Trilogia delle consapevolezze e dei sorrisi #2
di Giorgio Vasta
Tre fotografie di consapevolezze (ultra-)calcistiche
Vorrei procedere provando a scattare tre diverse fotografie di consapevolezze direttamente legate al calcio. Sia chiaro che non è solo di una consapevolezza fisica, atletico-agonistica, che voglio parlare, ma anche, e forse soprattutto, di una consapevolezza mentale, strategica. Utilizzo il calcio perché coinvolgendo in modo evidente il corpo, dilata lo spazio e il tempo permettendo il generarsi e il sedimentare di immagini chiare e, appunto, esemplari.
Seguono quindi tre diversi esempi di modi di percepire profondamente condizioni e risorse del gioco (e, per traslato, di un testo), in un determinato impercettibile momento.
La consapevolezza strategica di Maradona (o della consapevolezza di chi porta palla, la consapevolezza di quando, nel testo, giochiamo da playmaker, la consapevolezza come esitazione)
Nel 1986 Diego Armando Maradona realizza quello che molti considerano il goal più bello della storia del calcio. O per lo meno della storia dei campionati del mondo. La partita è Argentina-Inghilterra e il contesto è appunto il campionato mondiale del 1986. Campionato che di lì a qualche giorno l’Argentina avrebbe conquistato. Si consideri che quell’incontro era anche il primo tra le due nazionali dopo la vicenda delle Falklands/Malvinas, vicenda che aveva contrapposto politicamente e militarmente Argentina e Inghilterra, un’occasione che quindi si caricava di valori che trascendevano il mero fatto sportivo divenendo ragione di vendetta e rivalsa.
Nel corso del primo tempo Maradona si era già reso discutibilmente indimenticabile realizzando un goal di mano senza che l’arbitro, nonostante le proteste degli inglesi, se ne accorgesse. Nelle interviste successive Maradona avrebbe ironicamente sostenuto che in quel goal si era manifestata “la mano di dio”.
L’Argentina era quindi già in vantaggio quando, dopo neppure dieci minuti dall’inizio del secondo tempo, Maradona raccoglie un pallone nella sua metà campo e comincia a superare un avversario dopo l’altro, sembra che se li vada a cercare, che li sfidi uno per uno (una cosa del genere l’avevo vista soltanto in un film, da ragazzino, esattamente in Fuga per la vittoria di John Huston, quando il personaggio interpretato da Pelè, utilizzando una lavagna e un gessetto, spiega ai propri compagni di squadra la sua tattica di gioco, che consiste nel ricevere palla nella sua area, dribblare tutti gli avversari – e qui il gesso disegna una sinusoide morbida ed elegante che aggira i calciatori dell’altra squadra come se fossero birilli immobili – e andare fin dentro la porta avversaria, facendo goal con il pallone e con il corpo: qualcosa che apparteneva alla fiction, insomma, a un eccesso di immaginazione agonistica, che nella realtà vischiosa non sarebbe mai potuta accadere – e invece…). Le maglie bianche degli inglesi restano indietro, Maradona raggiunge l’area avversaria, sembra che stia per tirare, invece con un’altra torsione supera anche Shilton (che mentre prova ad allungarsi a vuoto appare ancora più grasso e pesante) e fa goal a porta vuota. Dieci secondi in tutto tra inizio e fine dell’azione.
Questi i fatti, quello che gli spettatori allo stadio e a casa hanno potuto vedere.
In un articolo apparso lo scorso anno sulla rivista Limes e, in estratto, sul Venerdì di Repubblica, Jorge Valdano, oggi general manager del Real Madrid e nel 1986 compagno di squadra di Maradona, racconta una specie di piccolo retroscena relativo a quanto accadde a fine partita negli spogliatoi. Scrive Valdano che sotto la doccia, in un momento nel quale nessuno della squadra aveva ancora avuto modo di rivedere le immagini dell’incontro, Maradona voltandosi verso di lui gli aveva detto: “Volevo passarti la palla, ma non ho trovato lo spazio”. “Perché, hai visto anche me?”, fu la risposta incredula di Valdano. “Sì, mi accompagnavi, all’altezza del secondo palo, ma non ho potuto dartela”.
Lo sbalordimento di Valdano è più che comprensibile. Riguardando le immagini noi vediamo Maradona attraversare il campo da gioco attento a superare gli avversari e apparentemente ignaro, del tutto ignaro, della presenza, anzi, addirittura dell’esistenza di qualcun altro intorno a lui. Ci sembra di assistere a un episodio di possessione nel quale il posseduto è completamente separato da qualunque coscienza di ciò che gli accade intorno (e pensiamo, tra parentesi, a come alcune volte la nostra scrittura sia capace di allunghi potenti e perentori, a come sappia inoltrarsi compatta e penetrante nello spazio della pagina, perfettamente ignara di tutto quello che in quel momento le esiste intorno). Maradona, dicevamo, non solleva lo sguardo, che resta sempre sul pallone e al massimo si sposta a perlustrare rapidissimo i metri immediatamente successivi, in una progressiva e delirante accelerazione di problem-solving tecnico-calcistici. Non guarda eppure sa dove si trova Valdano, prende in considerazione l’ipotesi di passargli il pallone ma la scarta perché non c’è sufficiente spazio. Si tratta di percepire lo stato del gioco e le possibilità che quello stato può generare, si tratta di guardare (e sentire, e sapere tutto in un istante, nonostante la precisione di questo sguardo abbia in sé qualcosa della contemplazione lenta piuttosto che dell’occhiata fugace), di guardare e scegliere e obiettare a questa prima scelta e ancora prendere una seconda decisione e muoversi di conseguenza. È un momento nel quale la consapevolezza viene a coincidere con l’istinto.
Ma non è finita qui. La cronaca di Valdano, dopo aver esplorato il paradosso dello spazio, passa a descrivere un paradosso altrettanto sconcertante: quello del tempo. Sempre sotto la doccia, Maradona: “Quando mi sono ritrovato davanti al portiere ho pensato di tirare sul secondo palo, ma mi sono ricordato della partita di Wembley…”. Il riferimento è a un’amichevole che l’Argentina aveva disputato sette anni prima sempre contro l’Inghilterra. Sette anni prima. Anche in quell’occasione Maradona aveva scartato una serie di avversari e arrivato davanti al portiere aveva provato a piazzare il pallone sul palo più lontano, ma il pallone era uscito di pochi millimetri.
Pochi millimetri, sette anni prima. La storia di un errore di pochi millimetri, una storia di sette anni prima, che a Maradona torna in mente nell’istante in cui, sette anni dopo, giocando ancora una volta contro quella stessa squadra, davanti al portiere in uscita, sta per prendere la stessa decisione, esita, valuta, ci ripensa, dribbla il portiere e questa volta insacca.
Ad affascinarmi nella storia di questo goal è il fatto che la consapevolezza di Maradona coincide con un’esitazione. Un’esitazione impercettibile, o, più esattamente, una serie di esitazioni impercettibili, che si ripresentano lungo l’intera traiettoria dell’azione (a proposito di traiettorie ed esitazioni, sempre Franz Kafka scriveva: “Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione”, Quaderni in ottavo, Oscar Mondadori, p. 159).
Maradona esita quando vorrebbe passare il pallone a Valdano, esita quando arriva davanti a Shilton e si ricorda del tiro sbagliato di sette anni prima. Esitando crea spazio alla consapevolezza, le costruisce un alveo naturale nella quale la consapevolezza può venire a installarsi. Sembra incredibile ma quei dieci secondi sono disseminati di pause infinitesimali nelle quali la consapevolezza è accaduta come un’epifania, come un lampo silenzioso ed efficace, che compare per un istante e poi dilegua producendo però un effetto concreto, una conseguenza verificabile.
Cambiamo completamente prospettiva.
Tra omero e pollice ci sono ventinove ossa. Per scrivere utilizzando una penna occorre coordinarle tutte. Mentre scriviamo siamo inconsapevoli del modo in cui per comporre questa lettera “elle” le nostre ventinove ossa stanno interagendo tra di loro. Vediamo comparire la “elle” sulla pagina, “l”, questa microscopica asola, e ignoriamo la breve catastrofe che intanto ha luogo nel nostro braccio, la connessione silenziosa di perni e alvi, la trasmissione delicata dell’impulso da un segmento all’altro, la combustione istantanea dell’azione-miccia che si propaga, il comunicarsi preciso del movimento nel groviglio geometrico dell’articolazione motoria. Un evento minimo e fragoroso, una rivoluzione invisibile che si ripete ininterrottamente per tutta la durata della nostra scrittura.
In sostanza, scrivendo si verifica una gran quantità di fenomeni (meccanici e non) che restano al di sotto della nostra soglia di consapevolezza. Quelli relativi all’articolazione del braccio e della mano che scrive sono una piccolissima parte. Piccolissima parte che diventa impercettibile quando entrano in gioco tutti quei fenomeni immateriali (ricordi, oblii, immaginazioni, congetture, lapsus…) indispensabili alla scrittura.
La consapevolezza è forse, analogamente, un fascio di rivoluzioni, un grappolo di scoppi ravvicinati che ci mette nelle condizioni di comprendere sentendo.
Nell’epigrafe al suo pezzo su questo goal di Maradona, Valdano riporta un brano di Vinicius de Moraes che si riferisce a Garrincha. “Ha un presentimento”, è l’incipit di questa citazione. Avere un presentimento. Ci sono consapevolezze che non si fondano su una conoscenza certa ed empiricamente verificabile bensì su un azzardo, su un’impressione, su una percezione tanto arbitraria quanto indiscutibilmente legittima dell’immediato futuro. Dell’immediato futuro del gioco – di quello che succederà al pallone calciando in quel determinato momento e in quel determinato modo – e dell’immediato futuro del testo – di quel che succederà alla frase spostandosi in una direzione invece che in un’altra.
Ovvero, c’è una consapevolezza, anche nella scrittura, che è pensiero istantaneo organizzato.
La consapevolezza ironica di Platini (nel momento in cui viene superato dal pallone, nel momento in cui decifriamo improvvisamente quello che sta accadendo sulla pagina)
Il contesto è nettamente un altro rispetto al precedente. È il 1983 o il 1984 – non mi ricordo bene, ho in mente soltanto un’immagine, il contesto generale è pressoché del tutto sfumato – si disputa il ritorno di un trentaduesimo, o forse addirittura di un sessantaquattresimo di finale. La Juventus di Rossi, Boniek e Platini affronta la squadra finlandese dell’Haka Valkeakoski. All’andata l’incontro è terminato sette a zero per la Juventus (ma forse il sette a zero era stato contro il Lechia Danzica, non ricordo ma non è questo). In casi simili si dice che il ritorno è irrilevante (e in effetti credo che il ritorno si concluse con un quattro a uno per la Juventus, ma continua a non essere questo quello che conta).
C’è un momento specifico della partita che mi importa ricordare. Quello in cui un calciatore finlandese, un centrocampista credo, si inoltra coraggioso a centrocampo palla al piede. Piuttosto grossolano nell’andatura, caracollante, bisontesco, si trova davanti Platini (e possiamo immaginare che già questo momento costituisca l’acme della sua carriera agonistica), lo affronta, finta, Platini si sbilancia, scosta le gambe e il finlandese, pieno di grazia, lo “passa” facendogli un tunnel. In un millesimo di secondo il francese, sempre facendo perno sulle gambe, compie una torsione del busto all’indietro, dà una pacca sul sedere del finlandese lanciato verso non si sa bene cosa e gli grida dietro “Bravo” (che immaginiamo pronunciato alla francese, Bravò).
Ecco come questo episodio è stato raccontato da Dario Voltolini nelle ultime righe di un suo pezzo, il titolo era semplicemente “Bravo”, inserito in 10:
Ma soprattutto rivedo Platini verso il centro del campo – coppa, quale coppa non ricordo – durante una partita di ritorno ai limiti della formalità burocratica (squadra avversaria dell’estremo NordEuropa, dilettanti, schiantati all’andata con un passivo irrimediabile) e lui che si muove divertito da come il gioco delle parti costringa a fare cose senza senso, ma divertito davvero, senza superbia, ed ecco uno degli avversari andargli incontro palla al piede, quasi caricando come un torello e dimenandosi nel proprio correre, e poi caparbiamente affrontarlo e fargli questo: un tunnel. Un tunnel a Platini. Ed ecco che l’uomo della prodezza recupera il pallone alle spalle dell’immenso francese con accresciuto orgasmo. Ed ecco il gesto di Platini, che piroetta aggraziato e sorridente, si china un poco in avanti e, mentre l’altro corre come un pazzo, con la mano gli dà una pacca sul culo.
Bravo, gli dice con quel gesto in cui ci sono almeno altri venti, trenta significati.
In questo caso, i dieci secondi dell’impresa di Maradona appaiono come ere geologiche, un tempo sterminato davanti a un gesto che durerà sì e no un secondo e mezzo. In un secondo e mezzo Platini viene superato dal finlandese, si gira, gli dà la pacca e lo “lancia” verso la porta con il suo Bravò (nel quale, sia chiaro, non c’è disprezzo o irrisione, ma neppure ammirazione: c’è semplicemente una comprensione divertita del modo in cui possono andare le cose al mondo).
Il grado di consapevolezza espresso dal francese in quel momento, la sua qualità ironica, la sua comprensione profonda, storiografica mi verrebbe da dire, della paradossale comicità di quanto appena accaduto, tutto ciò ha per me un valore enorme. Perché riuscire in un attimo a unire i puntini e a decifrare la forma ultracalcistica di quella infilata di movimenti sul campo da gioco, e, fatto questo, reagire sorridendo e scherzando, da istrione, allestendo in un lampo un frammento di fiction, è qualcosa che ha a che fare con una visione “di gioco” che non può che trascendere lo specifico agonistico allontanandosi verso regioni d’ordine filosofico, nelle quali si riflette sulla pochezza delle nostre conquiste (sempre e solo apparenti) e della nostra gloria terrestre (illusoria, deperibile) dinnanzi all’incombere eterno di un caso irrispettoso.
Consapevolezza analoga nella scrittura. Di quando in un istante percepiamo il nesso tra la scelta di una parola e le sue conseguenze sull’economia complessiva della pagina, di come l’utilizzo di quello specifico vocabolo o di quel giro di frase o di quell’immagine o di quell’improvviso sviluppo della trama avrà una ricaduta sarcastica o melodrammatica sul tono generale. La consapevolezza, cioè, del rapporto tra le parti e il tutto (del resto la grandezza di Platini consiste nel sapere collocare immediatamente il microfatto accaduto in campo nel contesto più generale della partita e dei valori, sentendo la comica bellezza della sproporzione, l’energia umana della beffa subita; la consapevolezza ironica è infatti consapevolezza demistificatrice, in grado di smascherare la simulazione del reale, di denudare e svergognare l’assurdo normale delle cose).
E tutto questo si porta dietro un’altra considerazione fin qui implicita e vagamente affiorante, sempre relativa alla natura della consapevolezza come intuizione improvvisa, come misura discontinua, lampeggiante (la dialettica blindness-insight di Paul De Man), come comprensione del testo che esiste sempre a un millimetro dalla sua totale ignoranza: la consapevolezza a volte arriva come un’eccitazione, un’eccitazione che si dispiega febbrile, fibrillante all’intuizione di un nesso, di una svolta.
La consapevolezza “olimpica” di Zidane (la consapevolezza senza palla, senza gioco, la consapevolezza di quando ci congediamo dal testo)
La semifinale di ritorno della Champions League di un paio di anni fa, quella tra Juventus e Real Madrid (risultato finale di tre a uno per la Juventus e qualificazione alla finale perduta poi ai rigori contro il Milan), ha il suo cardine e la sua conclusione, il suo silenzioso baricentro, in un sorriso di Zidane che durante i minuti di recupero va a riprendere il pallone per una rimessa laterale. In teoria il francese dovrebbe accelerare, provare a rilanciare ancora un’azione d’attacco (ricordiamo che proprio Zidane neppure un minuto prima ha sbagliato un goal che sembrava già fatto) e realizzare quel punto che permetterebbe al Real di superare il turno. Invece Zidane, che a volte rivela una comprensione quasi sovraumana e ultracalcistica di quello che accade (ed è una comprensione non successiva ma contemporanea a quel che accade stesso, una simultaneità tra evento e sua decifrazione profonda che è dote rarissima), Zidane fa con calma, aspetta che il pallone gli venga restituito da un raccattapalle, non forza, non si innervosisce, continua a sorridere, ha capito che va bene così, che è giusto così, che ancora per una sessantina di secondi si dovrà tutti insieme tirare avanti con il giochetto dei ruoli, “noi attacchiamo disperatamente, voi vi difendete strenuamente”, ma quelli appunto sono solo ruoli, il senso è un’altra cosa, e Zidane sa che le cose devono andare così, che la partita deve concludersi sul tre a uno per la Juventus, che questo stato di cose, per quanto spiacevole per il Real, è però come un noumeno, è come se giocare la partita fosse equivalso a scavare, a disseppellire una forma, un risultato, qualcosa che era già, e nel momento in cui va a recuperare quel pallone per eseguire la rimessa laterale Zidane ha già visto quella forma, l’ha compresa, l’ha accolta, l’ha accettata. Non può che rimettere il pallone in gioco e sorridere, autoironico, del tutto consapevole (a proposito di questo sorriso, ancora: mentre Zidane sorrideva inquadrato dalle telecamere a bordo campo mi sono reso conto che era quello il sorriso che avevo immaginato ascoltando Il pescatore di Fabrizio De Andrè – “e aveva un solco lungo il viso/ come una specie di sorriso” – un qualcosa che viene fuori e si manifesta all’esterno ma è in primo luogo constatazione interna, essenziale).
Questa consapevolezza di Zidane – così lenta, immersa, così assolutamente olimpica – accade mentre il calciatore è senza palla. Sta lì, aspetta che un raccattapalle gli lanci il pallone, avvicina i piedi alla linea bianca preparandosi per la rimessa, riceve il pallone, allinea meglio le punte e i talloni, a quel punto sta per battere la rimessa laterale ma si ferma, il pallone che aveva sollevato in alto fino a portarlo oltre la nuca torna indietro, adesso Zidane lo regge all’altezza del petto ed è come se si fosse scostato un binocolo dagli occhi per vedere meglio che cosa sta succedendo. Quello che vede, senza il binocolo del pallone, è che va bene così, che la “forma” della partita che gli sta davanti è quella giusta, che non ha senso forzare oltre perché ogni ulteriore sforzo significherebbe deformare. E a Zidane, più della sconfitta interessa non deformare il gioco. Per questa ragione “si dimette” dalla responsabilità (e dall’obbligo) di guardare. Sorride una specie di sorriso, una cosa di millesimi di secondi (e adesso ad apparire interminabile è la piroetta ironica di Platini che sculaccia il calciatore finlandese).
“Abbassare” il testo come si abbassa il binocolo per guardare a occhio nudo, come Zidane abbassa il pallone invece di rimetterlo in gioco, scoprendo che l’unico senso è sorridere del gioco, del binocolo, del testo. Perché c’è un testo del quale abbiamo consapevolezza distogliendo lo sguardo, smettendo di fissarlo, ovvero per sottrazione, rinunciando alla prospettiva “agonistica”. Una consapevolezza come rinuncia, dunque, come rassegnazione serena agli eventi. Il momento nel quale comprendiamo che la nostra pagina è così, che è terminata, che non ha senso continuare a scavare perché abbiamo disseppellito la forma perfetta.
(continua)