata disperatamente. Una notte, stremato per una storia d’amore andata male, sono andato a casa da lei e dopo averla accusata di questo mondo e quell’altro ho afferrato a casaccio una bottiglia di cherry, sono entrato nella mia angusta ex camera da letto, che nel frattempo mamma aveva trasformato in una sorta di magazzino per gli abiti che lei stessa disegna, ho spostato le tirelle con gli abiti appesi e mi sono buttato a terra bevendo più possibile. Prima mamma non ha fatto nulla, e mi domando cosa avrebbe dovuto fare con un figlio così, poi è entrata e ha tentato di avere un dialogo, ma io stavo bevendo lo cherry che è disgustosamente dolce e più lo bevi più si fa colloso, insopportabile al palato, perciò se vuoi stare male ti dà un brivido in più e si lascia ingoiare continuamente, miravo a scoppiare come una bolla infetta, ero discretamente ubriaco, e proseguii a accusarla di tutto. Non volevo farle male, solo demoralizzarla, ma nella stanza accovacciata accanto a me, proprio vicino a un mio ginocchio c’era lo spettro della donna in questione, i capelli dal lato mio scendevano a piombo a coprire il profilo così vedevo soltanto la punta del naso, e mentre insultavo mamma e cercavo di respingerla in qualche modo lo spettro si avvicinava sempre più, impalpabile e presente, intollerabilmente nostalgico, sentivo perfino il suo profumo.
A un certo punto, dico qualcosa che fa ridere tutti, me, mamma, lo spettro, per qualcosa che avevo detto abbiamo cominciato a ridere. Mi stavo lamentando che non avrei mai trovato una donna decente ma solo e soltanto un mostro che con me avrebbe messo al mondo figli mostri e improvvisamente, contemporaneamente, abbiamo cominciato a ridere, ho sentito la gioia di essere ubriaco e ho proseguito a bere lo cherry che a questo punto si appiccicava alla mia lingua come una sanguisuga zuccherata. Mutismo, la sordità, il buio, pensavo alla morte.
Il mio amico con la madre con l’Alzheimer, che in passato ha pagato delle donne per farsi pisciare sul petto, che tra l’altro ha anche discretamente peloso, ho riso anche di questo perché è comico, è stato comico anche come me l’ha detto, quasi confessando l’eccitazione più proibita della sua vita. Lo frequento perché parla continuamente di cose proibite, e ha un viso impresentabile, da volontario per farmaci sperimentali contro virus incurabili. In quella condizione di ubriachezza ho blaterato contro tutti. Violentemente contro di me e dolorosamente contro mia madre. Mamma s’è alzata, lei piccola con la canottiera rosa in quella piccola stanza, ha detto ora basta e se n’è andata finalmente in camera sua a dormire, lo spettro era svanito, forse s’era trasferito direttamente nei miei sogni; nei sogni potevo sopportarlo, non nella realtà. Il mio amico che chiude a chiave la madre in casa poi lascia la chiave dal portiere, informandolo che se qualcuno cerca sua madre, deve accompagnarlo su, e non lasciare mai la madre sola con questo tizio. Non so commuovermi per la storia del mio amico, cui tra l’altro è già morto il padre di cancro, e quand’era già molto malato ebbe un incidente di macchina procurandosi una frattura al polso, ma io e lui finché non crolliamo di stanchezza giriamo di notte al ghetto o a trastevere o a campo de’ fiori a vedere palazzi fatiscenti, cortiletti in restauro e trombe di scale livide. E non c’è proprio niente da vedere, ve l’assicuro.
Mi sveglio nel letto del mio monolocale ai parioli e sono così depresso che per mezz’ora buona non posso mettere un piede giù. Ricordo quando quella notte, dopo aver bevuto quasi tutta la bottiglia di cherry, aver litigato con mia madre, mi sono svegliato nel letto della mia ex camera da letto, tra le tirelle con i vestiti per la stagione estiva, camiciole scollate di colori come arancione, viola e verde, pantaloni trasparenti e larghi sopra le caviglie, e sparpagliati in giro sandali, alcuni che avrei messo volentieri anch’io, pur essendo esplicitamente da donna, e mi sentivo niente male, solo una blanda nausea, il disgusto per lo cherry colloso e dolce, ma né depresso né con sensi di colpa. Mi sentivo rigenerato, e la filippina mi porta il caffè nel vassoio con tovaglietta verdolina ricamata e il latte a parte e lo zucchero, le salviette, l’uovo alla coque…
Ricordo la lampada di legno dipinto colore dell’oro e il modo in cui la accarezzavo, molti anni dopo la lampada morì e venne ritinta di bianco, e ancora la accarezzavo, aveva una forma curiosa, arcuata con anelli e restringimenti, aveva qualcosa di barocco che mi sarebbe piaciuto, se fossi stato un collezionista e non un ragazzino.
Questa lampada fu la protagonista di una festa di compleanno che feci a casa di mia madre, quando ancora abitavo con lei, il fatto è che quella sera d’estate verso le dieci e venti trasmettevano su qualche canale Gilda con Rita Hayworth, e non mi capacito ancora ma c’erano molti invitati che piuttosto che sedersi attorno al tavolo e conversare oppure mangiare in silenzio preferirono sedersi sul divano a guardare e a commentare tutte le scene più trite e famose del film, io persi la pazienza proprio quando Gilda sta cantando la sua canzone e finisce per sfilarsi il guanto e cominciai a urlacchiare che Rita Hayworth era non-più, era morta, ma le ragazze risposero che era terribilmente affascinante e ancora un modello femminile valido per loro, senza scollare gli occhi dal video, e io a ribadire che era morta, s’era putrefatta e non restava che cenere, allora intervenne un mio vago conoscente, che in effetti non so come fosse finito a casa mia, un omosessuale che vive nel mondo dei sogni, e pure lui a inneggiare alla bellezza statica, puramente nostalgica ormai di Rita Hayworth in Gilda, è come un’opera d’arte, sostenne, immortale nel tempo, e all’inizio mi sforzai e ebbi l’educazione di discutere ragionevolmente con lui ma poi mi chiesi perché mai dovevo abbassarmi a tal punto, afferrai la lampada sul piano della libreria e gliela spaccai in testa. Purtroppo la sua testa non si spaccò, avrei voluto vedere cosa c’era dentro, forse fotografie di panorami, a giudicare da come parlava sempre e comunque di stronzate.
Verso una certa ora, col suo solito abbondantissimo ritardo, dovuto ai problemi con la madre con l’Alzheimer ma anche alla sua innata incapacità d’essere maturo, responsabile, dunque puntuale, arrivò anche il mio amico, quasi non ci speravo più, sorrise col suo apparecchio fisso tra i denti, fu tra i pochi a presentarmi un regalo decente e cioè un CD con Petrouchka di Stravinskij, e quasi lo mettevo su un piedistallo. Gli spiegammo con calma e voglia di riconciliazione generale dell’incidente di Gilda e lui, senza un cenno d’imbarazzo, mentre io mi scusavo ancora una volta con l’omosessuale per avergli rotto la lampada in testa, disse che era assolutamente dalla mia parte, che lui avrebbe fatto lo stesso. Nessuno replicò perché capirono che quello che diceva era come qualcosa che veniva dal deserto, da un uomo isolato da tutti.
Il mio amico comincia a sedici anni a andare dallo psicanalista. Prima da un freudiano argentino di fama, che lo fa distendere su un lettino e ancora ancora qualche parola la dice, e lui si trova bene, anzi adesso ritiene che quello era il terapeuta più utile per lui. Fu un’esperienza dolorosa e presto il mio amico crede di non averne più bisogno, in realtà, probabilmente, spaventato e sofferente per tutto quello che viene fuori, l’Edipo non superato, il bisogno di punirsi per mostrarsi inoffensivo e essere accettato dagli altri, le verità scomode su suo padre che non ha mai speso una parola d’incoraggiamento o d’affetto per lui, ma ecco che abbandona lo psicanalista argentino per andare, un anno dopo, da uno psicologo comportamentale, socio al circolo degli scacchi e sempre vestito come un dandy, con un calice di tè freddo nella destra e un avana nella sinistra, e il papillon anche se più che anarchico crede in un socialismo illuminato, nel primato della cultura, detesta la Chiesa e l’esercito, ritiene la famiglia d’origine un orrore da cui liberarsi al più presto, e, accordandosi col padre, manda il mio amico a sverginarsi da una professionista.
Il mio amico ci mette un sacco di tempo a venire, ma rimane soddisfatto. Su sollecitazione dello psicologo comportamentale, ci torna varie volte. La prima volta lo accompagna il padre, che gli ingiunge di comprare una scatola di cioccolatini. E gli spiega dove lasciare i soldi. Il ridicolo di questa storia è stato quasi intollerabile quando me l’ha raccontata.
Ridevo come un matto e al tempo stesso dovevo vomitare.
Ma a un certo punto lo psicologo comportamentale dice al padre del mio amico che, finché lui resterà in casa, non crescerà mai, e il padre a questo punto pur non dandolo a vedere impazzisce di rabbia, il mio amico smette di andare dallo psicologo comportamentale ancora una volta con l’alibi che tanto non ne ha più bisogno.
La depressione, il desiderio di morte, si ripresentano un anno dopo o poco più, e stavolta il mio amico va da uno psicanalista freudiano molto freddo e distante, che abbandonatolo sul divanetto si rifiuta di dire una sola parola, tanto che il mio amico delle volte nel mezzo delle associazioni si mette a fargli domande, e quello risponde senza rispondere, il mio amico è molto irritato e trova questo dottore estremamente antipatico. Finché, dopo essere venuti alla luce fatti importanti e penosi come che tutte le paure del mio amico dipendono dal fatto che lui non è mai stato obbligato a volere le cose di cui ha paura, perché ha sempre vissuto dispensato dalle necessità, con un padre che lo tiene al riparo da ogni responsabilità, da ogni rischio, in una bolla d’aria troppo pura, accade che il mio amico non so bene in che circostanza fa una domanda allo psicanalista, quello risponde senza rispondere, allora il mio amico gli si avvicina a fa il gesto di dargli un pugno in faccia, tanto che il dottore istintivamente si protegge con le braccia incrociate. Il mio amico si rende subito conto della gravità dell’episodio, il dottore gli dice: no basta, così non si può più andare avanti e lo accompagna alla porta. La settimana seguente il mio amico torna, si scusa, paga le ultime sedute e non torna mai più.
Attualmente è da poco finita l’estate, che è stata durissima per me e per lui, e il mio amico vuole andare in terapia junghiana.
Io ci ho pensato, ma tanto, sono convinto di non averne bisogno.
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Pubblicato su Maltese Narrazioni “Fantasmi“.
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A rischio di esser banale devo dire che questo racconto del Tedoldi mi è molto piaciuto. Molto. Ci sono dei passaggi incredibili,”…tentavo di respirare direttamente dalla sua bocca in modo che nessun altro interferisse con la mia salute psichica…”, e poi la cena con il cervello d’abbacchio sul piatto; una lunga vomitata sul disagio, nel disagio, in compagnia del disagio… great!
Giordano è molto bravo, secondo me:
l’avevo letto e resto un suo ammiratore sviscerato.
Provo a rileggerlo.
Sembra una Polaroid rimasta sul calorifero per qualche ora.
Mi piace!
Ah, volevo chiedervi… Ho cercato qui >>
http://www.bookcafe.net/maltesenarrazioni/racconti.htm
però non si leggono tutti i racconti. Perché?
Bello. Mi viene in mente “cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”:)
Yawn. Noiosetto. Non reggerei duecento pagine di patè di burgiuà condito di farsi pisciare sul petto, palpeggiare i morti, imprigionare la madre e via dicendo, per dare l’impressione di saper frugare con occhio algido tra le pieghe di bla bla bla.
Bellissimo racconto, dall’inizio alla fine.
Lucio, forse il suo “bello” (il suo bello-nel-brutto?) è proprio la brevità…
Ehm… mina,
sono contento che il mio sintetico giudizio l’abbia lapidata, ehm… scusi, che il mio lapidario giudizio l’abbia sintetizzata… che dico? che abbia trovato il mio bello delapidato nel brutto. Sono contento, altresì, di apprendere che ha voglia di salpare, pur non sapendo bene dove andare (a parare?), incerta financo dell’esistenza dello stesso mare. Un abbraccio.
Non mi son messo d’accordo con Franz o la Gabriella e guarda lì che sono stupito che ci piaccia a tutti e tre; anzi,sai che ti dico, ne sono fin contento, anche per il Tedoldi.
In effetti Mario, è stata una piacevole sorpresa trovarci d’accordo… il Tedoldi è veramente bravo, e dato che non sono mai d’accordo coi suoi commenti, anzi ci siamo pure beccati in alcune occasioni, non è certo un parere di parte il mio!