Il testamento estorto
di Sergio Garufi
Andiamo per ordine: la copertina è molto bella. C’è una foto in bianco e nero, di Carlos Goldin, che ritrae il dettaglio di una mano anziana, di quelle che la pelle sembra carta velina tanto è sottile e impalpabile. E’ una mano che stringe il manico di un bastone di legno nodoso e irregolare; lo stesso che accompagnava il grande poeta cieco nei suoi viaggi per il mondo, che saggiava il terreno e lo avvertiva dei pericoli, gli faceva scansare gli ostacoli e gli inciampi della vita. Poi c’è il titolo, che promette grandi cose.
Testamento poetico letterario.
E l’autore, naturalmente: il mitico Jorge Luis Borges.
Insomma, un po’ ti commuovi. E’ uscito un suo nuovo libro, hanno rovistato nei cassetti e hanno trovato ‘sta chicca postuma, la sua opera definitiva.
Nella 2a di copertina si avverte che il testo raccoglie la trascrizione delle sue ultime conferenze prima di morire a Ginevra nel giugno 1986. Quattro, per la precisione.
La prima tenuta a Tokyo, nell’aprile del 1984, e le altre tre a Milano (novembre 1984, 30 novembre e 1 dicembre 1985).
Alle ultime tre ero presente.
La meno recente si svolse nell’aula magna della Statale.
Fu indetta dalla Aging Foundation, un’associazione che si occupa dei problemi della terza età, e per ascoltare pochi minuti di Borges dovemmo sorbirci due ore di illustri gerontologi che disquisivano di incontinenza, disturbi alla prostata e case di riposo. Ricordo che ci fu una mezza sollevazione degli ispanisti presenti, relegati fra gli studenti in platea e a cui non fu concesso di profferir verbo.
Borges era così, negli ultimi anni della sua vita. Andava da chiunque lo invitasse. E’ che gli piaceva viaggiare e parlare ai giovani, e ogni occasione era buona. Le altre due conferenze si tennero alla Fondazione Verdiglione di Senago, una villa antica immersa nel verde brumoso di quell’autunno, con le Quattro stagioni di Vivaldi diffuse all’interno e all’esterno. Rammento il mefistofelico cerimoniere – tutto fiero di esibire il grande ospite che lo legittimava –, che continuava a parlare di cifra, la infilava in ogni frase procurandogli una voluttà fastidiosa, come un bambino che avesse scoperto una parolaccia nuova. E c’era pure Nekrassov, Mathieu e qualche altro; però questi avevano gli occhi aperti, non erano ciechi come Borges.
In tutte queste conferenze i discorsi di Borges furono brevi e poco interessanti; e lo dico da suo fanatico estimatore. Niente che non avesse già detto, con parole più ricercate e in modo più articolato, in mille altre occasioni.Ma si era lì per vedere lui, più che ascoltarlo attentamente. Certo, il circo che gli girava intorno faceva un po’ tristezza. Sembravano avvoltoi, più che pesciolini rossi coetziani.
La lettura della 2a di copertina di Testamento poetico letterario riserva una sorpresa. Vi si dice che “l’immagine di Borges che ne emerge è assolutamente originale e inedita”; e viene un po’ da sorridere, come quando in televisione t’imbatti in un sedicente mago che assicura miracoli portentosi che su di lui, con tutta evidenza, non hanno sortito alcun effetto.
Quindi l’indice, che segnala che dopo le dieci paginette smilze di Borges te ne attendono al varco 70 di Antonio Bertoli; e mi chiedo chi sia ‘sto Bertoli, che come ispanista, o critico letterario, è la prima volta che lo sento nominare. In ogni caso, quelli di Giunti meglio avrebbero fatto ad astenersi dal contrabbandare come libro di Borges un’opera scritta quasi interamente da altri.
I testi di Borges sono esilissimi, sia in quantità che in qualità. Chi lo ha letto attentamente ritroverà le stesse osservazioni ripetute in tante interviste precedenti, cioè in età più lucide. Di nuovo suo non c’è assolutamente nulla, ma questo è il destino editoriale postumo riservato a ogni grande, cioè quello di camuffare da salterio una mera lista della spesa. In cambio ci sono trenta – dicasi t r e n t a – postfazioni di Bertoli, più sei appunti sempre dello stesso, per un totale di quasi settanta pagine. Nella nona, che il Bertoli indica con una variante tutta sua della numerazione romana (VIIII), si parla dell’incidente agli occhi che occorse all’argentino la vigilia del natale 1938. C’è una sterminata bibliografia sull’argomento, e non tanto per l’aneddoto biografico in sé, quanto piuttosto per le conseguenze letterarie che produsse; dato che da quel momento Borges si cimentò stabilmente col genere dei racconti fantastici, con gli esiti che tutti conosciamo e di cui gli siamo grati. Dell’incidente ne parlò Borges stesso, sia nell’Abbozzo di autobiografia e sia, trasfigurandolo, nel racconto El Sur, ed esiste pure la testimonianza della madre (Leonor Acevedo de Borges, Propos, in “l’Herne”, Paris 1964, pagg. 9-11); e tutte convergono nel situare l’incidente sulle scale della casa di una ragazza che Borges era andato a prendere per portarla alla cena natalizia. Il Bertoli invece lo colloca nella biblioteca di quartiere in cui lavorava. Sono inezie, certo, ma basterebbe informarsi un minimo per evitarle; tanto più se ci si presenta come un profondo conoscitore della materia.
Ma pure lo stile alato del Bertoli, di un bellettrismo che non è evidentemente nelle sue corde, trasmette una certa ilarità. Si ha l’impressione che l’autore s’ispiri a modelli alti, con risultati invero modesti. In mezzo a tutto questo spicca, per l’inconfondibile odore di déjà lu, una chicca notevole. Compare a pag.89.
Si tratta di una bella frase su Borges, scritta da Leonardo Sciascia in un articolo sul Corriere della sera del 30.9.79; solo che in questo caso Bertoli l’ha fatta sua. Se l’avesse copiata pari pari si poteva sempre pensare a una dimenticanza, per non aver messo le virgolette. Ma l’operazione è più astuta: s’è tenuto tutt’intero l’impianto e si è adoperato un paio di sinonimi per depistare un po’. E l’errore così è duplice e scoperto, perché la buona fede va a farsi benedire, e le modifiche finiscono per guastare il fragile equilibrio su cui si reggeva il fascino di quel pensiero.
Nell’originale di Sciascia si legge:
“Borges è armato di teologia. Che sarebbe poi l’arma del nemico. C’è un passo delle Altre inquisizioni che ce lo rivela: là dove, parlando dell’enigma di Edward Fitzgerald, dice: “Ogni uomo colto è un teologo”. Al contrario, pochissimi uomini colti lo sono. E solo Borges, oggi, lo è in modo straordinario, eccezionale, totale. Il più grande teologo del nostro tempo. Un teologo ateo. Vale a dire il segno più alto della contraddizione in cui viviamo”
E nella versione di Bertoli:
“In questa guerra contro il tempo Borges si arma di teologia, la quale costituisce in realtà l’arma del suo principale nemico, il tempo. Ciò è rivelato nel passo di Altre Inquisizioni in cui Borges – parlando dell’enigma di Edward Fitzgerald – dice quasi incidentalmente che “ogni uomo colto è un teologo”. Sappiamo tutti perfettamente che non è così, oggi come ieri, ma Borges era definitivamente e in maniera straordinaria, eccezionale, un uomo colto e un teologo: un teologo ateo, il segno più esauriente, emblematico e alto della contraddizione in cui viviamo oggi”
Qui, l’operazione di attribuirsi qualcosa che non gli appartiene è in fondo speculare e simmetrica a quanto fatto dall’editore Giunti assegnando questo libro a Borges anziché a Bertoli. Ma giungiamo alla fine, alla parte più divertente.
E’ il brano più ampio di Bertoli, e s’intitola ambiziosamente “Sulla lettura“. E’ una sorta di racconto autobiografico, che si vorrebbe ispirato e intessuto con raffinata prosa d’arte.
L’autore sta leggendo un libro di Borges – non specifica quale – e riflette sull’amore, la sua vita, trova che ci siano molti punti di contatto. Si capisce che è vita vera, forse si sta abbandonando a una confessione sofferta. Poi smette di leggere e va al bar. Lì incontra una coppia di amici che si amarono, si tradirono, si separarono e si rimisero insieme. Ce l’ha soprattutto con lei, che tiene accanto a sé il suo lui con un misto di ricatti e suplliche, e che ora “è molto curiosa della vita degli altri perché questo è il suo modo di risollevarsi dal disastro della propria vita”.
Viene il sospetto che stia parlando di sé, di una sua storia d’amore, e che un briciolo di pudore in extremis gli abbia suggerito di appiopparla a terzi, ma non vorremmo incorrere nelle ire del motto dell’ordine della giarrettiera, per cui ci fidiamo. Sia come sia, il Bertoli riflette sulle difficoltà dell’amore, si spinge fin sull’orlo dell’aforisma, butta giù un “la coppia è il luogo della vita sottratta” e torna a casa. Adesso usa la seconda persona, si rivolge direttamente al lettore, e scrive: “arrivi davanti alla porta di casa e scoppi a ridere pensando all’idiozia della tua trovata, all’idiozia di ogni definizione”. E ancora, ricorrendo alla paremiologia: “Una risata vi seppellirà: questo buono e vecchio adagio ti torna alla mente. Borges non rideva mai”.
E a questo punto è il lettore che ride. Come “Borges non rideva mai”? Quello è il cliché nato dalla caricatura dell’argentino diffusa da Eco ne Il nome della rosa, nella figura del torvo Jorge da Burgos. Al contrario, rideva spessissimo. Nelle conversazioni che ebbi con lui – a Venezia, Roma, Milano e Senago – ricordo un Borges allegro, gioviale; forse perché si godeva quel successo tardivo e inatteso che, per strane ragioni, considerava immeritato; o forse per timidezza, perché non amava mostrarsi triste e malinconico in presenza di estranei.
Perfino l’ironia del destino lo aveva sempre affascinato, sia nella buona che nella cattiva sorte. Nel “Poema de los dones” tratto da El Hacedor, parlando della sua cecità, che sopraggiunse contemporaneamente all’incarico di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, Borges intima che “nessuno umili a lacrima o a rimbrotto/ la dichiarazione della maestria/ di Dio, che con magnifica ironia/ mi dette insieme i libri e la notte”. La verità è che era tutto fuorché il tipico intellettuale mutrioso. Per lui la letteratura era un gioco. Un gioco pedante forse, ma pur sempre un gioco. E il ritratto fotografico che lo rappresenta meglio, a mio parere, è proprio quello fattogli da Scianna al Grand Hotel Villa Igiea di Palermo nel 1983, in cui Borges ride in un modo quasi contagioso.
Siamo alle ultime righe, il Bertoli prepara la chiusa ad effetto, si avverte che ama la prosa caudata. Ma nel frattempo continua a ridere; ride talmente tanto che sembra il gatto del Cheshire. Non c’è più Borges, letteratura, argomentazioni logiche, senso. Solo un sorriso inquietante e ineffabile.
“Allora ridi ancora. Ridi ancora più forte. Ridi dei libri, dell’arte, della vita e della letteratura. Ridi del mondo e di te stesso. Ridi della tua spada, della tua mania di poesia. Ridi della gente che conosci, dell’amore e della morte. Ridi di Borges, di Rimbaud, di Majakowski [sic], di Dylan Thomas, di Dino Campana. Ridi di Caravaggio e dei poeti. Ridi della vita. Ridi. Ma ridi solo per non piangere”.
E’ proprio vero, a volte si ride solo per non piangere.
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Ahahah!
Bel destro bene calibrato, S. G.
– grazie –
Bene, grazie per avermi evitato un acquisto inutile!
Ma è FANTASTICO! Labranca impazzirebbe. Siamo in piena zona trash, Viene voglia di comprarlo subito!
Scusate non ho saputo resistere. Non so se è la stessa persona ma ho scoperto in rete che Antonio Bertoli tiene un corso su “l’arte del Tarocco”.
Cosa direbbe Borges?
> Borges rideva spessissimo
Cfr. Da:Lucangel (nospam@nospam.it)
Oggetto:Uno scherzo non riuscito
Newsgroups:it.cultura.libri
Data:2003-08-08 05:28:38 PST
Ricordo che un giorno decisi di fare a Borges uno scherzo. Lo raggiunsi da
dietro in punta di piedi e gli coprii gli occhi con le mani.
“Cucù, chi sono?”
“Togli quelle manacce, ché tanto sono cieco”, sbuffò Orghe infastidito.
“Ooops, perdona la gaffe. Ma indovina chi sono?”
“Sei Garufi.”
“Acqua.”
“Ma sì che sei Garufi.”
“Invece no. Sono Adolfo.”
“Adolfo chi?”
“Adolfo Bioy Casares.”
“Ma fammi un piacere. Sei quella piattola di Garufi.”
Insistetti ancora un po’, ma non ci fu verso di inculcargli il sospetto che
potessi essere davvero Adolfo Bioy Casares. E pensare che, per risultare il
più convincente possibile, avevo mandato a
memoria tutti i titoli delle opere che i due avevano scritto insieme (“Sei
problemi per don Isidro” e tutti gli altri).
Quando vidi che il mio scherzo l’aveva solo – imprevedibilmente –
intristito, per fargli tornare il sorriso sulle labbra presi a
canticchiargli in un orecchio “Don’t cry for me, Argentino”. Ma Orghe si
arrabbiò ancora di più. Corse a chiudersi in bagno e per diverse
ore non volle più saperne di uscire…
(da “Iooooo e Borges”, di Sergio Garufi, Edizioni Palladiane)