Un’ora sola ti vorrei
Intervista a Alina Marazzi di Gabriella Fuschini
Sei mesi fa ho lanciato su Nazione Indiana l’iniziativa La lista della spesa (leggibile qui). Nelle settimane successive ho ricevuto alcuni contributi. Purtroppo, dopo poco tempo ho avuto gravi problemi informatici, che ho risolto soltanto alcuni giorni fa. Nel frattempo, in estate, ho ricevuto da parte di Alina Marazzi le risposte alle domande di Gabriella Fuschini. Sono in grado di pubblicarle soltanto ora. Nei prossimi giorni pubblicherò anche gli altri contributi. Mi scuso con Gabriella Fuschini, Alina Marazzi e tutti gli altri partecipanti per l’attesa. (T.S.)
Presentato al festival di Locarno nel 2002, il film-documentario Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi (il sito dedidato al film è qui) circola da un anno in Italia e all’estero, raccogliendo elogi dalla critica e commosse reazioni dal pubblico. La regista cuce insieme un tessuto che è dei più fragili e delicati: la storia di una giovane donna, sua madre, che dopo esser caduta in depressione, si toglierà la vita.
Siamo in una ricca famiglia borghese, quella dell’editore Hoepli. Come in un romanzo, è importante la cornice per capire la storia di Liselì, la protagonista, che da questo ambiente si sente schiacciata, come se si sentisse sempre inadeguata rispetto ai modelli con cui è cresciuta. E anche i soldi, le verranno rinfacciati nel momento in cui serviranno per pagare le case di cura, per una malattia difficile da accettare in quel periodo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
Nel film sono presenti tutti i mezzi di comunicazione, a cominciare dalla scrittura. E’ la scrittura delle lettere e dei diari che costituisce lo scheletro della sceneggiatura. Ci sono poi le canzoni dell’epoca, suoni originali registrati, rumori d’ambiente e pensieri ad alta voce. E poi le immagini che hanno una grande forza per il loro collegamento a tutti gli altri mezzi. Si passa dal bianco e nero al colore, dalle immagini in movimento alle fotografie, al sovrapporsi di pagine scritte e documenti.
Perché questo titolo, che coincide con la durata del film?
Il titolo, Un’ora sola ti vorrei, è stato in qualche modo, “inevitabile” come molte alte scelte del film. Il disco 45 giri all‚inizio del film, con la voce di mia madre, si interrompe proprio quando lei inizia a cantare Un’ora sola ti vorrei rivolta a noi bambini. Ho ascoltato quel disco molte volte da bambina, perché mi divertiva ascoltare la voce dei miei genitori scherzare; poi, da adulta, le voci su quel disco sono diventate sempre più il richiamo struggente al mistero della vicenda di mia madre. Stranamente da piccola ho ascoltato più spesso il disco di quanto non abbia guardato fotografie di mia madre. Ascoltandolo più volte, da adulta, ho capito che dietro a quelle voci scherzose, quelle risate, si celava il dramma del distacco da noi bambini, delle ripetute partenze verso le cliniche svizzere. La voce di mio padre infatti dice “la mamma è appena arrivata dalla Svizzera”, ma non la Svizzera delle passeggiate e delle montagne…, e mia madre comincia a cantare:
Un’ora sola ti vorrei
per dirti ancor coi baci miei
quel che tu sei per me…
esprimendo il desiderio di trascorrere anche solo un‚ora in più con noi. Ecco, facendo il film, e iniziando con quel disco , io ho ripreso il suo desiderio, interrotto, come la sua voce nel disco, come la sua vita, e l’ho fatto mio, perché anch‚io le dico Un’ora sola ti vorrei. Il film poi, in maniera forse non casuale, dura un’ora , ed è l’ora che io oggi posso trascorrere con mia madre, e lei con me, ogni volta che lo vogliamo. Ed è tanto.
È molto interessante la sovrapposizione degli sguardi, quello di tuo nonno, il tuo e poi il lavoro di montaggio. Come sei riuscita a non cadere nel sentimentalismo e nell’angoscia? Alla fine non c’è pesantezza, si esce dalla sala con un senso di leggerezza.
Mi fa piacere questa affermazione, anche se credo che non sia così per tutti gli spettatori… Per me il film è pieno di vita, pieno di gioia, pur parlando di morte, di assenza e impotenza. Il film è nato dalla necessità di conoscere mia madre, scomparsa nel ’72 quando io avevo sette anni e di cui in famiglia non si è mai più parlato. Crescendo, a un certo punto non è più stato possibile non sapere da dove venivo e così ho cominciato e guardare i vecchi filmini amatoriali di mio nonno, a rileggere le lettere di mia madre e mi sono anche messa alla ricerca delle cartelle cliniche presso i diversi ospedali. In qualche modo ho intrapreso un’indagine che si è svolta in contemporanea alla realizzazione del film. Man mano che il lavoro di montaggio delle immagini e di selezione dei testi proseguiva, il film, la storia di Liseli si ricomponeva davanti ai miei occhi, cominciavo a conoscerla intimamente e nel mio cuore il sentimento di amore nei suoi confronti cresceva. Credo che sia per questo motivo che nel film non c’è sentimentalismo o retorica… perché in fondo Un’ora sola ti vorrei è un omaggio, un atto d’amore verso chi mi ha messo al mondo, verso una donna che io ora, come donna adulta, posso comprendere e accogliere. Un’ora sola ti vorrei è un percorso di riconciliazione, non di rivendicazione, che passa attraverso la riappropriazione del volto e dello sguardo di mia madre. Lo sguardo materno che mi è venuto a mancare nella vita era stato conservato in quelle scatole di 16mm, e si è nuovamente rianimato nel momento in cui io, la figlia, ho posato il mio sguardo su di lei.
Il lavoro che hai fatto con questo film è un lavoro di recupero di una memoria personale e insieme collettiva, ricorda molto la narrazione di storie di vita o autobiografia. Cosa ti ha spinto verso un’operazione così profonda e allo stesso tempo che rende pubblica la vita della tua famiglia?
È stata una necessità intima e personale quella di ricucire insieme le parti sparse della mia memoria e di conseguenza della mia famiglia; io ho cominciato a lavorare al recupero della mia memoria per me, unicamente per me e da sola. Non sapevo che poi tutto ciò mi avrebbe portato alla realizzazione di un film. C’è stata una dose di inconsapevolezza nel processo di creazione del film che è stata fondamentale (l’ho capito a posteriori), perché ha significato libertà e di conseguenza poesia. La domanda che mi sono posta all‚inizio è stata: chi era Liseli?, e solo in un secondo momento, quando il film è stato presentato per la prima volta pubblicamente a Locarno, mi sono posta il problema dell’esposizione pubblica della storia, dato che quella vicenda coinvolgeva anche altre persone. Ma ormai il film era compiuto, era diventato un’opera, autonoma da me, e “doveva” essere mostrato. Come dicevo prima, il film inizialmente doveva rimanere un mio album di famiglia privato. Lavorando al film però mi sono resa conto, anche grazie all’amica e montatrice Ilaria Fraioli, che la storia di Liseli andava oltre al caso personale e isolato, era la storia di molte donne, di molte madri e figlie , di molti genitori e figli. Ed è per questo credo che il film sia arrivato a toccare così tante persone, perché il film parla delle cose di sempre della vita di ogni persona: l’amore, la perdita, il rapporto genitori-figli, il sentimento di inadeguatezza, i sogni, le delusioni, e tante altre cose, oltre ad essere anche il ritratto di un’epoca .
La sensazione molto forte è quella che tua madre oltre a soffrire di un forte disagio creato dall’ambiente in cui è vissuta, non sia stata poi curata nel modo più giusto. Credo che questo film sia molto importante per tutte le persone che soffrono di un malessere esistenziale come lo ha sofferto lei, ora la pratica clinica è in grado di accogliere più di ieri la sofferenza e il disagio. Tu cosa ne pensi?
A seguito del film ho ricevuto molte lettere di persone che soffrono di disagio esistenziale o mentale che si sono riconosciute in Liseli, o almeno in qualche parte di lei; sono tutte lettere di ringraziamento perché il film le fa sentire meno sole e incomprese. E‚ come se la voce di Liseli che finalmente prende spazio e corpo nel film, risonasse anche in loro e parlasse al mondo anche della loro esperienza, indipendentemente dall’età, sesso, condizione sociale, provenienza geografica. Nel film non ho approfondito l’aspetto della malattia mentale, argomento molto complesso e ancora oggi circondato da pregiudizi e incomprensione, molto più di quanto non crediamo. Non avevo – e tuttora non ho – gli strumenti necessari per farlo, ma soprattutto per una sorta di rispetto per quello che è il mistero del mondo interiore della persona, il mistero dell’esistenza. So che il film è stato visto all’interno di gruppi di auto-aiuto di persone che soffrono della medesima sindrome di Liseli, che ora viene chiamata bipolare, e che quindi la sua valenza “terapeutica” si estende anche oltre il mio vissuto; è anche stato più volte presentato all’interno di gruppi di studio di psicoanalisti, psicologi, terapeuti, che in qualche modo vedono nel film il vero e proprio processo di analisi divenuto creazione. Il film quindi opera su due livelli: da un lato l’identificazione con il vissuto di Liseli, la madre, dall’altro con il punto di vista di Alina, la figlia, e il suo percorso di “auto-analisi”. Per quel che ne so, oggi alcune cose sono cambiate, ma non così tanto come ci si aspetterebbe; siamo ancora purtroppo molto ignoranti e impreparati davanti alla malattia mentale, sia a livello individuale che a livello medico.
Attraverso il tuo lavoro si apre la possibilità di lettura e identificazione di molteplici punti di vista, è stata una scelta precisa o è scaturita per la forza della narrazione contenuta nel film?
Il materiale che avevo a disposizione, i filmati di famiglia girati da mio nonno materno tra il 1926 e il 1972, e le lettere e i diari di mia madre scritti tra il 1952 e il 1972, esprimevano ognuno un forte carattere. Mi sono trovata quindi ad avere a che fare non con materiali “neutri”, ma con parole e immagini autobiografiche che esprimevano le personalità dei rispettivi autori. In più c’ero io con la mia indagine sulla vicenda di Liseli e il mio rapporto forzatamente emotivo sia con quelle immagini che con quelle parole.
In un primo tempo ho lavorato solo al montaggio delle immagini, cosa che mi ha permesso di apprezzare ancor più la loro bellezza e potenza evocativa. In sala di montaggio, guardando e riguardando le immagini con Ilaria notavamo come quei “filmini di famiglia” non erano affatto immagini casualmente rubate ai momenti di vita famigliare, erano tutte sequenze in qualche modo “costruite”, coreografate dall’autore, da quel regista inconsapevole che era mio nonno. Come se il mezzo cinematografico, pur usato nel contesto amatoriale, fosse stato da lui utilizzato per mettere in scena una autorappresentazione di sé, della propria famiglia, della classe sociale a cui apparteneva. Non era semplice decostruire quelle sequenze, la forza del punto di vista del loro autore emergeva a fior di fotogramma ad ogni taglio… l’autore si imponeva con tutta la sua autoritarietà là in quella sala di montaggio, così come lo aveva fatto nella vita con la sua famiglia. D’altro canto le parole dei diari di Liseli contraddicevano tutta quella felicità che veniva ostentata nelle immagini; l’accostamento in contrappunto parole–immagini era la via da seguire e forse l’unica possibile. Come se le parole svelassero tutta la falsità delle immagini. Ci tenevo che le parole di Liseli avessero tutto lo spazio possibile – sono così belle! – per finalmente dar loro la possibilità di essere ascoltate. I miei interventi di scrittura sono minimi e solo all‚inizio, necessari per dare avvio al racconto. La lettera che ho scritto per l’inizio, come se fosse Liseli a scriverla, serve a dare alcune informazioni, a presentare i personaggi della storia, ed attiva il dialogo con mia madre, dialogo mancato nella vita ma vivo nel film. Facendo mio il suo desiderio di trascorrere un’ora in più con me, attribuisco a lei quella lettera, e il desiderio di “essere raccontata” la propria storia. La sua e la mia.
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Una volta, per caso, conobbi Ulrico Hoepli. Eravamo alla libreria Hoepli, in via Ulrico Hoepli. Gli dissi che mi sentivo in imbarazzo a parlare con uno che aveva il nome di una via. Sorrise: “Non sono io, quell’Ulrico.” Parlammo del mio libro, lo regalò ad un gesuita che stava entrando in quel momento in libreria (scoprì, dopo, che era il direttore del “centro San Fedele”). Me ne andai da lì con la conferma delle mie idee sulla “splendida” borghesia milanese.
Le cose non sono mai come le immagini, ecco la verità. O forse ci vuole uno sforzo di immaginazione. O di realtà.
Farò di tutto per vedere il documentario. Grazie Gabriella.
Bella intervista. Toccante.
Grazie, si Gabriella, intervista toccante, come dice Franz. Piena di sana melanconia intellettuale, di una sottocutanea voglia di vita.
io ho visto il film – una domenica sera, su non ricordo che rai – e m’è parso davvero bello. arrivava dritto dritto.
Bello. Mi piacerebbe vedere anche il film, del quale avevo letto qualcosa quando lo presentarono a Locarno. A me, che sono nata crucca, quel nome, “Liseli”, diminutivo di Elisabetta o Lisa mette i brividi. Perché è un nome infantile, perché è svizzero, arcisvizzero anzi, potrebbe essere la sorella di Heidi, perché rimane addosso a una donna adulta che appartiene alla borghesia milanese.
quelle immagini hanno attivato molto in ogni spettatore, noi compresi, ricorda…